Live from Mars di Ben Harper 
           
           
           
          Andrea Di Gennaro 
           
           
           
          Anche Ben Harper ha finalmente dato alle stampe un disco live; se ne
          sentiva indubbiamente bisogno, soprattutto da parte di chi più volte
          ha avuto la possibilità di assistere ai suoi concerti. Ricchi di
          momenti passionali e dall’elevata qualità musicale, non solo per la
          riproposizione di brani che già nelle versioni in studio riuscivano a
          sprigionare una forte carica, ma soprattutto per l’enorme voglia di
          mettersi in discussione che il musicista californiano ha sempre
          manifestato. 
           
          I brani dal vivo assumono infatti connotati sempre diversi, avvincenti
          grazie a degli arrangiamenti che a volte lasciano l’ascoltatore
          interdetto per l’incapacità di riconoscerli dopo le prime note. Live
          from Mars - questo il titolo del recente doppio album live -
          conferma questa enorme vena creativa, da sempre la più evidente cifra
          stilistica di Harper, e fa sì che si possano riascoltare, in versione
          rivisitata, diversi brani compresi nel disco d’esordio dell'artista,
          Welcome to the cruel world, che invece da tempo non erano più
          nella scaletta dei concerti.
            
           
          La selezione si apre con la chitarra decisamente distorta di Glory
          & Consequence, in cui come nella versione originale è l’anima
          rock a venir fuori anche grazie ai virtuosismi urlati del leader; per
          passare poi alle invettive sociali di Excuse Me Mr., che in
          alcuni passaggi chitarristici assume i toni di una rassicurante
          cantilena, in contrapposizione con la forza e l’urgenza della
          denuncia presente nelle liriche. 
           
          Dopo gli interventi chitarristici di Alone che tradiscono
          ancora una volta la versatilità di Harper, facendo incontrare
          sonorità acide e soluzioni psichedeliche da un lato con il pregnante
          sapore del blues dall’altro, ecco che si arriva alla prima cover del
          disco. Le cover sono sempre state un’enorme ricchezza delle
          esibizioni del musicista, per la capacità pressoché unica al mondo
          di far convivere lo spirito originale del brano e una rilettura
          altamente personale, filtrata attraverso una sensibilità
          storico-musicale di indubbio gusto. 
           
          A brillare in questo caso è stata la Sexual Healing resa
          celebre da Marvin Gaye in piena epoca soul. Harper, pur non essendosi
          mai cimentato con il vasto repertorio presente negli archivi della
          Motown e della Stax, ha saputo rendere l’essenza di un brano ormai
          nella mente di tutti i musicofili imponendo la sua maestria di
          sensibile vocalist, capace di passare con impressionante agilità da
          toni rilassati ad attacchi graffianti di tipica matrice rurale, fino
          alla conclusione in cui ancora una volta lascia spazio al suo
          impeccabilmente intonato falsetto. 
           
          Tecnica vocale questa con cui lo stesso Harper apre poi l’esecuzione
          di Woman In You, brano che parte e si conclude con l’andamento
          di una calma e avvolgente ballata, ma che in un paio di occasioni,
          grazie a un trascinante climax espressivo, si trasforma in un grido
          allucinato; la voce diviene protagonista assoluta per intensità e
          tenuta mentre la chitarra, copiosamente amplificata, riesce a creare
          situazioni di forte impatto. 
            
           
          Via così dunque attraverso alcuni dei successi che hanno in passato
          decretato la maturità di Ben Harper grazie alle quattro registrazioni
          in studio; ancora cinque-sei canzoni, con le quali Harper opera una
          sorta di summa enciclopedica della migliore tradizione nera, dai
          gospel ai field-holler di fine Ottocento fino a giungere a
          tutte le varianti della forma blues, riuscendo sempre ad attualizzarle
          con la complicità della fida spinta propulsiva offerta dal basso di
          Juan Nelson. 
           
          Per arrivare così al medley con cui si conclude il primo disco: a Faded
          infatti viene legata, per magia della chitarra, una versione di
          Whole Lotta Love dei Led Zeppelin in cui oltre a riecheggiare
          chiaramente il suono tagliente di Jimi Page, la voce di Harper riesce
          a ricalcare alla perfezione la timbrica secca e acuta che fu di Robert
          Plant. A un punto tale che in prima istanza sarebbe lecito dubitare
          circa l’eventuale partecipazione dello stesso Plant. 
           
          La seconda facciata del lavoro invece propone 13 brani interpretati
          con il solo ausilio di voce e chitarra, altra dimensione
          particolarmente amata dallo stesso Harper e in cui il musicista riesce
          da sempre a far emergere il suo lato più intimista, evitando
          benissimo il rischio di malinconia e melenso che una tale soluzione
          porta con sé come insito. 
           
          L’atmosfera si fa inevitabilmente più rarefatta, e una perfetta
          qualità dell’incisione contribuisce notevolmente alla resa del
          pathos di cui il live è pregno. Roses from my Friends e The
          Power of the Gospel sono perle di rara bellezza, capaci di
          trasmettere emozioni che vanno al di là della musica anche grazie
          alla profondità dei testi che le accompagnano, mentre Please Bleed,
          dai toni vagamente più dimessi del solito, stupisce per la sua
          compattezza. 
           
          Con The Drugs don’t Work infine, scritta dall’ex Verve
          Richard Ashcroft, Harper dimostra la sua magistrale conoscenza dell’arte
          della riappropriazione, secondo la migliore tradizione musicale nera.
          Un brano a tempo lento venato dalla sensibilità tipica del
          cantautorato europeo, acquista qui quel calore tipico di un interprete
          che affonda le proprie radici in una cultura afroamericana. 
           
          Unico neo dell’operazione forse, l’aver deciso per una netta
          demarcazione tra i brani elettrici e quelli eseguiti in versione
          acustica; cosa che tradisce un po’ lo stesso concetto di live. Pecca
          veniale comunque se considerata in relazione a un corpus musicale di
          enorme valore artistico e culturale. Di gran gusto infine la scelta
          del packaging che aumenta la sostanziale validità del prodotto con
          foto e immagini di vario genere e stile. 
           
           
            
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