
|
Fatti istituzionali e fatti
convenzionali
Bruno Celano
Questo saggio appare sul numero 2/2000 della Nuova Serie della
rivista Filosofia e Questioni Pubbliche diretta da Sebastiano
Maffettone. Per ulteriori informazioni potete collegarvi al sito della
Luiss Edizioni o
scrivere all'indirizzo e-mail edizioni@luiss.it
Introduzione
Del mondo sociale fanno parte, o almeno sembrano fare parte, fatti che
presentano una caratteristica sorprendente: sussistono, hanno luogo,
solo se si crede che essi sussistano, abbiano luogo.
I fatti in questione sono cioè fatti la cui sussistenza dipende (è
condizionata) dalla credenza che essi sussistano: si dà il caso che p
solo se si crede che si dia il caso che p; S è P solo se si crede che
S sia P; F sussiste solo se si crede che F sussista. Ad esempio:
qualcosa è denaro solo se è ritenuto essere denaro; un certo tipo di
movimento fisico è una mossa del gioco degli scacchi solo se si
ritiene che sia una mossa del gioco degli scacchi; un certo insieme di
eventi costituisce un matrimonio solo se si ritiene che costituisca un
matrimonio; e così via, per un gran numero di nozioni chiave relative
a pratiche istituzionalizzate. Chiamerò i fatti sociali che
soddisfano questa condizione «fatti dipendenti dalla credenza», o
«fatti istituzionali».
I fatti istituzionali sono caratterizzati da una relazione di
circolarità fra essere e credere. In generale, relativamente a ogni
genere di fatti, è possibile credere in modo veritiero che p solo se
si dà il caso che p (‘Tizio crede in modo veritiero che p’
implica ‘si dà il caso che p’). Nel caso dei fatti istituzionali,
però, vale anche la relazione inversa: se p è un fatto
istituzionale, è possibile che si dia il caso che p solo se si crede
che p (nel caso dei fatti istituzionali, ‘si dà il caso che p’
implica ‘si crede che si dia il caso che p’).
La circolarità di essere e credere (la dipendenza dalla credenza) che
caratterizza i fatti istituzionali ha una conseguenza: i concetti
istituzionali sono autoreferenziali. Quando C è un concetto
istituzionale, affinché C si applichi a un certo tipo di oggetto O
(affinché O cada sotto C, soddisfi la definizione di C) è necessario
che si creda che C si applica a O (che O cade sotto C, soddisfa la
definizione di C): ‘O è C’ significa, in parte, ‘O è ritenuto
essere C’ (dire che O è C equivale a dire che O presenta certe
caratteristiche, ed è ritenuto essere C; parte dell’analisi di C
sarà la clausola: ‘è ritenuto essere C’). Ad esempio: che un
certo tipo di oggetto sia denaro significa che presenta certe
caratteristiche, e che è ritenuto essere denaro.
L’autoreferenzialità dei concetti istituzionali, a sua volta,
sembra generare un regresso all’infinito (o un circolo vizioso). Se
parte del contenuto dell’affermazione che qualcosa è x (ad esempio,
denaro) consiste nell’affermazione che la cosa in questione è
creduta essere x, «qual è il contenuto di questa credenza?». Nel
caso dei fatti istituzionali, la credenza che qualcosa è x è, in
parte, la credenza che essa è creduta essere x; è, cioè, la
credenza che essa è creduta essere qualcosa che è creduta essere x
(la credenza che essa è creduta essere qualcosa che è creduta essere
qualcosa che è creduta essere x, e così via).
A prima vista, i fatti dipendenti dalla credenza, pur essendo fatti di
tipo peculiare, possono propriamente dirsi esistenti o non esistenti:
possono essere oggetto di asserti (statements) di fatto, di carattere
genuinamente descrittivo, suscettibili di verità o falsità (nello
stesso senso nel quale lo sono asserti che vertono su fatti non
istituzionali; nel senso, assumo qui, della concezione della verità
come corrispondenza).
Ma, ovviamente, i fatti dipendenti dalla credenza (fatti
istituzionali) sono altamente sospetti. L’ammissione della loro
esistenza, e l’idea che il discorso istituzionale (l’uso di
termini istituzionali) sia una forma di discorso descrittivo,
suscettibile di verità o falsità, ripugnano a una mentalità
empirista.
La negazione della possibilità di fatti istituzionali, o del
carattere descrittivo (aletico) del discorso istituzionale, assume
almeno due forme.
1) Obiezione scettica (espressione, in teoria del diritto, di una
posizione realistica estrema): non esistono, in realtà, fatti
dipendenti dalla credenza; la credenza che essi esistano è solo un’illusione.
