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Sui presupposti sociali della
responsabilità
Mario De Caro
Questo saggio appare sul numero 2/2000 della Nuova Serie della
rivista Filosofia e Questioni Pubbliche diretta da Sebastiano
Maffettone. Per ulteriori informazioni potete collegarvi al sito della
Luiss Edizioni o
scrivere all'indirizzo e-mail edizioni@luiss.it
Nell’attuale, vivace sviluppo degli studi di filosofia politica e
sociale, al concetto di responsabilità viene dedicata un’attenzione
probabilmente ancora insufficiente . Eppure tale concetto - ampiamente
studiato in ambiti filosofici limitrofi (dall’etica alla filosofia
del diritto, alla metafisica) - ha indubbio rilievo anche per la
riflessione politico-sociale. Si pensi a quanto sia significativo, sul
piano della filosofia politica stricto sensu, il concetto di
responsabilità individuale per il liberalismo: e basti ricordare a
questo proposito l’autorevole esempio di John Rawls, il quale, a
proposito della propria teoria della giustizia, ha affermato che essa
«fa affidamento sulla capacità di assumere responsabilità per i
nostri fini» .
Si consideri poi la centralità della nozione di responsabilità nelle
discussioni sulla giustificazione, le forme e le finalità delle pene.
Oppure si ricordi una discussione di grande rilievo per la filosofia
sociale, com’è quella concernente la legittimità della nozione di
«responsabilità sociale o collettiva», con le rilevanti conseguenze
etico-politiche del caso. E l’elenco potrebbe continuare, citando le
ricadute sul piano dei comportamenti sociali delle concezioni
teologiche della responsabilità; le ripercussioni per la riflessione
politica degli influenti studi di Hans Jonas sulla cosiddetta
«etica della responsabilità»; la proliferazione di nuove
applicazioni della nozione di responsabilità, come quando si discute
delle nostre responsabilità verso l’ambiente o verso gli animali o
verso le generazioni future - in un ininterrotto e intellettualmente
assai fecondo processo di esplorazione di nuovi territori concettuali,
che comporta anche una costante ridefinizione delle categorie del
politico.
E tuttavia, dicevo, in sé il concetto di responsabilità non viene in
genere adeguatamente discusso, ma è presupposto come se non fosse
controverso - un’assunzione, questa, quantomeno dubbia. Questo
saggio si propone di contribuire al superamento di questa lacuna. In
particolare, in esso si discute del dibattito che ha visto
contrapporsi i fautori di una concezione utilitaristica della
responsabilità a quanti ne hanno tentato una fondazione metafisica.
La tesi che svilupperò è che l’ipotesi più promettente è quella
di una mediazione tra queste due proposte; in questa luce, esaminerò
la proposta teorica avanzata da Strawson, mostrandone alcune
deficienze interne. La mia conclusione sarà però che il tentativo di
conciliare le diverse concezioni della responsabilità (ognuna delle
quali ha importanti pregi, oltre a limiti forse insuperabili) è
ancora una promettente ipotesi di ricerca.
Il concetto di responsabilità tra filosofia sociale e metafisica
Magistrale espressione di una nitida intuizione del senso comune, il
rimorso che in Delitto e castigo tormenta Raskolnikov sino ad indurlo
a rendere pubblico il suo terribile segreto dà evidenza drammatica al
valore che nelle nostre vite ha il senso di responsabilità. Noi ci
sentiamo responsabili per le azioni e le scelte che compiamo, per i
giudizi che esprimiamo, talora persino per i pensieri che
intratteniamo; parimenti, consideriamo gli altri responsabili per ciò
che fanno e per ciò che dicono. Ciò non significa, naturalmente, che
tutti gli esseri umani siano responsabili per le proprie azioni, né
che vi siano alcuni di noi che sono responsabili in tutte le
occasioni. Condizioni patologiche, costrizioni di vario genere,
immaturità psicologica e così via, sono circostanze per le quali
comunemente gli agenti sono esonerati dall’attribuzione di
responsabilità e dalle conseguenze (legali e morali) che potrebbero
seguirne. Nondimeno, dal punto di vista del senso comune non c’è
dubbio che in molti casi la maggior parte di noi porti la
responsabilità di ciò che fa.
Quando, tuttavia, da queste osservazioni generali, sostanzialmente non
controverse, si passa a considerare il concetto di responsabilità
più da vicino, si scopre che esso è molto più complesso di quanto
non possa apparire a prima vista. Una questione, in particolare, pur
essendo del maggior rilievo filosofico, appare di difficile
risoluzione: essa concerne la giustificazione della nozione di
responsabilità. In che senso possiamo dire che è giusto considerare
gli agenti responsabili per il loro operato? O, per porre la questione
in maniera diversa, in che senso le persone meritano di essere
criticate o lodate, premiate o punite per le loro azioni? Per
rispondere a tali domande sono state sviluppate diverse proposte
filosofiche, la maggior parte delle quali può essere raggruppata in
due grandi famiglie.
La prima famiglia è composta dalle concezioni che si propongono di
dare conto della nozione di responsabilità in termini metafisici.
Più specificamente, la tesi fondamentale di questa famiglia di teorie
è che il concetto di responsabilità presuppone essenzialmente quello
della libertà metafisica (o libero arbitrio). La seconda famiglia è
composta dalle concezioni che tentano invece di dare conto della
nozione di responsabilità in termini meramente utilitaristici,
considerandone il fondamentale radicamento nelle pratiche sociali. Su
di esse dobbiamo dunque gettare un sia pur rapido sguardo, prima di
approfondire il tentativo di conciliazione teorica proposto da
Strawson.
Secondo una fortunata scuola di pensiero - tradizionalmente detta
«libertaria» - il concetto di responsabilità è assai più
problematico di quanto possa apparire prima facie e ciò per ragioni
genuinamente metafisiche. La problematicità di tale concetto consiste
principalmente nel nesso concettuale che sembra vincolarlo a un altro,
assai controverso, concetto: quello della libertà del volere o dell’agire
- ciò che con termine, oggi un po’ obsoleto, si usava chiamare
«libero arbitrio» e che oggi spesso si dice «libertà metafisica».
