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Lettera all'avvocato Agnelli



Guido Martinotti




Anni fa, tratto in giudizio per una micragna di confini da un Berluschino locale, durante un sopralluogo, poiché gli eventi volgevano a suo svantaggio, il mio avversario si è messo a gridare che si stava offendendo la giustizia italiana. Anche il Senatore Agnelli, abituato a pensare che ciò che è bene per la Fiat è bene per il Paese scambia le critiche a Berlusconi per critiche al Paese, e lascia la panchina a favore di Berlusconi criticando l'Economist e altri giornali stranieri perché tratterebbero gli elettori italiani come cittadini di una repubblica delle banane, giudizio che riprende le reazioni della stampa berlusconiana.


Da un certo punto di vista niente di nuovo, cane non mangia cane. E poi, come scrive Bocca, il motto della Fiat è "Noi siamo costituzionalmente governativi" e poiché il prossimo governo sarà quello del secondo Cavaliere della Storia d'Italia anche la Fiat si allinea. Ma se ci fermiamo a riflettere un poco più a lungo dei trenta secondi che ci vogliono normalmente per far scivolare l'attenzione di queste notizie alla successiva ci convinceremo dei risvolti bizzarri dell'affermazione. Infatti chi tratta gli italiani da sudditi della Repubblica delle banane non è l'Economist, ma la propaganda berlusconiana.

Su Il Giornale del 4 maggio Sgarbi gongola perché i giornali sono pallottole di carta e quello che vi si scrive non sposta un voto. Probabilmente ha ragione, perché in un elettorato in cui solo il 10% legge i giornali e in media si passano ore davanti al teleschermo sposta di più una battuta di Rita Dalla Chiesa o Iva Zanicchi che l'intervista di un Nobel. E' questa la realtà su cui giocano Berlusconi e la sua nuova intellettualità.

I maitres a penser sono sostituiti dai maitres à parler. E‚ un po' come avvenne con l'introduzione della polvere da sparo, finché non si eguagliarono le risorse, i primi a usarla su grande scala furono in grado di sterminare l'avversario come avvenne con le guardie svizzere alla battaglia della Bicocca. Ma è proprio questo tipo di repubblica che non solo l'Economist, ma almeno metà degli italiani teme.


In Italia il colloquio con la folla è già stato sperimentato, dal balcone di Palazzo Venezia. La politologia moderna è concorde, ma del resto ci erano già arrivati i greci: la democrazia si giudica non dal grado di consenso, perché questo è massimo nei regimi totalitari, ma dalle procedure per ottenere tale consenso. Caro Senatore Agnelli, non siamo una Repubblica delle banane, ma c'è qualcuno che desidera di essere il caudillo di una repubblica in cui chi comanda può usare non le pallottole di carta, ma i cannoni della televisione.

L'Economist e gli altri critici stranieri che possono giudicare con maggiore equanimità perché non hanno interessi diretti, se parlano si rivolgono a chi vuole una Repubblica di cittadini e non di sudditi e Lei dovrebbe aiutare chi una Repubblica di questo genere non la vuole davvero. Basta avere qualche contatto fuori d'Italia per cogliere il palpabile senso di stupore e dileggio che suscita un paese in cui c'è il rischio che vada al governo una persona che si propaganda con il livello del libretto su Berlusconi.

Che ci sia una cultura disponibile a ricevere questo tipo di messaggio è fuori discussione. E' una cultura in cui predomina "un insieme di tratti, che gli analisti chiama[no] con nomi diversi, in ragione della loro specificità e cioè con i termini di 'familismo', di 'qualunquismo autoritario', di 'xenofobia', di 'conservatorismo politico economico', di 'disinteresse politico', di 'protesta individualistica', tratti tra loro fortemente correlati statisticamente, tanto da meritare la definizione globale di 'sindrome dell'arretratezza socio-culturale'".

Non è una descrizione dell'elettorato del Polo, ma l'analisi degli atteggiamenti di un campione di 7530 giovani tra i 14 e i 25 anni di età, intervistato dall'ISVET all'inizio degli anni 70. Oggi elettori tra i 44 e i 55 anni d'età. (Carlo Tullio-Altan, La nostra Italia, Università Bocconi editore, Milano 2000, p.5). Ma è la qualità delle élite che conta in un paese, non solo quella della parte più arretrata del suo elettorato.


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