Più precisamente:
a) le entità istituzionali sono entità illusorie; la credenza nella
loro esistenza è paragonabile alla credenza nei demoni, negli
spiriti;
b) l’idea che gli uomini abbiano il potere di porre in essere,
mantenere in vita, e porre termine all’esistenza di, fatti
istituzionali è un’idea magica: l’idea di un potere magico, o
sovrannaturale.
Dunque, coloro che fanno uso dei termini istituzionali sono preda di
un’allucinazione collettiva.
2) Obiezione di ridondanza (espressione, in teoria del diritto, di una
posizione rigorosamente normativistica): l’uso di termini che
designano fatti istituzionali è solo un espediente linguistico, utile
ma fuorviante: la funzione dei termini istituzionali è meramente
notazionale. I termini istituzionali consentono la riformulazione, in
forma abbreviata o semplificata, di insiemi di prescrizioni (norme), e
precisamente della relazione che intercorre fra insiemi di condizioni
di applicazione di norme (fattispecie), e insiemi di conseguenze
normative (obblighi, divieti eccetera). Affermare l’esistenza di un
fatto istituzionale equivale ad affermare che è soddisfatto l’insieme
(disgiuntivo o congiuntivo) delle condizioni di applicazione
(condizioni di carattere fattuale, descrivibili, in ultima istanza,
mediante termini non istituzionali) di un insieme di norme
condizionali di condotta (norme che stabiliscono che, date certe
condizioni, uno o più soggetti specificati devono, possono o non
devono compiere azioni specificate; azioni che, in ultima istanza,
possono essere descritte in termini non istituzionali).
Ad esempio, affermare che A e B sono sposati equivale ad affermare che
hanno avuto luogo certi fatti, descrivibili mediante termini non
istituzionali, e che tali fatti soddisfano l’insieme di condizioni
al quale un insieme di norme condizionali riconnette particolari
conseguenze normative: particolari obblighi, divieti, permessi,
diritti, poteri eccetera. Non sussiste, in realtà, alcun fatto o
entità ‘matrimonio’, dotato di esistenza indipendente, che venga
magicamente ad esistenza grazie al prodursi dei fatti condizionanti, e
da cui magicamente si generino gli obblighi, divieti, poteri eccetera,
che ne costituiscono le conseguenze normative: il termine ‘matrimonio’
non denota alcunché, ma ha la funzione di un mero espediente
notazionale.
Dunque, gli asserti che fanno (apparentemente) riferimento a fatti
istituzionali, asserendone l’esistenza o specificandone le
proprietà, non hanno, in realtà, carattere descrittivo, ma
prescrittivo (eventualmente, carattere descrittivo del contenuto di
prescrizioni ritenute in qualche senso esistenti - perché, ad
esempio, appartenenti a un sistema normativo, o perché
collettivamente accettate - o dei risultati della qualificazione di
fatti non istituzionali sulla base di prescrizioni). Solo in apparenza
il discorso istituzionale ha carattere descrittivo (solo in apparenza
chi parla di istituzioni, fatti istituzionali, attività
istituzionalizzate eccetera, compie delle affermazioni di fatto): il
vocabolario istituzionale è, in realtà, un travestimento del
vocabolario normativo; ed è, in linea di principio, riducibile a
(eliminabile in favore di) quest’ultimo.
La tesi della riducibilità del vocabolario istituzionale al
vocabolario normativo si presenta, a sua volta, in due versioni:
a) riducibilità del vocabolario istituzionale al vocabolario dei
diritti lato sensu (posizioni normative soggettive: pretesa, dovere;
libertà, non pretesa; potere, soggezione; immunità, non-potere);
b) riducibilità del vocabolario istituzionale al vocabolario delle
modalità deontiche elementari: obbligo, divieto, permesso.
Se si ritiene, come taluni effettivamente ritengono, che il
vocabolario dei diritti (delle posizioni normative soggettive) sia
riducibile al vocabolario deontico elementare, la prima versione della
tesi della riducibilità implicherà la seconda.
Entrambe le obiezioni (l’obiezione scettica, e l’obiezione di
ridondanza, nelle sue due versioni) sono espressione di un
atteggiamento riduzionista in materia di fatti istituzionali. Per la
prima, l’uso di termini istituzionali rende un discorso privo di
significato: il vocabolario istituzionale è vuoto, insensato; il
discorso istituzionale ha, tutt’al più, valore espressivo di stati
d’animo del parlante. La seconda riduce l’uso di termini
istituzionali a una variante, un travestimento, del discorso normativo
standard: il discorso istituzionale è discorso normativo camuffato,
travestito, da discorso descrittivo (a meno che, ripeto, non lo si
interpreti come una descrizione del contenuto di norme in qualche
senso - perché appartenenti a un ordinamento, o perché socialmente
accettate - esistenti; una simile interpretazione non smentisce,
bensì conferma, l’obiezione di ridondanza).