Già ad una prima sommaria analisi, in effetti, viene in chiaro come l’imputazione
di responsabilità nei confronti di un agente, per un’azione da
questi compiuta o per le conseguenze di tale azione, dipenda
strettamente dall’assunzione secondo la quale tale agente ha agito
liberamente: non diremmo responsabile di una determinata scelta o
azione, infatti, una persona che non poteva fare nulla per evitarla.
Per fare luce su tale nesso concettuale, consideriamo di nuovo il caso
di Raskolnikov, il quale compie il suo duplice delitto consapevolmente
e senza esservi costretto in alcun modo. In tale prospettiva egli è
senza dubbio responsabile della sua azione e può essere
legittimamente biasimato e punito. Ora però consideriamo un’ipotesi
diversa (esteticamente raccapricciante, ma proficua dal punto di vista
teoretico): immaginiamo cioè che Dostoevskij abbia scritto un romanzo
diverso, in cui Raskolnikov - mite studente che mai penserebbe di
macchiarsi le mani di sangue - viene ipnotizzato da un sofisticato
criminale che lo induce in tal modo a compiere i due omicidi. In
questo caso non diremmo forse che Raskolnikov, essendo stato costretto
a compiere i suoi delitti, non era libero di agire altrimenti, e che,
perciò, non dovrebbe essere considerato moralmente responsabile per
la propria condotta? Non diremmo, insomma, che il biasimo e il castigo
sarebbero in questo caso del tutto fuori luogo?
Esempi di questo genere potrebbero essere moltiplicati a piacere. Da
essi i libertari hanno inferito che in generale la responsabilità
presuppone la capacità di scegliere e di agire con libertà (nel
senso metafisico del termine «libertà» 6). E in effetti molti
filosofi concordano sulla tesi che per dare esaustivamente conto del
concetto di responsabilità è necessario spiegare preliminarmente se
e come gli agenti possano scegliere e agire liberamente, in cosa
consista tale loro libertà e in quali condizioni metafisiche essa sia
possibile: in una parola, occorre dare conto della questione della
libertà metafisica. Così pone il problema Susan Wolf, una delle più
autorevoli voci del dibattito contemporaneo:
È comune ritenere che a molte delle nostre pratiche presuppongano che
noi godiamo del libero arbitrio. Si pensa che soltanto nel caso in cui
godiamo del libero arbitrio possiamo appropriatamente impegnarci in
tali pratiche, che avremmo ragione di abbandonare se dovessimo
concludere che non godiamo della libertà metafisica.
Ma se è così - se è corretto, cioè, affermare che la
responsabilità dipende dalla libertà metafisica - e se, com’è ben
noto, la possibilità stessa della libertà metafisica costituisce un
problema filosofico tra i più complessi (»probabilmente il più
arduo dei problemi filosofici»), è ragionevole attendersi che un’analoga
problematicità si comunichi anche al concetto di responsabilità.
Roderick Chisholm descrive molto bene l’impasse teorico in cui si
trovano coloro i quali tentano di dare una fondazione metafisica della
nozione di responsabilità:
Sembra dunque che ci troviamo di fronte a un dilemma: o le nostre
scelte hanno condizioni causali sufficienti [ovvero sono determinate]
oppure non le hanno [ovvero sono indeterminate]; se non hanno
condizioni causali sufficienti esse non sono evitabili; se non ce le
hanno, sono fortuite o casuali; dunque, poiché o le nostre scelte
sono inevitabili oppure sono fortuite, noi non siamo responsabili per
esse.
L’enigma della responsabilità è dunque simmetrico a quello della
libertà metafisica: se le nostre azioni sono inevitabili (ciò che
accade se esse sono il prodotto di una catena causale deterministica),
non è ragionevole ritenere che noi ne siamo responsabili: non avremmo
infatti potuto fare altrimenti. Se esse sono invece casuali (ciò che
accade se sono indeterminate), non c’è ragione di pensare che noi
avremmo potuto fare alcunché per evitarle: di nuovo, non siamo
responsabili per esse. In questa luce, dare conto dell’idea che noi
siamo responsabili per ciò che facciamo si presenta come un compito
estremamente arduo. E non sono pochi, in effetti gli autori che a
causa di queste difficoltà concettuali giungono a disconoscere ogni
valore teoretico alla nozione di responsabilità. Tali autori possono
ancora riconoscere legittimità ai giudizi morali (e alle pene, se
consideriamo il piano legale) in funzione della loro utilità sociale;
ma preferiscono non sostenere che gli agenti meritino i giudizi etici
che sono loro rivolti e le pene che sono loro comminate. Le intuizioni
fondamentali alla base dell’etica e del diritto vanno, secondo tale
prospettiva, radicalmente ripensate, in una direzione che molti
filosofi non troverebbero affatto congeniale.
In questo modo, tuttavia, siamo ormai passati a considerare il campo
avverso, composto da coloro i quali assumendo una posizione
radicalmente antimetafisica, tentano una fondazione
consequenzialistica della nozione di responsabilità mettendo l’accento
sui suoi fondamenti sociali. È questa la seconda delle famiglie di
concezioni della responsabilità a cui mi riferivo sopra e comprende
le proposte teoriche di autori come Moritz Schlick, Hobart, Smart e,
più recentemente, Daniel Dennett. Un’utile etichetta per
classificare questa corrente di pensiero è quella di «social-regulation
view». Secondo i fautori di questo approccio, dunque, la nozione di
responsabilità non richiede alcuna giustificazione metafisica;
ovvero, più precisamente, il concetto di responsabilità non
presuppone affatto quello di libertà metafisica. Sono piuttosto le
pratiche sociali quali la valutazione morale e la comminazione di pene
che definiscono la nozione di responsabilità; ed esse si giustificano
solo sulla base della loro utilità. Molto chiare in proposito le
parole di Moritz Schlick:
La pena è uno strumento educativo, e come tale atto a costituire
motivazioni, che da una parte devono impedire al trasgressore la
ripetizione dell’azione (riabilitazione), dall’altra devono
impedire ad altri di commettere azioni simili (intimidazione).
