Buchettino secondo la Raffaello
Sanzio
José Luis Sànchez-Martìn
Il teatro per ragazzi degli ultimi vent’anni si è mosso tra due
estremi contrapposti che esprimono concezioni e approcci al pubblico
infantile molto diverse. Da una parte spettacoli semplicissimi che
utilizzano mezzi e linguaggi che già appartengono ai bambini e che,
in nome della loro ingenuità e del loro bisogno di partecipazione,
molto spesso non vanno oltre a una sequenza di banalità e luoghi
comuni proposti con facile ruffianeria per strappare un consenso
scontato, qualcosa di più vicino all’animazione da campeggio estivo
che al teatro.

Nell’altro estremo, troviamo quegli spettacoli che, pretendendo di
esprimere un’alta dimensione di arte e sperimentazione, utilizzano
linguaggi e rielaborano mezzi secondo criteri molto intellettuali che
risultano il più delle volte lontani e incomprensibili ai bambini e
sembrano destinati più ai critici e agli addetti ai lavori che al
pubblico infantile. Certo non tutte le compagnie specializzate in
teatro per ragazzi sono collocabili in uno di questi estremi e non
mancano numerosi esempi di equilibrio, basterebbe citare il Minimal
Teatro Giallo Mare di Empoli, vincitore di vari premi ETI, che ha
saputo negli anni addentrarsi efficacemente nella sperimentazione di
nuovi linguaggi e mezzi tecnologici, come il video e le proiezioni,
senza perdere mai una componente di forte e coinvolgente
comunicazione, mirata alle esigenze specifiche del loro giovane
pubblico. Mentre il teatro del primo gruppo, quello ruffiano e
balneare, è più o meno sempre rimasto alla stessa formula e alle
stesse tematiche e dinamiche, quello delle compagnie realmente o solo
presuntamente impegnate, è cambiato nel tempo seguendo delle vere e
proprie mode che escludono categoricamente chi non ne è allineato.

Così, dopo aver messo al bando per lungo tempo la narrazione lineare
e comprensibile e soprattutto la fiaba classica, da qualche anno sono
proprio le compagnie impegnate a occuparsene, rispolverando dalla
censura nomi in precedenza ripudiati come Biancaneve, Pinocchio e
Hansel e Gretel.
Desta quindi inevitabile curiosità lo spettacolo per bambini Buchettino,
tratto dalla classica fiaba Le Petit Poucet di Charles Perrault,
che per una ventina di giorni la rarefatta e inquietante compagnia
Societas Raffaello Sanzio presenta in apertura di stagione al Teatro
India, la suggestiva e polivalente struttura del Teatro di Roma
ricavata da un ex stabilimento industriale, voluta dall’ex direttore
artistico Mario Martone come luogo deputato alla ricerca e alla
sperimentazione teatrale.
La Raffaello Sanzio è nota soprattutto come una delle più importanti
(e per qualcuno la più geniale) tra le compagnie del teatro di
ricerca italiano, insignita di vari riconoscimenti e premi tra cui l’Ubu
2000 come migliore spettacolo per Genesis, presentato l’anno
scorso sempre dal Teatro di Roma ma nella sua sede più tradizionale,
il Teatro Argentina. I loro spettacoli sono provocatori, eccessivi,
grotteschi e arroganti e a parer nostro, consapevolmente
controcorrente, abusano e bluffano elegantemente e superficialmente
sul fascino fin troppo facile del mostruoso, dell’oscuro, dell’inquetante,
della malattia, del culto di Thanatos che sotto altre forme ed
estetiche ormai impera e permea tutta la comunicazione massmediologica,
a volte sotto forma di Trash, o di Pulp, o di Body Art, o di violenza
anestetizzata, o di autolesionismo compiaciuto, o più semplicemente
di spicciola morbosità televisiva.

Anche Buchettino si basa fondamentalmente e progettualmente su
un bluff. In sostanza lo spettacolo presenta tre livelli: quello
scenografico o di ambientazione, uno stanzone semibuio di legno col
soffitto basso in cui i cinquanta piccoli spettatori vengono invitati
a sdraiarsi in altrettanti lettini a castello sotto le coperte, meglio
se rimanendo a occhi chiusi; quello narrativo vero e proprio portato
avanti da un’attrice seduta al centro dello stanzone e illuminata
dalla fioca luce dell’unica lampadina accesa per la durata del
racconto e infine il livello acustico, l’ambientazione sonora che
illustra l’andamento narrativo e le immagini evocate, utilizzando
musica e soprattutto rumori, in parte registrati e in parte eseguiti
dal vivo al di fuori e contro le pareti e il soffitto dello stanzone.
Il livello narrativo, la lettura lineare e teatralizzata del racconto
di Perrault, che potremmo definire in stile abbastanza classico,
funziona molto bene grazie all’interpretazione intensa, variegata ed
efficace dell’attrice Monica Demuru, che malgrado la costrizione a
essere praticamente tutto il tempo seduta, riesce ad articolare in
modo affascinante anche la sua suggestiva e potente presenza, tanto da
chiederci perché bisogna chiudere gli occhi davanti a un così
interessante e coinvolgente spettacolo.
Non gioverebbe certo l’uso del microfono in una tale condizione
ravvicinata e che vorrebbe essere intima, ma si rende necessario per
gli inutili o eccessivi effetti con cui viene deformata la voce della
narratrice, deformazione che raggiunge quasi la violenza nella
terrificante e compiaciuta voce dell’orco, tanto forte e realmente
terribile da sbilanciare emotivamente il racconto in quel versante
inquietante e pauroso, senza che poi il finale felice riesca nella sua
necessaria funzione di liberazione catartica, definitivamente
rassicurante.

L’operazione dimostra i suoi gravi limiti proprio in quei livelli
che dovrebbero dare la differenza e caratterizzarla come progetto
speciale e sperimentale. L’ambientazione scenografica con gli
spettatori sdraiati nei lettini non è altro che una trovata e lo
dimostrano le deboli e superficiali premesse che dovrebbero
giustificarla. Come ambientazione reale, più che la camerata o la
casetta povera del racconto, sembra un rifugio antiaereo della seconda
guerra mondiale o peggio ancora un campo di concentramento nazista.
L’ambientazione sonora, che dovrebbe rendere presente ciò che si
racconta al passato, rimane anch’essa a livello di trovata, visto
che è illustrativa, banale, didascalica, superficiale, quando non
diventa violenta nello scagliarsi contro muri e soffitti della stanza,
giocando facilmente sull’inevitabile senso di pericolo e
inquietudine che viene provocato accentuando il senso di claustrofobia
dello stanzone.
In generale questa operazione dimostra che i realizzatori non hanno
molta conoscenza della materia trattata, la fiaba gotica, delle sue
leggi e dei suoi meccanismi intrinsechi che richiedono una
particolare, nonché molto articolata, comprensione da parte del
bambino.
Un allestimento inutile che potrebbe fare a meno di quel costosissimo
contorno di trovate snob, quando invece potrebbe prosciugarsi fino
alla vera sostanza del racconto, la sola splendida attrice-narratrice
Monica Demuru e magari accanto a lei un rumorista che a vista giochi
coi suoni per dare un’ulteriore dimensione immaginativa che non
abbia bisogno di camionate di legno, strutture e attrezzi, ma che si
possa fare ovunque e davanti a qualsiasi pubblico.
Ma questo sarebbe semplice ed efficace, antico e arcaico, classico e
millenario, per cui non potrebbe avere lo status pseudo-intellettuale,
pseudo-sperimentale e pseudo-artistico necessari per poter essere
considerato “geniale” e per meritare finanziamenti miliardari.
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