Da entrambi i punti di vista, il punto di vista realistico e quello
normativistico, chi parla di fatti istituzionali come se simili fatti
esistessero effettivamente, e fossero suscettibili di descrizione,
così come effettivamente esistono, e sono suscettibili di
descrizione, i fatti naturali, è vittima di un errore: la
reificazione di entità non esistenti. Sia nel caso dell’obiezione
scettica, sia nel caso dell’obiezione di ridondanza, l’analisi
degli asserti su fatti istituzionali (l’analisi dell’uso di
termini istituzionali) si presenta come dotata di funzione
terapeutica, demistificatoria. Da entrambi i punti di vista, insomma,
il discorso istituzionale appare bisognoso di un energico intervento
terapeutico.
Due teorie
Nel 1995 sono apparse due opere importanti in tema di fatti
istituzionali: The Construction of Social Reality, di J. R. Searle, e
The Opposite Mirrors. An Essay on the Conventionalist Theory of
Institutions, di E. Lagerspetz.
Oggetto di entrambi i libri è la costituzione della realtà sociale.
Entrambi gli autori affermano l’esistenza di fatti (sociali)
dipendenti dalla credenza, considerandoli come i mattoni fondamentali
della realtà sociale. Per entrambi gli autori, i fatti dipendenti
dalla credenza, pur essendo fatti di tipo peculiare, possono
propriamente dirsi esistenti o non esistenti: possono essere oggetto
di asserti di fatto, di carattere genuinamente descrittivo,
suscettibili di verità o falsità (nello stesso senso nel quale lo
sono asserti che vertono su fatti non istituzionali).
Il problema che intendo discutere è se le teorie di Searle e
Lagerspetz riescano a sfuggire alla critica riduzionista (nelle due
versioni, realistica e normativistica). Il discorso istituzionale ha
effettivamente bisogno di un intervento terapeutico?
Il paradigma convenzionalistico
Le teorie di Searle e di Lagerspetz differiscono l’una dall’altra
sotto un aspetto di cruciale importanza: Searle rifiuta, mentre
Lagerspetz accoglie (contribuendo in modo significativo alla sua
elaborazione), un particolare paradigma di analisi dei fatti sociali
dipendenti dalla credenza, che chiamerò «paradigma
convenzionalistico».
Stando al paradigma convenzionalistico, le condizioni di esistenza di
fatti sociali (o, quanto meno, di alcune classi di fatti sociali) sono
da analizzare in termini di teoria dell’interazione strategica: i
fatti sociali in questione rendono possibile la soluzione di problemi
di interazione strategica (problemi di decisioni interdipendenti), che
soddisfano certe condizioni (ad esempio, giochi di pura coordinazione,
giochi di assicurazione, battaglia dei sessi, certi tipi di dilemmi
del prigioniero iterati); e la loro esistenza è spiegata da questa
circostanza (esistono perché rendono possibile la soluzione di
problemi di interazione strategica del tipo rilevante). Grosso modo
(questa non è, propriamente, una definizione, ma solo una
caratterizzazione relativamente imprecisa) il fatto che p è un fatto
convenzionale se e solo se:
1) la conoscenza comune del fatto che p rende possibile la soluzione
di un problema di interazione strategica, PI, che soddisfa certe
condizioni;
2) si dà il caso che p perché la conoscenza comune del fatto che p
rende possibile la soluzione di PI.
Ad esempio: 1. La conoscenza comune del fatto che un certo tipo di
supporto materiale è denaro rende possibile la soluzione, secondo
alcuni, di un gioco di coordinazione, secondo altri, di un gioco di
assicurazione; 2. Un certo tipo di supporto materiale è denaro
perché la conoscenza comune del fatto che lo sia rende possibile la
soluzione di un gioco di coordinazione, o di un gioco di
assicurazione. Caso paradigmatico di fatto convenzionale è una
convenzione (nella particolare accezione di questo termine definita da
D. Lewis).
Il paradigma convenzionalistico si avvale del ricorso alla nozione di
conoscenza comune. Non è facile fornire una definizione soddisfacente
di questa nozione. Ai nostri fini, basterà attenersi alla definizione
corrente: il fatto che p è conoscenza comune fra i membri di un
gruppo G se e solo se ciascuno dei membri di G crede che p, crede che
ciascuno dei membri di G creda che p, e così via all’infinito. D’ora
in avanti, assumerò che questa analisi della nozione di conoscenza
comune sia corretta, e utilizzabile.
