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Le contraddizioni della democrazia e la società civile



Salvador Giner con Giorgio de Finiis



Questa intervista fa parte dell’Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche, un’opera realizzata da Rai-educational in collaborazione con l’Istituto italiano per gli studi filosofici e con il patrocinio dell’Unesco, del Presidente della Repubblica Italiana, del Segretario Generale del Consiglio d’Europa.

L'obbiettivo è quello di diffondere nel mondo, tramite le nuove forme d’espressione e comunicazione sociale consentite oggi dalla tecnica, la conoscenza della filosofia nel suo svolgimento storico e nei termini vivi della cultura contemporanea.

Per ulteriori informazioni potete visitare il sito Internet: www.emsf.rai.it 


Professor Giner, benché sia stata creata per l'universale la democrazia fomenta la passione, l'egoismo, l'interesse comune. Molti autori hanno messo in evidenza le contraddizioni del sistema democratico, ma hanno anche affermato che è il migliore dei mondi possibili. Cosa pensa al riguardo?

Il punto essenziale è che la democrazia è stata teorizzata e compresa in termini di critica alla democrazia. Non c'è alcuna reale teoria della democrazia che sia stata creata e sviluppata nella storia delle idee. Oppure si tratta di una teoria prescrittiva e molto elementare, per cui la democrazia è un governo del popolo da parte del popolo, ma c'è molto poco da aggiungere a questo. Guardando alla storia delle idee intorno al concetto di democrazia, si trova una serie di critiche o di critiche della costruzione democratica, ma è una teoria che è solo una critica di se stessa e non costruisce una visione più completa. Esiste una contraddizione endemica fra l'uno e i molti, fra il governo di una persona e un popolo che elegge la persona e delega il potere, in modo tale che il potere sia inevitabilmente concentrato in questa persona: ciò che è delegato a questa persona è un potere arbitrario, un potere di decisione sul destino collettivo. In che modo si può controllare questo destino con le assemblee? Quando si riuniscono le assemblee? Non lo sappiamo esattamente.

Certamente con le costituzioni noi possiamo decidere quando riunirci per effettuare un controllo, ma questo “noi” è diluito attraverso la rappresentazione. Noi deleghiamo il potere a un corpo di rappresentanti che a turno si distaccano dal popolo o, secondo alcune teorie, “dalla massa del popolo”, ma questa è una espressione con la quale io sono profondamente in disaccordo in quanto tradisce una sorta di disincanto di fronte al fatto che la democrazia separa i principi eletti e i rappresentanti eletti dal popolo, dai cittadini. È questo uno dei punti che, sia i nemici della democrazia, sia i sostenitori hanno continuamente sottolineato. Attraverso i secoli questo si è sviluppato in una teoria molto sofisticata degli effetti e dei fallimenti della democrazia. Abbiamo, dunque, una teoria definibile “delle imperfezioni della democrazia”. I nemici della democrazia l'hanno considerata pericolosa, mostrandone i difetti e i limiti, per dire che la democrazia non è cosa buona. Fondamentalmente queste teorie sono in declino, sono state discreditate essenzialmente dal fascismo e da certe forme di teorie dittatoriali del potere.

Mentre i fascisti erano antidemocratici e lo dicevano, le altre tendenze, come quelle rappresentate dallo stalinismo, asserivano di essere democratiche. Nonostante tutte le critiche avanzate nei riguardi della democrazia, il fascino che la democrazia ha esercitato nel '900 è stato molto grande e, credo, continuerà a essere enorme nel XXI secolo. Esso è tale da far ignorare le critiche rivolte alla democrazia prodotte dalle teoria: tutti vogliono essere democratici. “Democrazie del popolo” è un'espressione totalmente priva di senso, in quanto le democrazie sono tutte forme di governo del popolo ed è, dunque, ridondante dire che la democrazia è democrazia del popolo. Ad esempio, nel mio Paese, sotto Franco, il regime definiva se stesso, durante gli ultimi dieci o quindici anni, come una democrazia organica; penso che ben pochi dittatori latino-americani non abbiano governato nel nome del popolo. Tuttora la Cina è una “democrazia del popolo” e Fidel Castro reclama di essere un democratico. È una grande confusione, dovuta a chi pretende di affermare che il dittatore locale governi secondo la volontà del popolo.

Che valore assume l'espressione “volontà del popolo”?

Il popolo è stato ipostatizzato, ovvero ad esso è stata attribuita dagli ideologi una sostanza che probabilmente non possiede. In questo senso ritengo che, nel significato stretto del termine, non disponiamo di una teoria della democrazia compiutamente sviluppata. Paradossalmente, ciò che abbiamo è una serie di teorie sui difetti della democrazia. Non credo che si possa affermare logicamente che questo equivalga a una teoria della democrazia, ma equivale al contrario di essa. Ciò non significa che non abbiamo idee democratiche: noi aneliamo alla democrazia; la democrazia è l'ultima spiaggia per ogni regime possibile. È l'ultima spiaggia e, in alcuni casi, abbastanza buona, se si considerano quali siano, al presente, le condizioni della società umana, con i pericoli di caos, espansione demografica e disastri ecologici. Nella penetrazione della democrazia ci sono nuovi pericoli quali i nuovi media che non sono totalmente garantiti dalle regole democratiche. Non credo che dovessimo attendere la metà degli anni '90, con l'arrivo di Berlusconi, per renderci conto che esistessero i segnali della possibilità di usare la propaganda politica per minare la democrazia attraverso i media. Questo è diventato un problema che non è stato “digerito” dalle nostre istituzioni democratiche.

