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Questo capitalismo non ci piace



George Soros con Clementina Casula



Quello che segue è il resoconto del dibattito svoltosi alla London School of Economics in occasione dell'uscita di "Open Society: Reforming Global Capitalism", l'ultimo libro del finanziere ungherese George Soros. Il resoconto è stato pubblicato in esclusiva da "Reset" sul numero 64 (gennaio-febbraio 2001).

Lo scorso dicembre si è tenuta alla London School of Economics (Lse) la presentazione di George Soros del suo ultimo libro, intitolato Open society: reforming global capitalism (“La società aperta: riformare il capitalismo globale”, pubblicato per Pubblic Affairs). Il celebre finanziere ungherese giocava in casa, dato che proprio alla Lse ha fatto i suoi studi universitari, nonché ascoltato le lezioni del filosofo Karl Popper la cui nozione di "società aperta" doveva avere su di lui una grandissima influenza. Partendo dalla tesi epistemologica della fallibilità umana, Popper ne derivava che essendo la nostra conoscenza imperfetta per natura, disegnare un modello di società perfetta va necessariamente oltre i nostri limiti.

Dobbiamo quindi accontentarci di una forma di organizzazione sociale imperfetta ma tesa al miglioramento e quindi soggetta a continue riforme, nella quale l’opinione dei cittadini non è soltanto tollerata, ma anche stimolata attraverso le istituzioni democratiche a fare esercizio critico della ragione in vista della soluzione dei problemi sociali. L’idea ha trovato in Soros un appassionato difensore e (libero) interprete. Trasferitosi nel 1956 negli Stati Uniti, cominciò ad accumulare una grande fortuna grazie ad un fondo di investimento internazionale creato e gestito da lui stesso. Nel 1979 fondò a New York l’“Open Society Fund”, prima delle sue fondazioni sparse adesso in tutto il mondo con l’intento di promuovere l’ideale della società aperta. La presentazione di Soros è stato introdotta dal direttore della Lse, il sociologo Antony Giddens, teorico della "terza via" inglese, e completata dagli interventi dell'economista Lord Meghnad Desai e della politologa Mary Kaldor, entrambi docenti alla Lse. “Reset” presenta il dibattito in esclusiva.


George Soros
: è bello essere di nuovo qui nella mia Alma Mater, e vi ringrazio per essere venuti. Certo non potrò esaurire il contenuto del libro nella presentazione di oggi - se avessi potuto farlo, non avrei scritto un libro -. Ho perciò selezionato da esso un tema che ritengo di importanza cruciale: la nuova architettura finanziaria.
Il sistema finanziario globale come lo conosciamo oggi è caratterizzato dal libero flusso del capitale. La sua origine è relativamente recente, la farei risalire al periodo della Thatcher e Reagan al potere. Infatti sebbene ci sia stata sin dalla fine della Seconda Guerra Mondiale una graduale tendenza a liberalizzare i movimenti del capitale, fu solo negli anni ‘80 che essa divenne talmente preminente e realmente globale.

Questo sistema, bisogna riconoscerlo, ha portato benefici notevoli: intensificazione nel commercio, nell’innovazione, nella produttività. Eppure, a guardarlo meglio, è un sistema piuttosto incline alle crisi: nel 1982 la grande crisi del debito che, iniziata in Messico, si propagò per diversi anni soprattutto in America Latina; nel 1994 ancora crisi in Messico e America Latina con ripercussioni ovunque; nel 1997 la crisi dell’unione dei mercati, anch’essa estesasi al resto del mondo.

La risposta a queste crisi è stata una reazione, ed i passi che sono stati fatti per evitare che si ripetessero hanno gettato le basi per quelle future. Perciò se le ultime crisi erano dovute ad un eccessivo flusso di capitale nei mercati emergenti, credo che in seguito alle riforme introdotte sorga il problema opposto, ossia di un flusso inadeguato di capitale in quei mercati .