La teoria di Searle
La teoria. In The Construction of Social Reality, Searle fa oggetto di
trattazione sistematica la distinzione (elaborata da Elizabeth
Anscombe, e adottata dallo stesso Searle sin dalla prima metà degli
anni Sessanta) fra fatti «bruti» e fatti istituzionali. Con la
locuzione «fatti istituzionali» Searle intende, specificamente,
fatti la cui esistenza è dipendente da istituzioni umane (fatti che
esistono soltanto «entro» istituzioni). Queste ultime sono, a loro
volta, sistemi di regole costitutive: regole della forma ‘X ha
valore di (counts as) Y nel contesto C’, che, dice Searle, creano, e
anche regolano, nuove forme di comportamento, che non sarebbero
possibili in assenza di tali regole medesime (forme di comportamento,
cioè, il cui concetto è logicamente dipendente dalle regole in
questione). Le regole costitutive vengono da Searle contrapposte alle
regole che egli chiama «regolative», nella classe delle quali
ricadono le norme in termini di obblighi, divieti, permessi. Le regole
regolative, a differenza delle regole costitutive, regolano forme di
comportamento che sono possibili anche in assenza di tali regole
medesime e, in questo senso, preesistono rispetto ad esse (le regole
regolative, cioè, regolano forme di comportamento il cui concetto è
logicamente indipendente da tali regole medesime).
In The Construction of Social Reality l’obiettivo di Searle è l’elaborazione
di una «teoria generale dell’ontologia dei fatti sociali e delle
istituzioni sociali». Gli elementi che consentono di rendere conto
della possibilità di fatti istituzionali sono, secondo Searle, tre:
1) assegnazione di funzione: la capacità, da parte degli esseri
umani, di assegnare, o imporre, funzioni a oggetti, siano essi
naturali o costruiti (ad esempio, la capacità di assegnare a una
pietra la funzione di fermacarte). L’imposizione di una funzione è,
precisa Searle, una forma di intenzionalità;
2) intenzionalità collettiva: la capacità, da parte degli esseri
umani, di condividere stati intenzionali: di avere stati mentali della
forma: ‘Noi (collettivamente) crediamo (desideriamo, intendiamo
eccetera) che...;
3) regole costitutive.
In che modo questi tre elementi consentono, secondo Searle, di rendere
conto della possibilità di fatti istituzionali?
Il nocciolo della teoria di Searle si può riassumere nella tesi
seguente: si ha un fatto istituzionale se e solo se viene assegnata a
un certo tipo di oggetto, per intenzionalità collettiva, una funzione
che (a differenza da quanto accade nel caso della pietra utilizzata
come fermacarte) l’oggetto non è in grado di adempiere in virtù
della sua costituzione fisica, ma solo in virtù dell’accettazione
collettiva del fatto che esso sia in grado di adempierla. Searle
chiama questo tipo di funzioni - funzioni che gli oggetti cui sono
assegnate non sono in grado di adempiere in virtù della loro
costituzione fisica, ma solo in virtù dell’accettazione collettiva
del fatto che essi siano in grado di adempierle - «funzioni di
status». L’imposizione di una funzione di status ha la forma: ‘X
(un certo tipo di cosa) ha valore di Y (uno status, cui si accompagna
una funzione, o un insieme di funzioni, del tipo indicato) in C’.
Più precisamente, prosegue Searle, «la creazione di una funzione di
status consiste nel conferimento di un qualche nuovo potere»: l’intenzionalità
collettiva costitutiva di fatti istituzionali ha la forma: ‘Noi
collettivamente accettiamo (Tizio ha potere (Tizio fa A))’
Un esempio può chiarire questa proposta di analisi. Che un certo tipo
di pezzo di carta sia una banconota da mille lire è un fatto
istituzionale. Questo fatto sussiste se e solo se al tipo di pezzo di
carta in questione viene assegnato, per intenzionalità collettiva, lo
status di banconota da mille lire, uno status cui si accompagna un
insieme di funzioni (l’insieme di ciò che si può fare con una
banconota da mille lire, in quanto banconota da mille lire); funzioni,
si noti, che il pezzo di carta non è in grado di adempiere in virtù
della sua costituzione fisica, ma solo in virtù dell’accettazione
collettiva del fatto che esso abbia lo status di banconota da mille
lire. Ma, prosegue Searle, la struttura profonda di questa
assegnazione collettiva di funzione (cioè: la struttura profonda dell’intenzionalità
collettiva costitutiva del fatto istituzionale in questione) consiste
nel conferimento di un nuovo potere: la struttura profonda dell’intenzionalità
collettiva costitutiva dell’entità ‘banconota da mille lire’
è: ‘Noi collettivamente accettiamo che chiunque sia in possesso di
questo tipo di pezzo di carta abbia il potere di compiere i seguenti
tipi di atti (l’insieme delle cose che si possono fare con una
banconota da mille lire, in quanto banconota da mille lire)’.
