Le cattiverie di Lucia Poli
José Luis Sànchez-Martìn
Il teatro in certi casi è un luogo magico. Dove è possibile
ritrovarsi a vivere sensazioni che avevamo addirittura dimenticato,
piccole e depositate nei ricordi dell’infanzia o in una memoria
ancora più remota, di un passato che non abbiamo vissuto se non nelle
prime favole che ci furono raccontate e che parlano di un mondo
semplice così distante da noi da diventare alla stregua di un
archetipo.
Di converso il teatro può anche coniugarsi al presente più prossimo
e sbirciare magari in avanti, correndo però non pochi rischi in
ordine alla sua efficacia complessiva. Ad ogni modo, il presente può
essere stupendamente manomesso in teatro, divenendo un tempo compiuto
e assieme distorto dalla singolare rifrazione che la lente del suo
autore (e a seguire regista, attori, scenografi, etc...) sceglie di
dare.
Un presente dove ogni deformazione, ogni ingigantimento di un
dettaglio, ogni iperbole linguistica o semantica, ogni forzatura e
partigianeria sono ammesse e sono a tutti gli effetti i soli
riferimenti oggettivi. Gli esempi sono moltissimi in tal senso ma non
sempre o meglio, molto di rado, si riesce a realizzare sulla scena
ciò che la fervida immaginazione dell’autore ha partorito, date le
connaturate asperità di cui il sentiero del teatro, inteso come mezzo
espressivo, è gravido.
Sulla scia di questo ragionamento giunge l’esempio di uno spettacolo
che ha da poco debuttato a Roma al teatro Flaiano e che resterà in
cartellone fino al 29 di aprile. Si tratta di Lezioni di cattiveria
di Lucia Poli, Stefano Benni ed Ellekappa, diretto e interpretato
dalla stessa Poli accompagnata da Marco Natalucci e Gaia Zoppi.
La prima delle tre storie di cui è composto lo spettacolo, s’intitola
La matrigna ed è stata scritta da Lucia Poli ispirandosi ad
una fiaba toscana ottocentesca di Emma Perodi. Racconta delle perfidie
perpetrate dalla matrigna alla figlia di primo letto del marito, la
quale è bella, docile, devota, colma di virtù e desiderata da tutti
al contrario della sorellastra brutta, capricciosa e invidiosa.

L’odio della matrigna si dispiega in un climax di vessazioni che
raggiungono il culmine quando il marito ripartendo per una nuova
guerra lascia sua figlia alla custodia della tremenda moglie che cerca
di avvelenarla in ogni modo, infliggerle castighi corporali d’ogni
sorta fino a rinchiuderla in una torre che fa incendiare. Grazie alla
protezione di un angelo custode la fanciulla scampa a ognuno dei mali.
Quando il padre ritorna nel bel mezzo dell’incendio alla torre e
chiede sconvolto ragione dell’accaduto, dopo le prime infingarde
spiegazioni della malevola matrigna l’intervento risolutore e
chiarificatore dell’angelo ristabilisce la verità, punendo la
matrigna implacabile con una pena più dura della morte: il convento
di clausura.
Questo è il percorso della fiaba che Lucia Poli ha rappresentato “all’osso”,
proprio come se venisse soltanto raccontata: una sedia, un pupazzo
raffigurante la figlia bella (mosso all’occorrenza dagli attori), un
altro a cavalcioni sulla sagoma di un cavallo ritto che raffigura il
marito/capitano valoroso e infine l’angelo e la figlia penosa
interpretati dai due attori. Costumi molto efficaci del bravo Tiziano
Fario e poche ma riuscite luci. Il resto, ovvero la sostanza
drammatico-grottesca dell’intera storia, è unicamente nelle mani di
un’attrice-autrice sbalorditivamente brava, sempre perfettamente
calata nel personaggio anche negli sbalzi voluti di registro
espressivo. Sa mantenere il pubblico in costante tensione e nonostante
una rigorosità formale nei gesti e un’enfasi ricercata nei toni,
Lucia Poli non è mai “esibitoria”, cioè non tradisce mai il suo
personaggio per dare sfoggio dell’attrice mirabile. E ciò indica il
suo alto livello.