Come si spiega questa reazione? Nell’analizzare i fattori che provocarono le crisi, gli eccessi di flusso nel mercato finanziario, furono attribuiti a quel concetto al quale ormai ci si riferisce con l’espressione “rischio morale” (moral hazard): poiché nel passato il Fondo Monetario Internazionale (Fmi) sosteneva i paesi quando si sono trovati in difficoltà, gli investitori ebbero la sicurezza che questo si sarebbe ripetuto nel futuro, e ciò creò il rischio morale. Per evitare le crisi, penso, bisognava trovare il modo di eliminarlo.

Ma la portata del cambiamento che ne è derivato non è stata sufficientemente riconosciuta: prima delle crisi ci si poteva aspettare che il FMI sostenesse gli investitori, mentre ora parla di fargli condividere gli oneri (burden sharing) quando si arriva al punto di dover intervenire. Si tratta di un cambiamento di rotta di 180 gradi, in un certo senso salutare, ma che ha rivelato i veri rischi che comportano gli investimenti nei mercati emergenti della periferia. Il settore privato, infatti, non è un’istituzione di beneficenza e perciò quando si arriva alla condivisione degli oneri, trasla il prezzo del rischio, come richiesto dal mercato: cosi il costo del prestito si alza e la disponibilità di fondi si riduce notevolmente. Per questo sostengo che la prossima minaccia è rappresentata da un flusso inadeguato del capitale nella periferia.

Dietro questo accanimento sul problema del “rischio morale” vi è una profonda incomprensione di come funzionano i mercati finanziari. Essi infatti sono sempre soggetti agli eccessi, e perciò, per evitare che gli investitori si spingano troppo oltre, si rendono necessarie delle condizioni regolamentatrici. La posizione opposta è quella che definisco “fondamentalismo di mercato” (market fundamentalism), ossia la credenza che i mercati, lasciati ai loro propri meccanismi, correggano i loro stessi eccessi.

L’attenzione eccessiva sul “rischio morale” ha portato ad ignorare un’altra caratteristica molto importante del sistema cosi come è costituito attualmente, ossia che i contendenti non combattono ad armi pari. L’idea che si tratti di un incontro sleale e che misure dovrebbero essere prese per ridurre le diseguaglianze, non è neanche presa in considerazione nei fora decisionali. E quando parlo della slealtà dell’incontro non mi riferisco alle differenze in ricchezza tra i paesi, perché esse ne sono il risultato, bensì al fatto che il controllo è permanentemente nella mani delle multinazionali al centro del sistema mentre la periferia soffre del fatto che le proprie preoccupazioni non vengano sufficientemente prese in considerazione nell’architettura finanziaria.

Che sia un problema indipendente da quello delle differenze in benessere posso illustrarlo con un esempio sul meccanismo del tasso di cambio europeo, prima sotto il controllo della Bundesbank. Quando la Germania fu riunificata, la Bundesbank tenne prioritariamente in considerazione l’interesse nazionale: perciò, a causa delle pressioni inflazionistiche in Germania, seguì una politica monetaria rigida, mentre nelle altri parti dell’Europa condizioni di recessione avrebbero richiesto tassi di interesse più bassi, che presumibilmente avrebbero portato a tassi di cambio più bassi. Ne seguì quella tensione che portò al fallimento del sistema del tasso di cambio europeo… e incidentalmente mi offrì delle opportunità d’oro!

Il problema della “slealtà dell’incontro” nel sistema finanziario deve essere affrontato anche alla luce del fatto che i cambiamenti introdotti nella sua architettura sono stati eccessivi. Quelle che faccio non sono previsioni, dato che il defluire di capitale dalla periferia al centro è davanti ai nostri occhi: è ciò che sta dietro la capacità degli Stati Uniti di sostenere un deficit commerciale persistente con un dollaro forte, ciò che spiega gli alti tassi di interesse che i paesi debitori sono costretti a pagare, o il sotto-rendimento delle economie di molti paesi emergenti. Non si tratta necessariamente di una crisi, ma piuttosto di un problema cronico del sistema: neanche i paesi più grandi, come il Sud Africa, che hanno seguito politiche estremamente solide sono riusciti a crescere, e vi è un crescente risentimento per questa mancanza di progresso nello sviluppo economico.