Obiezioni. Secondo Searle:
1) l’intenzionalità collettiva costitutiva di fatti istituzionali
è «un dato biologicamente primitivo» (una «forma primitiva di vita
mentale»): non è riducibile all’intenzionalità individuale (non
è riducibile, cioè, a un complesso di credenze, desideri,
preferenze, intenzioni eccetera, individuali). Non è, dunque,
analizzabile in termini di intenzioni individuali e credenze
reciproche (conoscenza comune), come sarebbe invece richiesto da un’analisi
in chiave convenzionalistica.
2) l’autoreferenzialità delle nozioni istituzionali (sopra, 1.) non
comporta né circolarità viziosa, né regresso all’infinito,
perché è possibile spiegare il contenuto dei termini istituzionali
«ampliando il circolo»; facendo ricorso, cioè, a ulteriori termini
istituzionali
Si consideri, ad esempio, il concetto di denaro. Parte del contenuto
della nozione di denaro è la clausola: ‘ritenuto essere denaro’
(della definizione del concetto di denaro fa parte la clausola: ‘è
ritenuto essere denaro’: un certo tipo di cosa è denaro solo se è
ritenuto essere denaro). Ma, sostiene Searle, questa condizione non
comporta alcun circolo vizioso o regresso all’infinito, perché è
possibile spiegare il contenuto della credenza in oggetto (la credenza
che il tipo di cosa in questione sia denaro) facendo ricorso a
ulteriori termini istituzionali: un certo tipo di cosa è denaro solo
se è ritenuto essere un mezzo di scambio, un deposito di valore
eccetera (è possibile, cioè, sostituire il termine ‘denaro’,
nella clausola in oggetto, con le ulteriori locuzioni - anch’esse
istituzionali - ‘mezzo di scambio’, ‘deposito di valore’, ‘mezzo
di pagamento’ eccetera). In questo senso, dice Searle, «possiamo
incassare (cash out) la descrizione nei termini dell’insieme di
pratiche nel quale il fenomeno è inserito»; ampliando, cioè, il
circolo delle nozioni istituzionali coinvolte nell’analisi;
3) l’esistenza di fatti istituzionali dipende da regole (non
regolative, ma) costitutive.
Tuttavia, è possibile mostrare quanto segue:
1) Intenzionalità collettiva. La tesi della non riducibilità dell’intenzionalità
collettiva costitutiva di fatti istituzionali a un insieme di
intenzioni individuali e credenze reciproche (credenze individuali,
strutturate secondo la forma della conoscenza comune) non è
convincente, per due ragioni reciprocamente indipendenti.
In primo luogo, la nozione di intenzionalità collettiva adottata da
Searle (la capacità di condividere stati intenzionali della forma:
‘Noi collettivamente crediamo, desideriamo eccetera, che p’,
concepita come un «dato biologicamente primitivo») è fortemente
problematica: è difficile sottrarsi all’impressione che, pace
Searle, questa nozione di intenzionalità collettiva presupponga
necessariamente la nozione di un soggetto collettivo, del quale i
soggetti individuali sarebbero parti, o organi («una super-mente, che
per così dire fluttui al di sopra delle menti individuali»). È
assai più plausibile l’ipotesi che stati intenzionali della forma
‘Noi collettivamente crediamo, desideriamo eccetera, che p’ siano
da analizzare come la conclusione di un’inferenza (un ragionamento
pratico) le cui premesse sono preferenze, credenze, intenzioni,
individuali, e credenze reciproche (conoscenza comune).
In secondo luogo, ammesso che la nozione searliana di intenzionalità
collettiva possa essere accolta, la sua eventuale adozione non è
comunque incompatibile con la possibilità che, limitatamente a classi
particolari di fatti sociali, l’intenzionalità collettiva
costitutiva di tali fatti sia effettivamente analizzabile nei termini
di un insieme di intenzioni individuali e credenze reciproche
(conoscenza comune).
2) Autoreferenzialità delle nozioni istituzionali. Searle non riesce
a fornire un’interpretazione plausibile dell’autoreferenzialità
dei concetti istituzionali. La tesi che sia possibile sfuggire a
circolarità e regresso all’infinito «ampliando il circolo»,
infatti, non è convincente.
Perché? Per una ragione piuttosto semplice: il circolo, e con esso il
regresso all’infinito, si rigenerano a ogni passo dell’analisi.
Data una qualsiasi specificazione di che cosa sia per un certo tipo di
cosa essere x (dove x è una nozione istituzionale), a questa
specificazione si potrà e si dovrà comunque aggiungere, se x è una
nozione istituzionale, la clausola: ‘ed è ritenuto essere un tipo
di cosa che ha le proprietà appena menzionate’. Per ogni passo
ulteriore nella spiegazione dei termini (istituzionali) coinvolti
nella spiegazione di un termine istituzionale dato, cioè, si dovrà
comunque aggiungere, all’elenco delle condizioni necessarie
affinché le caratteristiche (istituzionali) C1...Cn si applichino a
un certo tipo di oggetto O, la clausola ‘e gli O sono ritenuti
essere C1...Cn’.
