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Amadeus tra Polanski e Barbareschi



José Luìs Sànchez-Martìn



Wolgang Mozart detto Amadeus (1750 - 1825) è senza dubbio uno degli emblemi del mito di “genio e sregolatezza”: un uomo che pur racchiudendo in sé la “presenza del Dio”, come avrebbero detto i greci, ha cionondimeno i segni evidenti di una personalità complessa e difficile, braccata da “daimones”, avviluppata in spirali insondabili di visionarietà perfetta e matematica quanto di falle emotive gigantesche, di fragilità ed infantilismo.


Indipendentemente dalla fondatezza o meno di una lettura romantica intorno alla figura di Mozart, a detrimento di quella storica suffragata da documenti, non è un caso che ai posteri, i più prossimi alla sua vita fino a noi, sia giunta e si sia radicata, invece, una versione romanzata e azzardatamente parziale della sua esistenza e della biografia mitica -nell’alto dei cieli o negli abissi oscuri- che gravita intorno ad essa. Ciò si può imputare in parte al grande poeta russo Alexander Puskin il cui testo teatrale Mozart e Salieri -rappresentato quest’inverno nella stagione Eti del Teatro Valle dal regista russo Vasil’ev- per primo dette vita a una versione del musicista come di un genio nel corpo di un bambino immaturo, di Dio in un giovane sboccato e più tardi, al drammmaturgo inglese Peter Shaffer che con il suo celeberrimo Amadeus del 1979 ha conosciuto un vasto successo internazionale, prima in teatro e dunque nella bella versione cinematografica diretta da Milos Forman che ha segnato forse in modo definitivo l’immagine di Mozart deformata per difetto o eccesso dallo sguardo di Salieri, unico e vero contraltare e contrappunto continuo a questa imponderata somministrazione di bene e male in un’unica persona.

Nel testo di Shaffer è proprio dalla continua e ossessionata prospettiva dell’avido musicista italiano all’apice della carriera, dalle sue confessioni e commenti intrisi di devastante e inaccettabile ammirazione/invidia per il talento divino che prende forma il nostro giudizio su Mozart, ora in sua difesa ora come involontari reprensori delle sue esagerazioni che già finiranno per nuocergli irreversibilmente.


Questo immaginario collettivo creatosi su Mozart-Salieri è anche il perno su cui ruota l’interpretazione del testo di Shaffer da parte di Roman Polanski presentata a Roma in questi giorni al Teatro Quirino all’interno della programmazione dell’ETI, con il noto ed ormai acclamatissimo attore-conduttore-maitre a penser Luca Barbareschi nel ruolo di Salieri.

A differenza della versione cinematografica proposta da Forman che focalizzava quasi esclusivamente lo sguardo su Mozart discostandosi dal testo di Shaffer, Polanski ha preferito restare più aderente alla versione originale, mostrando il travaglio psicologico ed esistenziale di Salieri, “come in una lunga seduta di autoanalisi”.

A ritroso nel tempo con un racconto diretto al pubblico, Salieri, nell’ultimo giorno della sua vita, ci svela il piano omicida perpetrato molti anni addietro ai danni del genio salisburghese, quando gli divenne insostenibile il conflitto interiore -una vera e propria spaccatura nell’anima- nel quale invidia e gelosia crescenti avevano spianato la strada alla lucida e folle premeditazione da parte di Salieri di infliggere a Mozart un lungo calvario esistenziale, fisico e morale fino a provocarne la morte per avvelenamento.

Con la sua proverbiale ironia, Polanski non esita a prendere una posizione: “Si possono comprendere i tormenti di Salieri, ma fino a un certo punto, è più facile identificarsi con un personaggio ideale come Mozart, anche se è un genio, e non si trovano tanti geni tra la gente comune. Ma tra la gente comune non è diffusa neanche un’invidia così devastante, ci sono tante persone che fanno bene qualcosa, una sedia o un arrosto senza per questo aspirare al Pulitzer”.