Se questo sfocerà o no in qualcosa di più acuto, credo che avremo modo di vederlo relativamente presto. Infatti quando Wall Street si prende un raffreddore, il resto del mondo si becca la polmonite. Un semplice atterraggio accidentato potrebbe ripercuotersi nei paesi della periferia in modo molto più ampio che non negli Stati Uniti stessi: per questo ritengo che questo sia un problema da affrontare con urgenza.

Finora l’unica proposta veramente organica suggerisce un’ulteriore riduzione del ruolo delle istituzioni finanziarie a favore di un maggiore affidamento al mercato. Mi riferisco al rapporto Melzer, pura espressione di quello che ho definito come “fondamentalismo di mercato”, sebbene lo temperi con un atteggiamento caritatevole. Mi piacerebbe produrre un rapporto anti-Melzer, ma non sono in grado di farlo da solo, e sto pensando di mettere su un gruppo di ricerca con questo scopo. Perciò quello che vi posso presentare per ora non sono che le linee generali di come potrebbe essere la nuova architettura finanziaria.

Ritengo che vi siano cinque mansioni principali delle quali essa debba occuparsi: assicurare il libero commercio e libero accesso ai mercati (compito della Wto); provvedere un prestatore di ultima istanza (e questo è compito del Fmi); fornire programmi di riadattamento strutturale (anche questo ruolo svolto dal Fmi, ma credo dovrebbe essere separato dalle altre funzioni); il prestito tradizionale (compito della Banca Mondiale) e il bisogno di provvedere dei beni pubblici globali ( e di questo attualmente non si occupa nessuno).

Credo che la Wto sia l’istituzione più affidabile e la più avanzata nella creazione di legge internazionale che abbia un reale meccanismo di applicazione: abolirla, come richiedono tutta una serie di organizzazioni non governative, sarebbe disastroso. Anzi, credo che avremmo bisogno di altre istituzioni come la Wto, per affrontare problemi come quello dell’effetto serra in maniera efficace.

Come mutuante di ultima istanza abbiamo il Fmi. Certo devono essere stabiliti dei limiti per coloro che fanno affidamento nel suo intervento, e perciò le regole secondo le quali il credito e l’aiuto sono disponibili devono essere più chiare. Però la sua capacità deve essere ampliata con risorse addizionali, perché sostenere anche col capitale privato le perdite comporta un notevole rischio per gli investitori privati. Perciò ci deve essere qualche incentivo per fare in modo che questi investano nei paesi della periferia, come ad esempio delle garanzie per le quali se il paese in questione segue delle politiche solide, allora i portatori di titoli saranno protetti dal Fmi: il rischio che quest’ultimo si deve assumere non è morale, ma reale. Si tratta di una proposta modesta, eppure non è presa in considerazione seriamente. Infatti viene osteggiata l’idea che possa dichiarare quali politiche sono solide e quali no (forse perché non lo sanno neanche loro).

L’istituzione è anche profondamente coinvolta in programmi di riadattamento strutturale. Credo si debba riconoscere che si tratta di impegni altamente rischiosi e che debbano essere fatti separatamente dai prestiti normali. L’annullamento dei debiti dei paesi altamente indebitati rappresenta certo un meraviglioso passo avanti per i paesi in via di sviluppo ed un successo per la società civile (come nel caso del movimento Jubilee 2000). Ma basta guardare a paesi come il Mozambico per rendersi conto che la crescita non può realmente avvenire a meno che non ci siano delle risorse addizionali disponibili per l’investimento, che devono essere in qualche modo garantite perché altrimenti i rischi commerciali sono troppo alti per poter attirare dei fondi.

Poi abbiamo il prestito tradizionale della Banca Mondiale (Bm), che il rapporto Melzer propone di abolire in quanto interferisce troppo con i meccanismi di mercato. Ritengo che sia una proposta disastrosa: la Bm è un gioiellino di ingegneria finanziaria, e sarebbe un vero peccato abbandonarla perché i paesi che sono appena sopra la linea di povertà hanno ancora estremo bisogno di investimento di capitale. Però bisogna riconoscerne i limiti. Quello maggiore deriva dal fatto che la Bm è stata costruita su di una base intergovernativa: ciò significa che nel comitato direttivo i direttori rappresentano gli interessi dei paesi di appartenenza, e perciò spesso i prestiti sembrano più diretti ad aiutare le industrie di esportazione dei paesi sviluppati che non i paesi destinatari.