Analogamente, nel caso della remunerazione abbiamo a che fare con
incentivi.
La pena è dunque uno strumento che si giustifica per la sua utilità,
come misura rieducativa per gli autori di atti criminosi e come
deterrente per chi potenzialmente potrebbe violare le leggi (la
giustificazione utilitaristica dei giudizi morali è analoga quella
delle pene: le lodi e le critiche hanno la funzione di incentivare i
comportamenti benefici e disincentivare gli altri). In tal modo, la
nozione di responsabilità viene definita in termini esclusivamente
pragmatici: un agente è moralmente e penalmente responsabile se e
solo se indirizzandogli giudizi morali o comminandogli pene si possono
ottenere conseguenze utili sul piano pratico. Come spiega Daniel
Dennett, in questo modo la responsabilità perde ogni connotato
metafisico, in quanto viene svincolata dal tradizionale concetto di
colpa, di matrice teologica (un concetto che secondo Dennett
presuppone che vi sia un punto di vista corretto dal quale si possa
giudicare della correttezza delle attribuzioni di responsabilità: e
questo punto di vista altro non è che quello divino). Una filosofia
secolarizzata - affermano questi autori - non può che rinunciare a
queste categorie, retaggio di un’antiquata visione del mondo, ed
accettare il fatto che l’unica giustificazione delle nostre pratiche
morali e legali è data dalla loro utilità sociale. In questa
prospettiva, potremmo concludere, la nozione di responsabilità -
lungi dall’essere di competenza della metafisica - va studiata con
gli strumenti concettuali propri della filosofia sociale.
La terza via di Strawson
Se tuttavia la proposta con cui i libertari tentano di dare conto del
concetto di responsabilità sembra inesorabilmente viziata dall’assunzione
di un arcaico punto di vista metafisico ex parte dei, nemmeno la
social-regulation view pare veramente soddisfacente, perché sembra
dimenticare del tutto un dato che è già del senso comune, prima che
della metafisica: ovvero il fatto che la nozione di responsabilità
sembra concettualmente prioritaria alla formulazione dei giudizi
morali e alla comminazione di pene. Gli agenti, infatti, sono
giudicati moralmente e penalmente, per ciò che si presume abbiano
fatto.
Tanto la posizione iper-metafisica dei libertari quanto quella
radicalmente pragmatica della social-regulation view paiono dunque
viziate da preconcetta, e speculare, unilateralità. I teorici del
libertarismo, nell’assumere per la loro concezione della
responsabilità un punto di vista ex parte dei (come giustamente
obietta loro Dennett), perdono di vista l’essenziale radicamento di
tale concetto nelle pratiche sociali. Viceversa, l’approccio
utilitaristico dei difensori della social-regulation view considera
quelle stesse pratiche in abstracto, come se esse si giustificassero
esclusivamente alla luce dei risultati pratici che con esse si possono
ottenere e non richiedessero invece di rispecchiare alcune nostre
fondamentali intuizioni. Ripetendo un’obiezione che viene
tipicamente mossa contro questo tipo di concezione, potremmo dire che
essa rovescia l’intuitivo ordine dei fattori, secondo il quale
dovremmo biasimare o punire chi è responsabile, non considerare
responsabile chi può essere utilmente biasimato o punito.
Come spesso capita in filosofia, l’ipotesi più promettente è
tentare di conciliare queste due posizioni, emendandole dei rispettivi
estremismi teorici. Il più autorevole tentativo in questo senso è
stato sviluppato da P.F. Strawson in un celebre articolo del 1962,
Freedom and Resentment, che ha suscitato un ampio e non ancora
concluso dibattito. La tesi fondamentale di Strawson è che il
concetto di responsabilità è inscindibile dagli «atteggiamenti
reattivi» (reactive attitudes) e dai sentimenti morali con cui
reagiamo ai comportamenti degli altri, quali il risentimento, la
gratitudine, l’indignazione: sono questi atteggiamenti che, per
così dire, strutturano socialmente la nozione di responsabilità. Per
giudicare della praticabilità della proposta strawsoniana dobbiamo
ora analizzare la sua argomentazione con attenzione.
Strawson, in effetti, è critico tanto verso gli utilitaristi della
social-regulation view tanto verso i libertari. Ai difensori della
prima concezione - da lui definiti «ottimisti» -, obietta che con la
loro interpretazione della responsabilità in termini meramente
consequenzialistici, essi non sono in grado di cogliere la vera natura
dei giudizi di responsabilità. Il loro, infatti, è un «utilitarismo
miope», che perde completamente di vista i sentimenti e gli
atteggiamenti di cui l’attribuzione di responsabilità e le connesse
pratiche punitive sono, almeno in parte, espressione e di cui
forniscono la giustificazione.
Ciò che è errato [nella social-regulation view] è dimenticare che
queste pratiche, e la loro ricezione (le reazioni ad esse), sono
veramente espressione dei nostri atteggiamenti morali e non meri
strumenti che noi coscientemente impieghiamo per scopi regolativi.
Dall’altro lato, Strawson contesta il «pessimismo» dei libertari,
i quali ritengono che in un mondo deterministico non vi sia posto né
per la libertà né per la responsabilità. In questo senso i
libertari attribuiscono un indebito peso ai presunti requisiti
metafisici della responsabilità, sino al punto che ricercano un’impossibile
giustificazione esterna ai sentimenti morali reattivi che sottostanno
alle ascrizioni di responsabilità, laddove sono proprio tali
sentimenti che costituiscono o meglio esprimono la responsabilità.