Si consideri, nuovamente, l’esempio del concetto di denaro. È vero:
è possibile spiegare il contenuto della credenza che un certo tipo di
cosa sia denaro facendo ricorso a ulteriori termini istituzionali: un
certo tipo di cosa è denaro solo se è ritenuto essere un mezzo di
scambio, un deposito di valore eccetera. Ma qual è il contenuto di
questa ulteriore credenza? Se, come postula Searle, il fatto che un
certo tipo di cosa sia un mezzo di scambio, un deposito di valore
eccetera, è anch’esso un fatto istituzionale, la risposta a questa
domanda sarà, in parte: ‘questo tipo di cosa è ritenuto essere un
mezzo di scambio, un deposito di valore eccetera’ (parte del
contenuto della credenza che questo tipo di cosa è un mezzo di
scambio sarà che esso è creduto essere un mezzo di scambio). La
possibilità di spiegare il contenuto della credenza in oggetto (la
credenza che il tipo di cosa in questione sia denaro) facendo ricorso
a ulteriori termini istituzionali, dunque, non preclude affatto la
caduta in un circolo vizioso, o un regresso all’infinito. Circolo
vizioso e regresso all’infinito non vengono evitati, ma solo
differiti e occultati.
3) Regole costitutive. Nella teoria di Searle, il vocabolario
istituzionale risulta riducibile al vocabolario normativo (il
vocabolario istituzionale è in linea di principio, eliminabile in
favore del vocabolario normativo). La teoria di Searle, cioè, presta
il fianco all’obiezione di ridondanza. Vediamo perché.
Secondo Searle, l’intenzionalità collettiva che è condizione
necessaria di esistenza di un fatto istituzionale ha, in ultima
istanza, la forma: ‘Noi collettivamente accettiamo (Tizio ha potere
(Tizio fa A))’. Le regole costitutive, dunque, scompaiono dall’analisi.
Al loro posto subentra l’accettazione collettiva di norme: norme che
conferiscono poteri.
In altri termini: il passo cruciale dell’analisi di Searle consiste
nel portare alla luce l’aspetto deontico dei fatti istituzionali. Le
funzioni di status sono, in ultima istanza, poteri; se (come sembra
implicare l’analisi searliana dei poteri istituzionali) le norme che
conferiscono poteri sono riducibili a norme condizionali di obbligo
(divieto, permesso), lo saranno anche le asserzioni su fatti
istituzionali. Le regole costitutive, dunque, non sono nulla di più
che definizioni, ovvero frammenti di norme condizionali di condotta:
la loro funzione è meramente notazionale (semplificazione e
sistematizzazione di insiemi di prescrizioni). Lo stesso Searle
conclude esplicitamente che il risultato della propria analisi della
struttura intenzionale dei fatti istituzionali è che «in linea di
massima, tutto quanto finisce per rivelarsi di carattere deontico».
Dunque: il risultato dell’analisi della realtà istituzionale
proposta da Searle è che affermare l’esistenza di un fatto
istituzionale equivale o ad accettare (collettivamente) una
prescrizione (un insieme di prescrizioni), o, in subordine, ad
asserire che una certa prescrizione (un certo insieme di prescrizioni)
è collettivamente accettata. Si tratta, banalmente, del fenomeno
denominato da H.L.A. Hart «esistenza di una regola sociale».
Due precisazioni:
1) La contrapposizione fra fatti «bruti» e fatti istituzionali è un’interpretazione
dell’antica dicotomia physis/nomos. L’eventuale riduzione delle
regole costitutive a norme condizionali equivarrebbe non all’eliminazione,
ma ad una diversa interpretazione di questa dicotomia: la sua
articolazione nella forma della contrapposizione fra causalità e
imputazione. Si tratta, precisamente, della versione kelseniana dell’opposizione
physis/nomos.