Questo è un limite che neanche gli importanti cambiamenti portati avanti da James D. Wolfensohn6 possono superare. Perciò abbiamo bisogno di un altro meccanismo istituzionale per provvedere quelli che ho chiamato “beni pubblici globali”, ossia la lotta contro malattie infettive, la protezione dell’ambiente, la garanzia di un’istruzione primaria universale che possa aiutare ad eliminare il lavoro minorile. Essi dovrebbero essere forniti non sotto forma di prestiti, bensì di sovvenzioni. La World Bank ha sviluppato un meccanismo che si chiama fondo fiduciario (trust fund) che ritengo dovrebbe essere usato più spesso e in modo più generoso di quanto non lo sia al presente.
Queste sono le mie linee generali per l’architettura finanziaria del futuro.

Meghnad Desai (economista) Nel suo nuovo libro, George Soros comincia con l’introdurre la sua teoria della riflessività e a considerare le ragioni per l’instabilità dei mercati; poi procede con la sua teoria sui mercati finanziari e sulla loro crisi; e termina proponendo la nuova architettura finanziaria considerandone le sue implicazioni politiche. Su queste ultime si soffermerà Mary Kaldor; io commenterò la prima parte per poi ritornare sull’architettura.
Per me la parte la parte più affascinante del libro è la trattazione dell’idea di riflessività. Si tratta di un’idea che fa riferimento al fatto che nella scienza sociale e nell’attività umana, a differenza che nelle scienze naturali, non si osservano semplicemente i fatti quando li si analizzano, ma li si influenzano anche. Il punto di vista dell’osservatore, il fatto che egli agisca in base alle proprie credenze, gli fa influenzare il mondo reale, e quindi modificare in qualche modo gli stessi fatti. A prescindere da quello che io penso sull’origine dei terremoti, i terremoti avvengono. Invece quello che io penso sul rendimento delle azioni in borsa ha importanza, perché la mia opinione sulle azioni può influenzare in maniera rilevante la loro quotazione.


Ma come è che i fatti influiscono sulle credenze e viceversa? Esistono diversi tipi di equilibri tra la funzione dei fatti e quella delle credenze: alcuni sono stabili, altri non lo sono. L’instabilità è un fattore endemico nei mercati finanziari; ma instabilità non significa fallimento. Nella scienza medica per crisi si intende quel momento che indica un miglioramento del paziente, mentre noi usiamo quel la parola -deve essere un’abitudine derivata da Marx e Lenin- esclusivamente per significare un fallimento.

Talvolta è il sistema stesso che provoca la crisi. Questo è vero anche per il capitalismo ma, a differenza di quello che ritiene la maggioranza, ciò non significa che esso sia fallito. Il punto è proprio che pur essendoci le crisi, il sistema non crolla: ciò rappresenta un dilemma per tutti noi, dato che negli ultimi secoli ci è stato detto e ripetuto che sarebbe crollato.

Che cosa sta capitando? Vi sono tre diverse interpretazioni. Secondo la prima il ciclo economico si auto-corregge, e quindi il fatto che la gente perda soldi fa parte del gioco: se non vogliono correre rischi, bisogna starne fuori (la visione Hayek-Marx). Per il secondo il sistema in linea generale funziona, ma occasionalmente ha bisogno di qualche aggiustatina. Il terzo ritiene che il fallimento sia un fattore endemico del mercato e che vi debbano essere istituzioni regolamentatrici che dall’alto vi pongano rimedio. L’ultimo punto di vista è quello del New Deal Act, il secondo è quello che il G7 ha avuto dopo la crisi dei mercati asiatici, mentre il primo è tipico di coloro che Soros ha chiamato “fondamentalisti del mercato”.