Secondo Strawson, in realtà, al contrario di ciò che pensano i
libertari, noi non potremmo smettere di considerare i nostri simili
responsabili per le loro azioni nemmeno nel caso in cui giungessimo a
disporre di valide ragioni in favore del determinismo causale. Se
Strawson ha ragione, non c’è motivo di temere che qualora il mondo
sia deterministico le nostre attribuzioni di responsabilità siano in
realtà ingiustificate; né v’è motivo di tentare di fondare la
nozione di responsabilità su presupposti metafisici indeterministici,
come fanno i libertari.
Riassumendo in una formula le sue critiche a questi due approcci,
Strawson afferma che entrambi «iperintellettualizzano i fatti»:
tanto i teorici della social-regulation view quanto i libertari,
infatti, sono abbagliati da pregiudizi filosofici (la tesi che la sola
utilità possa giustificare le pratiche sociali, nell’un caso; l’ideale
della libertà metafisica, nell’altro caso) e dimenticano il ruolo
essenziale che il nostro impegno negli «atteggiamenti interpersonali
ordinari» gioca nella «struttura generale della vita umana». Ma se
è vero che tanto i sostenitori della social-regulation view quanto i
metafisici che difendono l’incompatibilismo di libertà e
determinismo causale sono in errore nel dimenticare gli
«atteggiamenti interpersonali ordinari o reattivi», resta l’arduo
compito di articolare un’adeguata teoria della responsabilità che
ne tenga invece conto. Dobbiamo cioè dare conto del nesso che lega il
concetto di responsabilità agli atteggiamenti interpersonali e, su
quella base, spiegare come si giustifichino - se si giustificano - le
nostre ascrizioni di responsabilità agli agenti.
Secondo Strawson, dunque, la nozione stessa di responsabilità si
concretizza, si «esprime», nelle dinamiche sociali proprie degli
atteggiamenti reattivi e dei sentimenti morali e non dipende affatto
da un qualche giudizio intellettuale (che riguarderebbe l’utilità
di quelle pratiche o i meriti e i demeriti dei liberi agenti). Nella
nozione di responsabilità non c’è nulla, in sostanza, oltre le
nostre pratiche. Così si esprime in proposito un acuto fautore delle
tesi di Strawson:
Non è vero che consideriamo le persone responsabili perché esse sono
responsabili; piuttosto l’idea (la nostra idea) che noi siamo
responsabili deve essere compresa considerando la pratica, che di per
sé non dipende dal ritenere vera una qualche proposizione, ma dal
fatto che noi esprimiamo le nostre preoccupazioni e le nostre
necessità rispetto al modo di cui ci trattiamo gli uni con gli altri.
Al fine di articolare questa tesi, Strawson elabora una fine
tassonomia degli atteggiamenti e delle pratiche - morali, psicologici
e legali - connessi con le ascrizioni di responsabilità. Egli, in
particolare, mostra in maniera convincente che gli «atteggiamenti
reattivi» con cui reagiamo al modo con cui gli agenti si dispongono
verso di noi e verso gli altri agenti sono di vario genere. Nel caso
in cui essi originino in transazioni in cui siamo personalmente
coinvolti, Strawson parla di «atteggiamenti reattivi non
distaccati». È questo il caso dei sentimenti di gratitudine e di
risentimento, del perdono, dell’amore e dell’odio, che nascono in
noi in risposta al modo in cui gli altri si pongono nei nostri
confronti.
Esiste poi un diverso tipo di atteggiamenti - «distaccati»,
«vicari», «disinteressati» o «impersonali» - che sono quelli che
assumiamo, quando reagiamo al modo in cui gli altri si pongono non
verso di noi, ma verso una terza parte. In questo caso il nostro
interesse o la nostra dignità non sono in gioco e noi possiamo, per
così dire, collocarci al di sopra delle parti, in quanto siamo
emotivamente non coinvolti (o, almeno, siamo meno coinvolti delle
parti in causa). Laddove il punto di vista «non distaccato» ha
connotazioni sostanzialmente psicologiche, quello «distaccato»
coincide con il punto di vista etico, in quanto prescinde dall’interesse
personale ed aspira alla validità intersoggettiva (ciò accade per
esempio nel caso dell’approvazione e della disapprovazione morali).
C’è infine un terzo tipo di atteggiamenti, quelli autoreferenti,
che sono associati con il modo in cui noi reagiamo al nostro stesso
comportamento, come quando ci sentiamo in debito verso qualcuno o come
quando proviamo rimorso, senso di colpa o orgoglio per le nostre
azioni. Naturalmente, nota Strawson, questi tre diversi tipi di
atteggiamenti sono strettamente interdipendenti: se per esempio un
agente non desse mai prova di provare atteggiamenti distaccati sarebbe
visto come un solipsista morale - o come un mostro di egoismo, si
potrebbe dire in linguaggio quotidiano.
Tutti, comunque, abbiamo presenti casi di agenti rispetto ai quali ci
atteggiamo in maniera del tutto diversa rispetto a quelle appena
descritte. In questi casi i normali atteggiamenti reattivi vengono
sospesi nei confronti di determinati agenti, i quali non vengono
ritenuti responsabili per azioni per cui, in situazioni normali, essi
sarebbero criticati o puniti; essi, cioè, vengono giustificati o
scusati per le loro azioni. L’analisi di tali casi è di particolare
interesse, secondo Strawson, per stabilire se sia vero, come
sostengono i libertari, che il determinismo è incompatibile con la
responsabilità.
Le situazioni in cui i normali atteggiamenti reattivi sono sospesi, e
gli agenti scusati per le loro azioni, appartengono a due categorie.