La scena si apre con un vecchietto acciaccato dal tempo e costretto in una sedia rotelle: è il lontano artefice del crimine impunito il cui rimorso non lo ha mai abbandonato e per il quale grida straziato invocando il perdono: Salieri. Espone il contesto, tratteggia i personaggi: l’imperatore, il ciambellano, il barone, il conte, Constanze (moglie di Mozart), se stesso e infine Mozart. Si infila dunque la parrucca che indossava al tempo, leva la vestaglia ed ecco comparire da sotto gli abiti eleganti il Salieri che componeva a corte. Salieri ammirato e venerato in tutta Europa, che ebbe per allievi musicisti come Beethoven e Schubert, l’uomo di potere che sarebbe stato a breve Kapelmaister imperiale, incontrastato astro della musica europea.

Intorno a lui, nostro unico tramite diretto con ciò che accadrà sulla scena, si manifestano rapidamente la corte, i cortigiani, i fastosi ambienti e comincia la vera e propria storia. Questa alternanza narrativa tra presente e passato si ripete tre volte: nell’incipit, a chiusura del primo e apertura del secondo atto e come finale. Un’alternanza che permette all’istrione Barbareschi di fare sfoggio della sua proprietà tecnica di trasformismo immediato e credibile di voce, postura fisica e di dinamica, doti che gli vanno riconosciute.

Reduce di una versione teatrale con se stesso nella veste di Mozart, Polanski ha dato a Salieri tutti i tratti (peggiori come si suole in questi casi) dell’italiano, arrampicatore, narcisista, furbo e tramatore che un certo cinismo connaturato alla maschera pubblica di Luca Barbareschi rende alla perfezione, quasi fosse stato vestito su misura per lui quel ruolo e non viceversa. La qual cosa piace tanto al pubblico borghese ma risulta stucchevole e trito per chi vuole immergersi davvero nell’ipnosi del teatro.

La macchina registica funziona perfettamente: entrate, uscite, “coupe de teatre”; ma rendere fruibile a un pubblico superficiale, come quello delle domeniche pomeriggio nei teatri di prosa italiani, tramite l’uso insistito di moine settecentesche, ammiccamenti ed ironie reiterate fa diventare inevitabilmente comico ciò che nel testo è tragico. Fa sì che il nucleo centrale della scrittura scada nei toni di una commedia vaudeville. Infatti, quando ineluttabilmente si arriva al cuore drammatico della vicenda, nel secondo tempo, non viene restituito affatto il senso dello scontro tragico che lacera la coscienza di Salieri. Diventa perciò difficilmente sopportabile la scena della morte di Mozart. Barbareschi/Salieri anziché raggelare perché la liberazione fisica di Mozart è anche l’inizio della presenza di questi come suo fantasma interiore, dirà: “E’ finita!” nella stessa maniera con cui conduce un quiz televisivo e con lo stesso compiaciuto sarcasmo “strapparisatine”.

Malgrado sulla scena agiscano anche più di venti attori, questa impostazione a favore del “mattatore” lascia l’impressione di aver assistito a un monologo più che a un tentativo di rappresentazione storica.

Attori di indiscutibile livello professionale. In particolare il giovane Jesus Emiliano Coltorti nel ruolo (difficile) di Mozart, seppur eccede nell’enfasi isterica e ridanciana del personaggio (forse per accordarsi meglio con il fiele dispensato sardonicamente da Salieri), sa esprimere la lucidità spaventosa mista all’irrazionalità creativa, il coraggio anticonformista e ribelle assieme alla fragilità emotiva e ai capricci infantili, alla disperazione e all’abbandono finali in cui affiora - qui solo- il senso del tragico di cui è pregno il testo e che lo spettacolo invece evade con un poco di populismo.

Vale anche per la musica la sensazione che sia stato cercato l’effetto suggestivo, solo in un caso con buon esito, quando sulle note della prima sinfonia che Salieri ascolta di Mozart, Barbareschi commenta in modo misuratamente enfatico il dolore/piacere che prova, sovrapponendo la propria voce a quella degli strumenti. Troppo spesso però manca l’opportunità di lasciare che la forza sublime della musica di Mozart diventi essa stessa partitura drammaturgica, elemento teatrale.

Detto questo è doveroso registrare che la tensione dello spettacolo è molto ben condotta, che si segue la storia con attenzione, che i personaggi sono credibili come gli attori che li interpretano, i quali non avrebbero probabilmente potuto esserlo se non li avesse diretti un maestro del calibro di Roman Polanski, che certo non si è improvvisato regista per l’occasione.

 

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