Il problema nel costruire questi schemi di architettura finanziaria non risiede solo nel fatto che non siamo d’accordo su quale modello sia corretto, ma anche che a seconda del periodo ognuno di essi è giusto: insomma, nessun modello costituisce in sé e per sé una rappresentazione corretta del mondo. Concordo pienamente con quanto detto da Soros sul Wto: a mio parere è l’unica istituzione mondiale decente che si trovi in giro al momento. Questo perché è l’unica istituzione mondiale fondata su relazioni simmetriche che sia riuscita a creare un modello di leggi alle quali tutti si adeguano. Non altrettanto si può dire del Fmi o delle Nazioni Unite: entrambe le istituzioni furono create alla fine della Seconda Guerra Mondiale nell’ambito di un sistema inter-statale, fatto di rapporti gerarchici e asimmetrici.

Vorrei andare anche oltre quanto proposto da Soros per la riforma del Fmi. Teniamo sempre un prestatore di ultima istanza, ma che si tratti di una nuova istituzione simmetrica sul modello del Wto, dove ognuno è tenuto ad attenersi alle regole. Certo sarebbe difficile da realizzare, eppure credo sia il tipo di struttura che dovremmo richiedere perché ogni altro modello lascerebbe sempre i paesi del terzo mondo sentirsi come delle vittime del sistema.

Aggiungo un’altra cosa sulla Banca Mondiale: col passare degli anni è diventata un’istituzione migliore, con una comprensione molto più accurata di come funziona il mondo. Questo è parzialmente merito della sua convergenza con l’Undp e dei suoi annuali “Rapporti sullo Sviluppo Umano” (Human Development Report). Ciò dimostra che vi è il bisogno di avere un’autorità di sviluppo globale che possa attivamente impegnarsi nel compito di dare una mano una volta che i fondi sono avviati. E deve avere ulteriori risorse, perché il deflusso di capitale dal mercato dobbiamo compensarlo con afflusso addizionale.

Mi congedo da voi con un paradosso: quando ci fu la crisi dei debiti nel 1980, essa fu risolta dai mercati. Il debito pubblico che si ha al momento è minore, eppure i governi insistono ad affaticarsi per prevenire il debito: il problema non sta nei mercati ma nei governi.

George Soros: Vorrei solo riprendere un punto del tuo discorso, ossia che il capitalismo non fallisce. Hai certo ragione, eppure esso non è un sistema tanto sicuro come suggerisci. Abbiamo avuto un capitalismo globale nel passato ed è entrato in crisi, se non in termini di mercato, almeno in termini politici. Ed è stato proprio il fatto di affidarsi ai mercati che ha creato le tensioni politiche: questo rischio rimane. In secondo luogo un sistema finanziario globale nel quale vi sono dei membri che non beneficiano dalla loro partecipazione al sistema non è auspicabile, ed è in nostro potere correggere questo. Perciò dovremmo essere motivati ad apportare le dovute correzioni non soltanto dalla paura delle crisi ma anche da considerazioni -e detesto usare il termine- “morali”.

Mary Kaldor (politologa): Farò qualche commento sugli aspetti politici del libro. Il punto cruciale del discorso di Soros è che vi è una fondamentale discrepanza tra gli accordi globali politici e quelli economici, e che non si può parlare delle nuove forme di regolamentazione finanziaria senza allo stesso tempo parlare di architettura politica. A questo proposito fornisce alcune proposte alla fine del suo libro, delle quali quella centrale è quella di un’alleanza di stati che promuova l’ideale di società aperta, ossia una società risultante dalla combinazione tra una un’autorità istituzionale globale e l’esistenza di norme, valori e cittadinanza attiva che la possano inverare.

Vedo con molta simpatia il progetto, ma vorrei sollevare qualche domanda in proposito. Anche a me ha affascinato la trattazione del concetto di riflessività, che contiene in sé l’idea che si aggiustano le proprie credenze a seconda dell’impatto di esse alle situazioni. Perciò spero che le questioni sollevate troveranno poi qualche risposta nella prossima edizione del libro di Soros.