In primo luogo vi sono circostanze in cui la sospensione è
temporanea. Ciò avviene per esempio quando l’agente non aveva l’intenzione
di compiere un’azione che di per sé sarebbe biasimevole o non gli
era possibile evitare di compierla o, ancora, non conosceva gli
effetti che ne sarebbero seguiti. In tutti questi casi, l’agente,
pur venendo scusato per quella particolare azione, continua ad essere
considerato un agente pienamente responsabile; ovvero, per riprendere
la terminologia strawsoniana, egli continua ad essere visto come un
agente a cui può essere legittimamente applicato tutto il normale
ventaglio di atteggiamenti reattivi (tale agente, dunque, può essere
perfettamente biasimato per altre azioni). Diverso il caso in cui la
sospensione degli atteggiamenti e dei sentimenti di reazione nei
confronti di un agente non riguarda soltanto una particolare azione da
questi compiuta, ma è generale. Una tale sospensione può essere
temporanea (come quando scusiamo un agente per le azioni che compie in
situazioni di particolare stress emotivo o sotto l’effetto di
droghe) o permanente (come accade nel caso di particolari patologie
psichiche).
Lo scopo di questa analisi è di valutare la liceità dell’analogia
dei «pessimisti» libertari che, dai casi di sospensione locale delle
ascrizioni di responsabilità, inferiscono che una sospensione
generale e perpetua sarebbe necessaria nel caso in cui fosse vero il
determinismo causale. In una parola, i libertari vedono il
determinismo causale come una condizione scusante universale. È
dunque evidente che i più interessanti casi di sospensione locale dei
giudizi di responsabilità sono quelli in cui un agente non viene mai
considerato responsabile per le proprie azioni, in quanto tali casi
sono i più prossimi allo scenario deterministico. In fondo, potrebbe
argomentare il pessimista libertario, se una tale sospensione è
lecita per singoli agenti, perché non dovrebbe esserlo per tutti gli
agenti, nel caso in cui - a causa del determinismo - essi non
potessero evitare le azioni che compiono, in una parola in cui essi
non fossero liberi nel senso metafisico?
Lo stesso Strawson riconosce che una tale inferenza dal particolare al
generale esercita una qualche attrattiva intellettuale. «In noi c’è
una naturale inclinazione a ritenere», egli scrive, «che l’impossibilità
assoluta per gli agenti ad agire diversamente da come agiscono - la
quale seguirebbe dalla verità del determinismo - sia in realtà
incompatibile con il ritenerli responsabili per ciò che essi fanno».
Tuttavia secondo Strawson si può dimostrare che questa conclusione,
per quanto a prima vista attraente, è in realtà errata. A suo
giudizio, in particolare, è sbagliato asserire, come fanno molti
libertari, che essa sia una sorta di generalizzazione universale dei
casi appena ricordati, in cui alcuni determinati individui, portatori
di particolari patologie, vengono riconosciuti come del tutto
irresponsabili. Le due situazioni sono in realtà intrinsecamente
diverse e nulla si può inferire dall’una all’altra.
In presenza di individui che, a torto o a ragione, consideriamo
irresponsabili, noi cessiamo di rispondere con i consueti
atteggiamenti reattivi e adottiamo un punto di vista che Strawson
chiama oggettivo, nel senso che nei confronti di questi individui ci
poniamo come se fossimo di fronte ad oggetti di possibili trattamenti
clinici o, eventualmente, di misure di contenimento. Quando tentiamo
di interpretare i loro comportamenti, non cerchiamo spiegazioni di
carattere razionale (non cerchiamo cioè di risalire agli stati
mentali che sono all’origine delle nostre azioni), ma spiegazioni
causali di carattere scientifico. Secondo molti autori, anzi, a rigore
tali comportamenti non si dovrebbero nemmeno considerare azioni
(perché non se ne possono dare descrizioni in termini intenzionali),
ma meri eventi naturali. In una parola, gli individui che consideriamo
irresponsabili perdono per noi la qualifica di agenti.
Casi del genere sono, purtroppo, noti a tutti. Strawson, tuttavia,
ritiene che essi non gettino alcuna luce su ciò che accadrebbe nel
caso che avessimo ragione di ritenere vera la tesi deterministica. In
una parola, quand’anche un giorno fosse per noi ragionevole credere
che gli esseri umani soggiacciono a leggi di carattere deterministico,
ciò secondo Strawson non avrebbe le catastrofiche conseguenze
paventate dai libertari e dalla loro «panicky metaphysics». Secondo
i libertari, in effetti, se giungessimo a credere alla verità del
determinismo, sarebbe per noi razionale abbandonare ogni illusione di
libertà e dunque rinunciare a tutti gli atteggiamenti reattivi e alle
attribuzioni di responsabilità che ne dipendono: a loro giudizio,
cioè, sarebbe razionale adottare per tutti e in ogni occasione il
punto di vista che abbiamo chiamato «oggettivo». Dovremmo cioè
guardare a noi stessi e ai nostri simili come parti completamente
integrate in un sistema totalmente vincolato dall’ineludibile
meccanismo deterministico.
La tesi principale del saggio di Strawson è proprio che questo
pessimistico ragionamento, tipico dei libertari, è errato. La
dimostrazione di ciò, tuttavia, è assai meno evidente di quanto il
suo autore non suggerisca quando - con understatement tipicamente
britannico - dichiara che la sua discussione è poco più di uno
sviluppo di qualche luogo comune. Paul Russell - che è stato
recentemente autore di un intelligente studio che rilegge la filosofia
morale di Hume come un’anticipazione delle tesi strawsoniane - ha
proposto recentemente un’utile ricostruzione del tentativo di
confutazione dell’argomento dei libertari proposto da Strawson,
mostrando come esso sia in realtà composto di due diverse strategie,
che Russell ha chiamato «strategia razionalistica» e «strategia
naturalistica». Un chiaro indizio della correttezza di questa tesi di
Russell è a mio parere fornito dal modo in cui Strawson riassume il
tema fondamentale del suo saggio in una domanda: «potrebbe, o
dovrebbe, l’accettazione della tesi deterministica indurci a
considerare tutti quanti sempre e solo in questo modo [cioè, dal
punto vista oggettivo]?».