2) L’analisi searliana dei fatti istituzionali implica che il
vocabolario istituzionale risulti eliminabile in favore del
vocabolario normativo; le regole costitutive sono, banalmente,
definizioni. Ciò non significa, però, né, in primo luogo, che il
vocabolario istituzionale sia inutile, né, soprattutto, che il
ricorso al vocabolario istituzionale non possa avere un profondo
valore espressivo; non significa, cioè, che l’uso di termini
istituzionali, l’interpretazione di fatti, atti, forme di attività
alla luce di relazioni istituzionali non possa costituire espressione
di atteggiamenti di partecipazione, condivisione, apprezzamento,
entusiasmo, appartenenza eccetera (e i loro contrari). Non v’è
dubbio che gli esseri umani siano inclini alla produzione di simboli;
e che la produzione di simboli, e di sistemi di simboli, possa
costituire un’attività apprezzata e praticata come un fine in sé,
al limite, come un gioco in se stesso degno di essere giocato. Tutto
ciò può benissimo essere concesso anche da chi faccia propria l’obiezione
di ridondanza: che il vocabolario istituzionale possa essere ridotto
al vocabolario normativo non implica che sia un bene farlo, tanto meno
che si debba, sempre e comunque, farlo. Avvalersi delle possibilità
offerte da un sistema simbolico può essere estremamente piacevole, e
può avere un profondo valore comunicativo (ad esempio, l’affermazione
della propria appartenenza a una comunità). Tuttavia, la tesi che sia
questo, in ultima istanza, ciò che è in gioco nell’affermazione
dell’esistenza di fatti istituzionali non è affatto consonante né
con la lettera né con lo spirito dell’analisi di Searle.
La teoria di Lagerspetz
L’analisi dei fatti istituzionali proposta da Searle, dunque, presta
il fianco all’obiezione di ridondanza. Per di più, sotto tutti e
tre gli aspetti presi in esame (intenzionalità collettiva;
autoreferenzialità dei concetti istituzionali; riducibilità del
vocabolario istituzionale al vocabolario deontico) la nozione
searliana di fatto istituzionale sembra per così dire perseguitata
dalla nozione di fatto convenzionale. Sotto tutti e tre gli aspetti
indicati, cioè, la nozione searliana di fatto istituzionale sembra
essere una confusa approssimazione della nozione di fatto
convenzionale. Vediamo perché, esaminando brevemente la teoria di
Lagerspetz.
La differenza di fondo fra la teoria di Lagerspetz e quella di Searle
consiste, come si è accennato, nel ricorso alla nozione di
convenzione, e alla nozione, ad essa connessa, di conoscenza comune: i
fatti (sociali) dipendenti dalla credenza sui quali verte l’analisi
di Lagerspetz sono fatti convenzionali (nel senso sopra definito).
Nella teoria di Lagerspetz, dunque, la sussistenza di fatti dipendenti
dalla credenza è soggetta a due ovvie condizioni: 1) che si dia un
problema di interazione strategica; 2) che la sussistenza del fatto in
questione sia conoscenza comune fra gli agenti coinvolti.
Questa duplice condizione - sussistenza di un problema di decisioni
interdipendenti e conoscenza comune - consente di sfuggire alle
difficoltà che rendono insoddisfacente l’analisi di Searle.
1) Intenzionalità collettiva. Le due condizioni conferiscono un
contenuto e una struttura ben determinati all’intenzionalità
collettiva costitutiva dei fatti dipendenti dalla credenza
(intenzionalità collettiva che, come si è detto, è invece per
Searle un dato «primitivo» non analizzabile. Se p è un fatto
convenzionale, si dà il caso che p perché:
a) ciascuno dei membri di G crede che si dia il caso che p, perché
crede che ciascuno dei membri di G crede che si dia il caso che p
(crede che ciascuno dei membri di G crede che ciascuno dei membri di G
crede che si dia il caso che p, e così via);
b) ciascuno dei membri di G preferisce che, se gli altri membri di G
preferiscono che si dia il caso che p, si dia il caso che p.
L’intenzionalità (collettiva) costitutiva di fatti convenzionali,
dunque, non è un dato primitivo: non si identifica (come invece
accade nella teoria di Searle) con il fenomeno, generico e indefinito,
dell’accettazione collettiva di un contenuto intenzionale (nella
fattispecie, una prescrizione). È invece (la conclusione di) un
ragionamento pratico.
2) Autoreferenzialità delle nozioni istituzionali. Searle, come
abbiamo visto, non riesce a dare un’interpretazione soddisfacente
dell’autoreferenzialità dei concetti istituzionali. Al contrario,
il ricorso alla nozione di conoscenza comune consente di fornire un’analisi
particolarmente plausibile dell’autoreferenzialità delle nozioni
istituzionali. Infatti:
a) se il fatto che p è conoscenza comune presso i membri di un gruppo
G, ciascuno dei membri di G crede che ciascuno creda (e così via) che
si dà il caso che p;
b) se (come accade nel caso dei fatti convenzionali) si dà il caso
che p solo se è conoscenza comune che p, la credenza, da parte di
ciascuno dei membri di G, che si dia il caso che p comprenderà, come
sua parte non eliminabile, la credenza che sia conoscenza comune che p
(che ciascuno creda che ciascuno creda - e così via - che si dà il
caso che p).
