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Pensieri sul '68



Giancarlo Bosetti




Per ricordare Guido Davide Neri, il filosofo milanese scomparso un mese fa, a sessantacinque anni, possiamo cominciare da un brano con il quale si chiude uno dei suoi ultimi lavori, un breve saggio sul Sessantotto scritto in occasione del settantesimo compleanno del collega e amico Fulvio Papi: “La caduta del Muro di Berlino è stato un evento liberatorio e nello stesso tempo l’inizio di una nuova fase storica che non ha avuto il carattere di una sintesi, ma di una omologazione in cui riesce difficile riconscere un happy end. L’Europa non è più divisa in due ma non ha ancora ritrovato se stessa. Come è spesso accaduto nelle rivoluzioni mancate, la Primavera di Praga - e il movimento complessivo del ’68, nei suoi aspetti più innovativi - costituisce la premessa di qualcosa che abbiamo ancora davanti a noi”.


Praga, 1968


Siamo nel 2000, pochi mesi fa, e la riflessione di questo studioso lombardo (ha lungamente insegnato a Verona sulla cattedra di Estetica dopo essersi formato tra Pavia e Milano con Antonio Banfi, ed aver poi proseguito la ricerca accanto alle figure più rilevanti del pensiero filosofico di quelle parti: soprattutto Dino Formaggio, Enzo Paci, e lo stesso Papi) si volgeva a un autore cecoslovacco come Jan Patocka, uno degli animatori della dissidenza cecoslovacca, perseguitato negli anni della repressione della Primavera e morto nel 77 di emorragia cerebrale dopo pesanti interrogatori di polizia.

Sul Web si può ancora consultare il programma del suo corso dedicato a Patocka. Perchè Neri, che pure ha sviluppato una molteplicità di interessi in direzione della fenomenologia e dell’estetica (stava preparando un lavoro sul Caravaggio), tornava a battere su questa strana stagione del secolo scorso? Perchè era attratto dal ciclo di eventi e di pensieri che hanno consegnato alla nostra memoria uomini che sono spuntati fuori da un varco che sembrava liberatorio, e che si era aperto nel mezzo di un plumbeo regime comunista, per richiudersi poi ancora per più di due decenni? Che cosa lo attraeva di quella fase di speranze sconfitte?

Neri lo spiega in quel breve saggio in onore di Papi. La Primavera cecoslovacca deve essere secondo lui sottratta ad un giudizio sull’era comunista che appiattisca ogni cosa e perda di vista un evento illuminante, un dramma in cui tante energie umane si sono riversate in un tentativo di sottrarre la società moderna e di massa alla manipolazione del potere. Né Patocka né Guido Neri erano comunisti o marxisti, ma entrambi avevano in comune la convinzione che il ’68 avesse rappresentato, di qua e di là della cortina di ferro, un tentativo di mettere in gioco forze nuove - la massa di lavoratori intellettuali emergente dallo sviluppo economico, tecnico e scientifico - come una risorsa emancipatoria capace di prefigurare una epoca nuova tanto per l’Est come per l’Ovest.

In effetti, percorrendo questo itinerario concettuale e soffermadosi su quelle speranze andate sconfitte, Neri era tra coloro che hanno cercato di dare una spiegazione all’enigma, mai del tutto risolto, delle ragioni per cui quell’ondata di movimenti politici, culturali e spirituali, che è stato il ’68, abbia coinvolto parti così lontane del mondo e contesti politici così distanti (tanto quanto erano distanti la Parigi di Cohn Bendit e la California di Marcuse dalla Praga di Dubcek). Senza perdere di vista le differenze tra un regime autoritario e una democrazia, tuttavia Neri scandagliava quel che accomunava il socialismo staliniano al capitalismo occidentale e trovava in entrambi due versioni della “manipolabilità”, due versioni di elitismo, contro i quali sperava di vedersi un giorno erigere una società libera, sviluppata, produttiva che avesse alla sua base come forza centrale di sostegno il lavoro intellettuale.

Gli interessi etico-politici di questo filosofo schivo, deliberatamente e programmaticamente schivo, in base a uno stile di vita che, pur non avendolo conosciuto personalmente, so di poter paragonare (parola di suoi allievi) a quello di Fulvio Papi, facevano parte della sua personalità fin dall’epoca dell’apprendistato con Banfi, quel Banfi che nella Milano degli anni Cinquanta aveva portato ventate di una variegata cultura internazionale (specialmente il marxismo e la fenomenologia husserliana) spazzando via quel “castello incantato dell’idealismo”, come l’aveva chiamato Eugenio Garin, che aveva imprigionato per decenni i filosofi italiani: “Non più le ombre e le idee ma le cose si facevano avanti”.