Il verbo «dovrebbe» sembra alludere alla strategia razionalistica
(che pone la questione de jure); il verbo «potrebbe» a quella
naturalistica (che pone la questione de facto). Credo, dunque, che
Paul Russell abbia ragione nell’individuare il duplice piano dell’argomentazione
strawsoniana, quello razionalistico e quello naturalistico. È mia
opinione, tuttavia, che le due strategie abbiano un peso differente e
che sia la seconda, quella naturalistica, a portare su di sé il
maggior peso argomentativo.
Atteggiamenti reattivi e responsabilità
È tesi comune dei libertari che se avessimo ragione di credere nel
determinismo, allora sarebbe per noi razionale abbandonare gli
atteggiamenti reattivi e le nostre quotidiane ascrizioni di
responsabilità. In una parola, in una tale situazione dovremmo
assumere, sempre e per tutti, l’atteggiamento oggettivo che
normalmente usiamo solo nei confronti degli sfortunati portatori di
determinate e assai gravi patologie psichiche. La tesi di Strawson è
del tutto opposta. A suo giudizio, seppure si dimostrasse la verità
del determinismo, sarebbe per noi perfettamente razionale continuare a
mantenere l’intero sistema degli atteggiamenti reattivi e delle
attribuzioni di responsabilità. In una parola, dovremmo continuare a
guardare agli altri e a noi stessi come ad agenti, non a meri oggetti
naturali. Secondo Strawson, infatti, noi di fatto assumiamo il punto
di vista oggettivo solo nei confronti di persone che consideriamo
psichicamente anormali; ma quella di «anormalità» è ovviamente un’attribuzione
relativa, che assume la normalità degli altri agenti come base
comparativa. Quindi il libertario sbaglia quando pensa di poter usare
questi casi come base analogica per dimostrare cosa accadrebbe quando
il determinismo si dimostrasse vero. Anche in una situazione del
genere, infatti, sarebbe per noi impossibile considerare tutti e
sempre anormali, come pretenderebbe il libertario, ché l’anormalità
può essere percepita solo sullo sfondo della normalità. Con le
parole di Strawson, l’affermazione che «l’anormalità è
condizione universale può essere conseguenza soltanto di una tesi
contraddittoria».
Questa, naturalmente, è una tautologia (per definizione, l’anormalità
può essere solo l’eccezione, non la regola) e dunque certamente
vera. Ma essa è in grado di chiudere la discussione sulle
implicazioni che seguirebbero alla constatazione della verità del
determinismo? A mio giudizio, no. Il punto della questione, infatti,
non è che se fosse vero il determinismo saremmo tutti anormali, ma
piuttosto che saremmo incapaci di agire liberamente. E non c’è
proprio nulla di concettualmente contraddittorio nell’idea di una
incapacità globale, come invece c’è in quella di anormalità
globale: e la cupa prospettiva dell’incapacità globale è più che
sufficiente al libertario per sviluppare il suo argomento. Dunque,
questo argomento di Strawson non fa veramente presa contro il
libertarismo.
Più interessante è invece un altro tentativo strawsoniano di
dimostrare che una volta ammessa la verità del determinismo sarebbe
comunque razionale per noi preservare il sistema dei sentimenti
morali, degli atteggiamenti reattivi, delle attribuzioni di
responsabilità così come lo concepiamo ora. Secondo Strawson,
infatti, una tale scelta potrebbe avvenire soltanto «alla luce di un
giudizio sui guadagni e sulle perdite che ne deriverebbero alla vita
umana, sull’arricchimento o sull’impoverimento che potrebbe
riceverne»; e certamente la verità della tesi generale del
determinismo non potrebbe avere conseguenze su questa scelta. Strawson
non ha dubbi in proposito: l’abbandono delle nostre consuete
modalità di interazione sociale sulla base di un argomento teorico
sarebbe per noi irrazionale, perché comporterebbe un’enorme
svalutazione delle nostre vite.
Per valutare questo argomento, dobbiamo considerare la concezione
della razionalità che esso sottende. Si tratta in realtà di una
concezione utilitaristica piuttosto estrema, secondo la quale, quando
dobbiamo operare una scelta, è razionale scegliere l’opzione che
arricchisce maggiormente la nostra vita, quella che può dare il
maggiore incremento alla nostra felicità. Questa concezione della
razionalità, tuttavia, mi pare molto dubbia, perché essa è del
tutto sconnessa dall’impegno, che noi percepiamo, a perseguire la
verità. Un semplice esperimento mentale può a mio giudizio
illustrare questa intuizione.
Un giorno viene a trovarci uno scienziato che ci propone di
sperimentare un nuovo farmaco da lui sintetizzato. Questo farmaco
produrrà in noi - ci dice lo scienziato - un effetto sorprendente:
assumendolo, cadremo in un sonno profondo che durerà
indeterminatamente. Lo scienziato penserà ad alimentarci con
fleboclisi e veglierà su di noi in modo che tutto proceda bene e noi
possiamo continuare a dormire senza interruzione. Allo stesso tempo un
computer collegato al nostro cervello farà sì che il nostro sonno
sia allietato da sogni meravigliosi, nei quali ci immedesimeremo
completamente, scambiandoli per la realtà. Non avremo alcun ricordo
della vita vissuta sino ad allora, né del fatto di aver assunto la
pillola: nulla potrà dunque turbare la felicità e la pace interiore
che questi sogni ci procureranno. La domanda che dobbiamo porci è
questa: in una situazione del genere sarebbe per noi razionale
accettare la proposta dello scienziato e prendere la magica pillola
che egli ci offre?
Non c’è dubbio che se guardassimo soltanto alle considerazioni
utilitaristiche (alla felicità e alla pace interiore che otterremmo)
dovremmo rispondere di sì. Io credo, tuttavia, che vi sia una buona
ragione per ritenere che la risposta a questa domanda debba essere
invece negativa. Lo scenario che ci propone lo scienziato è uno
scenario di inganno e falsità, che ricorda in maniera sinistra quello
prospettato dal dubbio iperbolico dello scettico cartesiano. La scelta
in favore di una vita sconnessa dalla verità ci sembrerebbe in
realtà una scelta irrazionale, anche se dovesse condurci ad un’artificiosa
felicità; e ciò perché tra verità e razionalità c’è un nesso
inscindibile. Ma se è così, si deve stare attenti quando, come
Strawson, si afferma che nel valutare razionalmente le conseguenze del
determinismo sarebbero rilevanti soltanto questioni pratiche
riguardanti i «guadagni e le perdite che ne deriverebbero alla vita
umana, l’arricchimento o l’impoverimento che potrebbe riceverne».