Il primo punto che voglio affrontare riguarda la democrazia. Uno dei compiti della società aperta è quello di promuovere la democrazia, e la democrazia è a sua volta vista come componente essenziale di una società aperta. Il mio problema è che ritengo che nel mezzo del cammino dello sviluppo del capitalismo globale vi sia una crisi fondamentale della democrazia. Il libro di Soros descrive qualche problema contemporaneo della democrazia rappresentativa: il fatto che interessi particolaristici comprino i candidati politici, che la pubblicità elettorale alla televisione influenzi in tale maniera quello che pensa la gente: tutti questi sono aspetti molto seri del problema, come ci hanno dimostrato le vicende elettorali americane. Ma ritengo che ci sia qualcosa di più, e che abbia a che vedere con la globalizzazione.

Se pensiamo alla democrazia non soltanto in senso procedurale (come serie di procedure attraverso le quali, ad esempio, si elegge un candidato) ma anche in senso sostantivo (come possibilità reale di influenzare le situazioni nelle quali si vive) credo che questa dimensione sostantiva sia stata notevolmente ridotta dalla erosione degli stati nell’era della globalizzazione. Le decisioni vengono sempre di più prese al livello non dello stato ma delle istituzioni internazionali e delle multinazionali. Il risultato è che spesso l’indirizzo al quale la gente si rivolge perché le cose vengano cambiate è quello sbagliato. Questo sta alla radice del problema e crea una crescente sfiducia nella democrazia nei paesi ricchi. E ovviamente quanto notiamo per i paesi ricchi è ancora più vero per i paesi in via di sviluppo.

Ho riflettuto a lungo sul tema della democrazia nell’Europa dell’Est: molti sostengono che il problema risieda nel retaggio del regime totalitario. Questo è senza dubbio corretto, ma ritengo che il vero problema dei paesi dell’Europa dell’Est sia che essi sono usciti dall’eredità del totalitarismo in un momento in cui era diffuso quello che Soros definisce il “fondamentalismo di mercato”, e che ciò abbia creato non solo sfiducia nella democrazia, ma una vera e propria esplosione dell’autorità statale sotto questa doppia pressione.

Quale insegnamento ne deriviamo? Che non possiamo esportare i nostri modelli “occidentali” di democrazia, aspettandoci che funzionino in una situazioni storicamente diverse. Dobbiamo veramente ripensare alla democrazia in modo fondamentale, e questo mi sembra il nostro compito principale per il futuro. A me sembra che questo comporti un intensificarsi del dialogo con la gente nel Terzo Mondo, nell’Europa dell’Est, su come costruire nuove forme e nuovi modi di affermare la democrazia. Ritengo che la decentralizzazione sia una risposta, ma decentralizzazione con un qualche accesso alle istituzioni mondiali.

La mia seconda considerazione riguarda il conflitto e l’intervento umanitario. Soros ha ragione a dire che il ruolo della società aperta permette un’azione preventiva, politica, piuttosto che quella militare. Eppure il ruolo dell’azione non militare, bensì umanitaria, non deve essere sottovalutato. Credo che l’idea di uno stato di diritto internazionale, implichi una legge umanitaria internazionale. Soros dice che l’intervento in Bosnia fu un disastro perché la pace fu fatta ma non conservata. Eppure io ritengo che in Bosnia ci fu il tentativo di iniziare una nuova forma di azione, ossia l’intervento umanitario, dato che lo scopo era quello di proteggere i civili. Il problema era piuttosto che il mandato non era sufficientemente forte e che non vi erano soldati sufficienti per attuarlo.

La società aperta che vorrei vedere realizzarsi non è solo un’alleanza di stati ma una coalizione politica, che comprenda anche organizzazioni non governative, enti locali, associazioni varie. Infatti una mera alleanza di stati solleva diversi interrogativi. Il primo è: “Chi si intende come stato democratico? Se sono alla fine solo gli stati maggiormente industrializzati, perché volere un altro club imperialista?”. Il secondo: “Ci sono già abbastanza istituzioni internazionali intergovernative che funzionano male: abbiamo bisogno di averne un’altra? Se si, perché questa dovrebbe essere diversa dalle altre?”. Agire in maniera decentralizzata per promuovere l’economia globale è anche il mio progetto. Però penso anche che sia tremendamente importante che questo significhi il coinvolgimento dei diversi livelli di governo e il tenere conto dei diversi modi in cui la gente concepisce la democrazia.

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