Vaudeville mon amour
Antonia Anania
L’Associazione Culturale Gianni Santuccio conclude il 30
giugno i suoi cinque anni di gestione del Teatro della Villa a Roma e,
oltre alle ultime letture sceniche, sta salutando il suo pubblico fino
al 13 Aprile con il vaudeville Il caso di Via Lourcine (1857)
di Eugène Labiche, il commediografo più amato dai surrealisti, e
famoso soprattutto per Un cappello di paglia di Firenze, altro
vaudeville definito ‘una rivoluzione’.
Si tratta di un vaudeville ottocentesco, ossia intreccio comico in cui
il dialogo - tanto per fare un po’ di storia del teatro - è
intercalato da strofette in musica, in francese couplets, che
servono come momento corale e di riflessione e critica, e riportano
alla memoria da un lato le commedie greche e dall’altro i musical
americani.

Con qualche probabilità il nome vaudeville deriva dal vau-de-Vire
del XV secolo, un tipo di canzone satirica sull’attualità che
prende il nome dalla città natale, Vire appunto, in Normandia, del
suo creatore Olivier Basselin. Poi, passando i secoli, autori come
Augustine-Eugène Scribe (1791-1861), Eugène Labiche (1815-1888),
Victorien Sardou (1831-1908) rivoluzionano il semplice intreccio
comico facendolo diventare una pièce bien-faite, basata sui
travestimenti, gli imbrogli, gli adulteri, i maneggi per sposare una
figlia e arraffare una dote e altri mezzucci della borghesia francese.
Ma Il caso di Via Lourcine - che grazie alle messinscene di
Walter Pagliaro è stato tradotto in italiano da Vito Carofiglio -
come altri vaudeville labichiani ha qualcosa di nuovo: la comicità
bonaria delle commedie precedenti diventa umorismo nero che fa ridere
e pensare, e i borghesi della metà dell’Ottocento, deformati e
alterati grottescamente, sono i protagonisti di azioni frenetiche e
sorprese travolgenti. Nasce così la serie di esilaranti
mostriciattoli del quotidiano tanto amati dai surrealisti e che ne Il
caso di Via Lourcine sono il possidente Lenglumè - Marco Mete
nell’odierna messinscena -, il cuoco e camerata Mistingue - un
Massimo Reale ben camuffato da barba e pancia fittizie - e Potard il
cugino dell’arricchito - Jonata Pais.
E ancora, l'intreccio comico si tinge di giallo e di nero prendendo il
via da un equivoco. Oscar Lenglumè si risveglia una mattina in casa
sua ancora coi pantaloni e con uno strano compagno dal naso rosso,
Mistingue. Nessuno dei due ricorda quanto è successo la notte prima.
Solo piccoli oggetti fanno da indizi: un introvabile ombrello verde
con la testa di scimmia, noccioli di ciliegie e prugne che escono
dalle tasche, alcune cuffiette e una scarpa da donna di raso verde,
fango sugli scarponi e soprattutto le mani e i vestiti sporchi di
carbone… chissà che cosa sarà successo…
Durante l’esilarante pranzo con un affamatissimo, baldanzoso e
sempre più avvinazzato Mistingue (Massimo Reale), l’elegante Norine
(Tiziana Avarista) moglie di Lenglumè, legge dell’omicidio di una
giovane carbonaia, accanto al cui corpo sono rimasti un ombrello verde
sormontato da una testa di scimmia e un fazzoletto con le stesse
iniziali di Mistingue. Ma allora sono stati proprio loro a commettere
quel delitto! Inizia così la corsa a nascondere tracce e prove reali
quanto fantasiose, ad “ammazzare” personaggi scomodi e se
possibile (impossibile!) fuggire in America….E prima di ogni cosa
bisogna lavarsi le mani continuamente e cantando: “Laviamoci le
mani/ E saremo pur certi/di togliere ogni indizio./Con ciò van via i
timori/La giustizia/niente saprà…”; “Laviamoci le mani!/E’
vero prudenza!/Vogliam come qualmente/Per oneste passar/E persone
compite!/E’ già molto per questo/Aver mani pulite!”.
La Parigi del 1857 o giù di lì è tutta nell’interno dell’elegante
salotto di casa Lenglumé: sofà di velluto rosso, sedie, candelieri,
cuscini, scaldini di carboni ardenti, portavivande, coprivassoi, carta
da parati, tavoli, costumi…ogni particolare della messinscena
riporta a quel periodo. E l’intera commedia per certi versi sembra
essere fatta di cose, oggetti, vestiti e colori - il rosso del vino, l’azzurro
del curacao, il nero del carbone, la trasparenza dell’acqua, il
bianco e le sfumature variopinte dei tessuti.

Il regista Walter Pagliaro abbandona la sperimentazione fatta su altre
messinscene e sceglie di essere rigoroso e fedele al testo, agli
ambienti e ai tempi della storia, regalando una rappresentazione
leggera e scrupolosa.
Tutti gli attori sono ben immedesimati nelle parti. La coppia reduce
dai bagordi notturni, Lenglumé/Mistingue, è affiatata e si cimenta
in balletti, piroette, voli e lanci velocissimi. Marco Mete dà vita a
un Lenglumé preoccupato e imbranato tanto che, pronto a uccidere
qualcuno, finisce solo per far perdere conoscenza a una gatta. Massimo
Reale invece impersona il “fragile” cuoco Mistingue a dieta di
acqua, il clown del duo. Ma è anche un acrobata che "tiene"
la scena in modo fisico: si sbrodola, si abboffa velocemente e senza
galateo. E ancora, corregge in modo esuberante una salsa, si butta sul
palco e sul piano verticale, si nasconde sotto il tavolo, improvvisa
giochi di prestigio che non riescono.
Tiziana Avarista è una Norine espressiva, con i modi perfettini ed
eleganti di una signora di alto ceto, disposta ad accettare un
Mistingue fuori dalle regole solo perché creduto notaio… Jonata
Pais è il cugino Potard, l’unico parente dei Lenglumé, sempre
indebitato e bisognoso di soldi; infine Giuseppe Butera impersona
Justin, domestico impettito e ipocrita, pronto a bere e fumare il
tabacco del padrone di nascosto. Una parola anche per Alessandra
Lattanzi, la pianista che esegue dal vivo con delicatezza le musiche
di Vittorio Stagni che fanno immaginare come dovessero apparire le
rappresentazioni de Il caso di Via Lourcine contemporanee al
suo autore, nella Parigi della seconda metà dell’Ottocento, magari
al Theatre de Vaudeville.
Il caso di via Lourcine di Eugene Labiche, fino al 13 Aprile al
Teatro della Villa, traduzione di Vito Carofiglio, regia di Walter
Pagliaro, scene e costumi di Alberto Verso, musiche di Vittorio
Stagni, con Marco Mete, Massimo Reale, Jonata Pais, Tiziana Avarista,
Giuseppe Butera.
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