Il perseguimento della verità, in realtà, contribuisce in modo
prezioso all’arricchimento della nostra vita, anche se,
naturalmente, non l’unico. Rinunciarvi, per perseguire il nostro
utile, sarebbe - alla luce di questa concezione della razionalità,
che a me pare assai più intuitiva di quella strawsoniana - errato. In
particolare, afferma il libertario, parrebbe esservi una profonda
differenza tra una situazione in cui noi non siamo determinati
completamente e una in cui lo siamo: nel secondo caso, ci inganneremmo
se credessimo di essere liberi e responsabili (e se agissimo di
conseguenza). In tal caso, in sostanza, una tale credenza non sarebbe
razionale, come invece pretende Strawson.
La strategia con cui Strawson pretende di dimostrare l’irrazionalità
delle tesi del libertario non sembra dunque convincente. Tuttavia,
come dicevo, il fulcro del ragionamento strawsoniano è rappresentato
piuttosto dalla sua seconda strategia antilibertaria, quella
naturalistica, che ambirebbe a confutare le pretese del libertario
indipendentemente dal successo della strategia razionalistica. Secondo
la tesi cruciale di tale strategia, è un fatto - un «fatto
naturale» della nostra costituzione - che noi non potremmo mai
abbandonare il sistema dei sentimenti morali, degli atteggiamenti
reattivi e delle attribuzioni di responsabilità, quali che siano le
indicazioni teoriche o metafisiche in tal senso:
Il nostro essere ineludibilmente impegnati [negli atteggiamenti
reattivi] è un fatto naturale, qualcosa di così profondamente
radicato nella nostra natura quanto lo è la nostra esistenza di
esseri sociali.
In tal modo, se anche potessimo un giorno convincerci della verità
del determinismo - e persino della necessità razionale di abbandonare
i sentimenti morali, gli atteggiamenti reattivi e le attribuzioni di
responsabilità - di fatto un tale passo sarebbe per noi impossibile.
La rete dei sentimenti morali è per Strawson un elemento costitutivo
essenziale della vita sociale: non è possibile porsi da un punto di
vista esterno ad essa (ovvero da un punto di vista metafisico) dal
quale giudicare della correttezza o meno dell’adozione di questa
rete. L’eventuale consapevolezza teorica del nostro essere
causalmente determinati sarebbe perciò del tutto ininfluente sul
piano pratico: noi non potremmo che continuare ad interagire, come se
nulla fosse, gli uni con gli altri, alla luce del sistema degli
atteggiamenti reattivi e dei sentimenti morali. La nozione di
responsabilità e tutte le pratiche che ne dipendono (incluse le
pratiche punitive, morali e legali) non ne sarebbero in alcun modo
alterate. Con le parole di Strawson:
A mio giudizio, per gli esseri umani la partecipazione alle relazioni
interpersonali ordinarie rappresenta un impegno troppo completo e
troppo profondamente radicato per poter seriamente pensare che una
convinzione teorica generale [come la verità del determinismo] possa
cambiare il nostro mondo al punto che non si darebbe più nulla come
le relazioni interpersonali così come noi normalmente le intendiamo.
Considerata tale «naturalezza» del sistema degli atteggiamenti
reattivi e delle ascrizioni di responsabilità, nota Strawson in
spirito humeano, la richiesta formulata dai libertari di abbandonare
il sistema qualora si dimostrasse la verità del determinismo ha la
stessa possibilità di successo della richiesta di abbandonare - sulla
base di argomenti metafisici - la nostra istintiva fiducia nell’induzione,
nel principio di causalità o nell’esistenza dei corpi.
La strategia naturalistica proposta da Strawson contro il pessimismo
dei libertari è sottile e seducente. A mio giudizio, tuttavia, neanch’essa
è veramente convincente. In primo luogo, seppure la strategia
naturalistica riuscisse nell’intento di dimostrare che mai potremmo
abbandonare gli atteggiamenti reattivi sulla base di considerazioni
intellettuali, la forza di una tale conclusione sarebbe meramente
descrittiva: essa, cioè, concernerebbe il piano psico-antropologico,
ma non quello della razionalità; d’altra parte, come abbiamo visto,
la strategia razionalistica tentata da Strawson per dimostrare questa
tesi sul piano razionale-prescrittivo non riesce nell’intento. Quand’anche,
allora, Strawson avesse ragione a pensare che un’eventuale
constatazione della verità del determinismo non potrebbe comunque
alterare il nostro naturale coinvolgimento nella rete degli
atteggiamenti reattivi e delle attribuzioni di responsabilità,
resterebbe comunque il fatto che, a quel punto, un tale coinvolgimento
non sarebbe più razionale. Insorgerebbe, insomma, un conflitto tra
ciò che in tale situazione sarebbe per noi razionale fare e ciò che
invece sarebbe naturale. E tale differenza, si noti, non avrebbe
differenze di poco conto: laddove, infatti, sarebbe razionale
sostenere che gli agenti non sono responsabili per le proprie azioni,
noi naturalmente tenderemmo a ritenerli tali.
Tuttavia, la strategia naturalistica di Strawson incontra anche altre
rilevanti difficoltà. Essa, per esempio, si basa su un’intuizione
che non è affatto universalmente condivisa. Secondo alcuni, infatti,
le conseguenze dell’accertamento della verità del determinismo
sarebbero diametralmente opposte a quelle prospettate da Strawson.