In questa fiaba a sfondo storico vi è quel gusto del teatro come
luogo in cui si può evocare molto con poco o nulla, in cui come si
diceva in apertura ci si avvicina a riassaporare sensazioni lontane,
dimenticate, infantili e magiche.
Il secondo brano è stato scritto da Stefano Benni col quale Lucia
Poli collabora dal ’92. E’ un esilarante sfogo della strega
Grimilde di disneyana memoria, matrigna malvagia e inguaribile
invidiosa della povera Biancaneve. Alle prese con la società
contemporanea viene sempre superata in cattiveria, paradossi e
assurdità varie, tanto da cadere alla fine in una sempre più
profonda depressione per inadeguatezza.
Con la tipica scrittura graffiante di Stefano Benni questo spassoso
lancio di un personaggio fantastico nella realtà presente dà luogo a
giochi comparativi sferzanti e inquietanti, a smascheramenti di
clichè sociali, al disvelamento di una società meno desiderabile
della più cattiva delle streghe cattive, che oggi non compare in
nessuna delle classifiche di Internet, né come la più bella del
reame, né come la più ricca ma soltanto terza in quella delle più
“sfigate” (ed “è già qualcosa” commenta la disillusa
Grimilde.).
L’ultimo dei tre è quello scritto da Ellekappa, una delle voci più
affilate di tutta la satira italiana che ci offre in questo caso un
ritratto spaventosamente felice di una perfetta moglie alto-borghese
iscritta a uno di quei meravigliosi club politici al quale per
iscriversi è sufficiente “essere stati almeno una volta nel
registro degli indagati”. Il marito eterno assente è un mercante (d’armi,
lo deduciamo dai racconti della moglie oca che non ha mai capito cosa
venda, sa solo che lavora molto in Africa, nell’Ex-Yugoslavia e in
Medioriente) “le cui attività vanno a gonfie vele anche grazie a
una zelantissima, rigorosissima....giovanissima, bellissima segretaria
che lo aiuta molto” e che in finale di storia farà esplodere lei e
i suoi figli autistico-parassitari recapitando loro un pacco regalo
bomba.
Il linguaggio è quello che sempre più sovente ascoltiamo in
televisione, ereditato dai “mitici” anni ‘80, banale, vuoto,
conciliante con tutto e con tutti, costituito da una collana di luoghi
comuni omologanti. Un momento di teatro forte, divertente e
agghiacciante al tempo stesso.
Lucia Poli è un’attrice di una volta perché condivide quello
stesso impeto magnetico, quella forza imperiosa e carismatica,
unitamente a un calibro artigianale minuzioso, a una cognizione
sottile e profonda degli strumenti del mestiere, che solo le grandi
attrici “di una volta” sapevano mettere in gioco, come Titina De
Filippo, Tina Pica, Sophia Loren, Pupella Maggio, Silvana Mangano,
Franca Valeri, Giulietta Masina, e più giovani come Monica Vitti o
Mariangela Melato.
Peccato che i tre brani proposti, sebbene a tratti abbiano sprazzi di
luce vera (viziati forse in parte da una matrice prevalentemente
letterario-giornalistica che non sempre trova nel mezzo del teatro una
pari corrispondenza di presa e impatto), non offrano percorsi più
ricchi e articolati alla sua magnifica presenza di attrice.
Ci si diverte comunque molto, si riflette anche e si accusa il colpo.
Si esce dalla sala con una sola domanda: quando affideranno a Lucia
Poli un grande ruolo femminile, con un grande regista, in un grande
teatro? Farebbe onore in quanto ereditiera dei grandi attori che
questo paese ha dato al mondo.
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