Dunque: se p è un fatto convenzionale, la credenza che si dà il caso
che p contiene, come sua parte non eliminabile, la credenza che
ciascuno dei membri del gruppo creda che ciascuno dei membri del
gruppo creda (e così via) che si dà il caso che p. Si tratta
precisamente della forma di autoreferenzialità rilevata (ma non
adeguatamente spiegata) da Searle.
In breve: l’autoreferenzialità dei termini che designano fatti
istituzionali può plausibilmente essere interpretata come una spia,
un indizio, della loro natura di fatti convenzionali. Le credenze da
cui dipende la sussistenza di fatti istituzionali sono caratterizzate
da circolarità e regresso all’infinito perché la conoscenza comune
che simili fatti sussistano è condizione necessaria della loro
sussistenza.
3) Riducibilità del vocabolario istituzionale al vocabolario deontico.
L’analisi fornita da Lagerspetz dei fatti convenzionali non presta
il fianco all’obiezione di ridondanza: i fatti convenzionali (à la
Lagerspetz) non sono riducibili all’accettazione di (insiemi di)
prescrizioni; il vocabolario convenzionale (à la Lagerspetz) non
risulta riducibile al vocabolario normativo (né al vocabolario dei
diritti lato sensu, né al vocabolario deontico elementare).
Infatti: la sussistenza di un fatto convenzionale è spiegata in
termini di preferenze condizionali e insiemi di aspettative reciproche
di condotta di più livelli (virtualmente infiniti): ciascuno dei
membri di G fa A in S (compie un certo tipo di azione in un certo tipo
di situazione), perché si aspetta che ciascuno dei membri di G si
aspetti che ciascuno dei membri di G si aspetti (e così via) che
ciascuno dei membri di G faccia A in S, e preferisce, a condizione che
ciascuno dei membri di G faccia A in S, fare A in S. Gli atteggiamenti
e le credenze rilevanti ai fini dell’esistenza di un fatto
convenzionale, dunque, non comprendono né atteggiamenti deontici
(accettazione di norme), né credenze vertenti su atteggiamenti
deontici.
Nei fatti convenzionali, in breve, non è presente, alcuna componente
deontica; non siamo in presenza di un travestimento del vocabolario
normativo.
Riassumendo. I fatti convenzionali soddisfano le condizioni necessarie
affinché si possa parlare, per usare un’espressione di Searle, di
una realtà «dipendente dall’accordo umano»; ma non sono affetti
dalle difficoltà dalle quali sono affetti i fatti istituzionali à la
Searle (il che, ovviamente, non esclude la possibilità che la nozione
di fatto convenzionale sia affetta da altre difficoltà).
Conclusione
La teoria dei fatti istituzionali sfugge all’obiezione di ridondanza
(riesce, cioè, a evitare la conclusione che il vocabolario
istituzionale sia riducibile al vocabolario normativo) solo a
condizione di accogliere, di fare proprio, il paradigma
convenzionalistico. Affinché l’esistenza di fatti istituzionali
(fatti sociali dipendenti dalla credenza) non risulti riducibile al
fenomeno dell’accettazione collettiva di prescrizioni, affinché l’uso
di termini istituzionali non risulti riducibile a un espediente
notazionale (e, dunque, l’affermazione dell’esistenza di un fatto
istituzionale non risulti riducibile a un modo di fare riferimento all’insieme
delle condizioni di applicazione di insiemi di norme condizionali), è
necessario fornire, della nozione di fatto istituzionale, un’analisi
in chiave convenzionalistica. Insomma: dire che p è un fatto
istituzionale è dire qualcosa di non esprimibile mediante l’uso, o
la menzione, del vocabolario deontico, se, e solo se, p è un fatto
convenzionale. (Questa conclusione, beninteso, vale solo limitatamente
alla teoria di Searle; nulla di quanto è stato detto finora esclude
la possibilità di analisi non convenzionalistiche della nozione di
fatto istituzionale diverse da quella fornita da Searle.)
Come rispondere, infine, all’obiezione scettica? ‘Esistono’ i
fatti istituzionali, o non ha alcun senso affermarne l’esistenza o
la non esistenza?
I fatti istituzionali esistono, ma per convenzione: gli asserti
relativi a entità, proprietà e atti istituzionali possono essere
veri o falsi, ma lo sono in dipendenza dal loro essere
(collettivamente) ritenuti veri o falsi. Ciò non vuol dire né che i
fatti istituzionali esistano allo stesso modo di fatti bruti, né che
essi, in fondo, non esistano. In ciò risiede la loro natura
peculiare.
Vi e' piaciuto questo articolo? Avete dei commenti
da fare? Scriveteci il vostro punto di vista cliccando qui
Archivio
Attualita' |
|
  
|