“Guido Neri cominciava l’università”, racconta oggi Papi, “mentre io, di qualche anno più vecchio, ero un assistente di Banfi. Guido aveva una autentica devozione per lui: ed il suo interesse per il maestro si sviluppò in due direzioni, una teoretica una politica. Quella teoretica avrà sviluppi attraverso la fenomenologia di Paci, quella dell’ultimo Husserl, del mondo della vita, della Krisis. Neri andò in Germania a studiare Husserl e ne tradusse "Logica formale e trascendentale", che si colloca accanto alle traduzioni del corpus husserliano di Enrico Filippini. Nei confronti di Banfi sviluppò anche una certa distanza critica, il che gli consentì tra l’altro di scrivere su di lui il libro probabilmente più importante”. Anche in quegli studi si affacciava il tema di un imponente sviluppo tecnico scientifico al quale non corrispondevano però sviluppi altrattanto entusiasmanti della libertà umana.


Praga, 1968


Un altro filosofo che gli è stato molto vicino, Gabriele Scaramuzza, racconta la sua speciale riservatezza consistente nel desiderio di rifuggire dal protagonismo, nel non partecipare alla spettacolarizzazione della filosofia, nel difendere la verità del proprio pensiero nei confronti di agenti esterni e invasivi come i mezzi di comunicazione di massa, nel costruire una zona di discrezione nella quale l’esercizio della filosofia si potesse svolgere a beneficio degli studenti.

Il suo tema era quello delle filosofie della libertà maturate nei regimi oppressivi, da qui l’attrazione che esercitavano su di lui i testimoni di libertà dell’Est, da Havemann a Korsch a Patocka e, in generale, quelle filosofie di tipo fenomenologico che non si potevano declinare come filosofie del potere. C’era in lui sempre (ancora parole di Papi e di Scaramuzza) un forte sospetto verso i pericoli della istituzionalizzazione politica delle idee, un sospetto verso ogni possibilità di trasformare il discorso in potere.

Qualche titolo per chi volesse approfondire l’opera di Guido Neri:

-Aporie della realizzazione. Filosofia e ideologia nel socialismo reale, Milano, Feltrinelli, 1980.
- Crisi e costruzione della storia : sviluppi del pensiero di Antonio Banfi. Napoli, 1988
-Prassi e conoscenza, Feltrinelli 1966

La redazione di “aut aut” commemorerà Guido Davide Neri pubblicando la sua bibliografia completa sull'ultimo numero del 2001.



Gabriele Scaramuzza ne traccia un ricordo per “aut aut”, di cui pubblichiamo qui qualche brano:

La sua sensibilità privilegiava le arti visive, aveva una non comune abilità grafica; lo testimonia anche (in queste righe scritte a caldo non posso che affidarmi alla mia memoria spontanea) l’originale testo scritto da lui nel ’65 per Il morso dell’Asino, di Gabriele Galantara. Da questo punto di vista mi sembra soprattutto significativo il fascino che in anni più recenti esercitava su di lui Caravaggio - un vero e proprio amore, che si faceva per lui insegna di radicate predilezioni filosofiche (gli ha dedicato uno scritto apparso su “Aut aut”, un progetto di lavoro su di lui era vivo nel suo animo fin negli ultimi tempi).
Nei primi anni di università, a Milano, è stato tra gli ultimi allievi diretti di Antonio Banfi, e di quel mondo coltivava in sé - tra gli ultimi, credo - certi sapori, e sicuramente non i più caduchi: soprattutto un certo stile sobrio nel praticare la cultura, un certo modo di farla agire nella vita: non contro la vita, non a scapito dell’amore per la vita. E una sensibilità che resta fenomenologica, un senso vissuto prima ancora che teorizzato del disinteresse nella ricerca, come attività in pura perdita, refrattaria a ogni calcolo circa il cui prodest. E tutto questo nonostante la netta, e ben comprensibile, presa di distanza critica rispetto a talune posizioni banfiane, evidente in Crisi e costruzione della storia. Sviluppi del pensiero di Antonio Banfi (del 1984, rivisto nel 1988). Ma tra i suoi più autentici maestri vi fu anche Enzo Paci; uno dei suoi scritti che ho letto con più partecipazione è il commento alla pubblicazione su “Aut aut” dei Colloqui con Banfi di Paci.
Guido era uomo di profonde curiosità e di grande finezza teoretica; qualcosa del suo atteggiamento culturale è ben messo a fuoco da un passo dei Dialoghi sulla pluralità dei mondi di Fontenelle, che non a caso egli stesso ha anteposto alla prima parte di Prassi e conoscenza: tutta la filosofia, vi si legge, “è fondata su due cose: cioè sul fatto che abbiamo la mente curiosa e la vista cattiva”, che ci fa vedere le cose diverse da quello che sono; talché “i veri filosofi passano la loro vita non credendo a quello che vedono e studiandosi di indovinare quello che non vedono, condizione, mi pare, non troppo da invidiarsi”. Non senza ironia c’è tutto: una curiosità aperta, che non cede a stanchezze, una voglia di interrogare, e di interrogarsi, che non accetta compromessi; quel che si dice un atteggiamento critico sempre desto, che non si accontenta mai di certezze date, sapendo la debolezza della vista umana.


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