Ecco come si esprime in proposito un celebre collega di Strawson a
Oxford:
Se il determinismo sociale e psicologico venisse accettato come una
verità conclamata, il nostro mondo si trasformerebbe più
radicalmente di quanto non accadde al mondo teleologico dell’età
classica e del medioevo con i trionfi dei principi meccanicistici o
con quelli della selezione naturale. Le nostre parole - i nostri modi
di parlare e di pensare - si trasformerebbero in maniera letteralmente
inimmaginabile; le nozioni di scelta, di responsabilità, di libertà
sono così profondamente incastonate nella nostra concezione che è
per noi enormemente difficile immaginare la nostra nuova vita di
creature viventi in un mondo in cui veramente mancassero questi
concetti. Ad ogni modo, allarmarci per questo sarebbe per noi del
tutto ingiustificato.
A me non è chiaro cosa avverrebbe in una situazione del tutto estrema
qual è questa. Tuttavia, lo scenario prospettato da Berlin non mi
pare affatto assurdo, come può dimostrare un facile esperimento
mentale. Se un giorno scoprissi che il mio vicino di casa è un
sofisticato robot, controllato deterministicamente da uno scienziato,
certo cambierei il mio atteggiamento verso di lui. In un simile caso,
non sarebbe affatto «naturale» per me continuare a considerarlo
responsabile per le sue azioni (se il mio vicino di casa-robot facesse
rumore la notte non proverei risentimento verso di lui, ma verso lo
scienziato che lo ha programmato). D’altra parte sarei ancora più
sconcertato se scoprissi che tutti gli abitanti del mio palazzo (o
tutti i miei concittadini) sono controllati deterministicamente; e l’argomento
si potrebbe estendere a piacere. In casi del genere - mi pare di poter
dire con confidenza - non è affatto ovvio che il mantenimento degli
atteggiamenti reattivi e delle ascrizioni di responsabilità da parte
nostra sarebbe, come afferma Strawson, un «fatto naturale». La
verità sembra essere piuttosto che in questo ambito le nostre
intuizioni non sono chiare a sufficienza, né in un senso né nell’altro,
e dunque non possiamo fondarci su di esse per capire cosa faremmo di
fatto se scoprissimo la verità del determinismo.
Che la strategia naturalistica non funzioni si evince già da un
rapido sguardo dell’analogia che Strawson sviluppa richiamandosi
alle nostre credenze nella causalità, nell’induzione, nell’esistenza
dei corpi. È vero, a mio giudizio, che noi non potremmo cessare di
intrattenere tali credenze, anche in presenza di convincenti argomenti
contrari. Ma, si chiede Strawson, con la libertà non accade forse la
stessa cosa, che sia vero il determinismo o meno?
A me sembra invece che l’analogia strawsoniana non sia calzante. Noi
non possiamo, per fare un esempio, concepire un mondo senza causazione
(lo humeano «cemento dell’universo»); possiamo però immaginare un
mondo senza libertà: un mondo senza esseri razionali sarebbe di
questo genere; oppure possiamo immaginare che nel nostro mondo gli
esseri umani si estinguano, ma sopravvivano loro macchine
deterministiche in grado di riprodursi. In fondo, il libertario non fa
altro che temere che questo sia già il caso del nostro mondo, se è
vero il determinismo.
Da quanto precede sembra ragionevole concludere che l’esigenza
metafisica dei libertari non è del tutto infondata. Questo però non
significa che non abbiano la loro parte di ragione anche i teorici
della social-regulation view, nella misura in cui temono lo sfondo
teologico della concezione che il libertarismo offre al concetto di
responsabilità. A un tale sfondo, in effetti, il libertarismo sembra
sacrificare la fondamentale componente sociale della responsabilità -
una componente che è stato merito della social-regulation view e
dello stesso Strawson aver posto bene in rilievo.
Tutte le concezioni che abbiamo esaminato in questo articolo sembrano,
allora, peccare di unilateralità: il libertarismo in quanto assume il
punto di vista di una metafisica obsoleta, sconnettendo troppo
radicalmente le nostre attribuzioni di responsabilità dalla vita
sociale, dagli atteggiamenti e dalle pratiche intersoggettive; la
social-regulation view in quanto compie l’errore opposto, sancendo
la completa indipendenza concettuale di tali pratiche da ogni
possibile giustificazione non utilitaristica. L’interessante
tentativo di Strawson, infine, pur avendo l’innegabile merito di
mettere in luce il fondamentale nesso che le attribuzioni di
responsabilità hanno con la rete degli atteggiamenti reattivi e dei
sentimenti morali, sembra troppo sbilanciato sul versante avverso alla
metafisica. Come dimostrano con chiarezza gli sviluppi che questa
disciplina ha conosciuto negli ultimi decenni, soprattutto in ambiente
analitico, non è affatto necessario che la metafisica assuma un punto
di vista simile a quello della teologia né che ignori
metodologicamente le acquisizioni della scienza e le intuizioni del
senso comune.
Ma dalla constatazione che lo stato della discussione sulla nozione di
responsabilità non ha condotto a conclusioni stabili non è affatto
necessario, a mio giudizio, trarre le conclusioni nichilistiche che ne
traggono invece alcuni autori che ho menzionato sopra, i quali
propongono di rinunciare del tutto ai tentativi di dare il conto del
concetto di responsabilità in quanto esso sarebbe irrimediabilmente
oscuro. Al contrario, se un senso generale può essere tratto dalla
discussione che precede è che il concetto di responsabilità è un
elemento fondamentale tanto nelle nostre pratiche sociali quanto della
nostra visione metafisica (il che non vuol dire necessariamente
visione teologica) della realtà; ed è mia convinzione che la
resistenza che tale concetto oppone a tutti tentativi di analisi
filosofica dipende in misura considerevole dal fatto che una sua
comprensione richiede la cooperazione di diversi ambiti: dell’etica
e della metafisica, della filosofia sociale e di quella del diritto.
Nessuno di questi apporti può essere trascurato; d’altra parte, il
compito di fornire una visione d’insieme del concetto di
responsabilità, per quanto auspicabile, non si presenta affatto
agevole.
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