I media sono ancora un pericolo, anche se, in alcuni casi, i media possono essere amici della democrazia. C'è stato un caso, nel 1981, in Spagna, in cui un tentativo di colpo di Stato fu filmato dalle telecamere e trasmesso in televisione, con il risultato fondamentale che questo golpe fu troncato sul nascere perché l'intera situazione era totalmente grottesca: vedere questo poliziotto, con pochi altri, entrare nel Parlamento e minacciare con una pistola in mano, dicendo al governo che era stato rovesciato, quando ovviamente non era vero. Ma tutto questo fu visto, le notizie furono diffuse immediatamente, l'intero mondo poté vedere quanto fosse ridicola la situazione. I deputati non persero il sangue freddo e intervennero in favore della Costituzione, anche questo in televisione. Questo è un caso in cui i media possono effettivamente difendere la democrazia ma, nel complesso, rappresentano un pericolo perché minano il dovuto processo di rappresentazione e il processo della legge, mentre aiutano a manipolare la gente attraverso il controllo dell'opinione pubblica.

Questo è un cliché, ma è vero. Tale problema non è stato teorizzato. Uno dei punti su cui vorrei soffermare l'attenzione è il fatto che, non avendo una vera e propria teoria prescrittiva della democrazia, ma disponendo di troppe teorie descrittive, non possiamo incorporare una teoria dei media nel discorso democratico. Non sono mai abbastanza i dati di cui occorre tener conto, o sufficienti le informazioni da dominare o disporre per una teoria della democrazia. Non sono affatto contrario a questa raccolta di dati o alla scienza politica nel senso tradizionale del termine, ma ritengo che una vera e propria teoria della democrazia debba ancora essere sviluppata da parte dei teorici della morale o dei pensatori della politica, i quali non fanno altro, con pochissime eccezioni, che scoprire contraddizioni e debolezze nell'intera costruzione teoretica.

Assistiamo a un processo di mondializzazione, di globalizzazione. È possibile secondo lei esportare la democrazia?

Sì, la mia risposta è categorica. Penso che la democrazia si possa e si debba esportare. Ma so che c'è una visione della democrazia secondo la quale essa è un prodotto europeo che non può essere esportato. Ciò pone molti problemi, visto che abbiamo esportato molte cose direttamente dall'Europa o, attraverso gli Stati Uniti, da prolungamenti della civiltà europea. Questi prodotti sono stati esportati molto bene, hanno viaggiato molto bene: così è accaduto per la democrazia. Se si parla di esportare qualcosa come la tecnologia, le invenzioni, la scienza, questo solleva ben poche opposizioni. Non appena si tratta di esportare altro, come la religione, le idee politiche, la filosofia, c'è un'opposizione. Nel caso della democrazia c'è stata una particolare resistenza, ritenendola un'idea strettamente europea. La democrazia fu inventata dai Greci; poi morì e come morta rimase per tutto il Medioevo, per venir poi fuori da certe istituzioni: l'idea della libertà dell'uomo e del cittadino ha le sue origini storiche nell'evoluzione del Medioevo.

È un paradosso, ma è stato il feudalesimo a dare origine al mondo moderno: un concetto che emerse e si sviluppò in modo considerevole molto più tardi, fu l'idea della rappresentazione, della cittadinanza: il crollo del feudalesimo significò il sorgere di un corpo di cittadini che fossero uguali di fronte alla legge e che controllassero lo Stato. Questa idea crebbe lentamente: innanzitutto furono considerati solo gli uomini, le donne erano escluse e, naturalmente, lo erano anche i popoli coloniali, ma l'espansione continuava fino a tutto il '900 con l'inserimento delle donne nel sistema di voto; l'elettorato ora include tutti, eccetto i bambini e le persone molto giovani. Dunque questo è un contributo europeo. Qualcuno potrebbe definire questa una visione eurocentrica del mondo e affermare che ci sono altri sistemi di valori in popoli come gli Indiani, i Pakistani, o i Cubani, sistemi diversi dai nostri: non dovremmo tentare di applicare i nostri concetti a questi popoli. Si può affermare, ad esempio, che l'Arabia Saudita, legato all'Occidente per gli interessi petroliferi, ha un sistema di rappresentanza molto diverso che non necessita della democrazia avendo una forma di governo islamica: tuttavia in questo ragionamento c'è un errore, ossia immaginare che i diritti umani e la dignità dell'uomo, principi universali di rispetto e di tolleranza, siano confinati unicamente in una cultura, siano diversi in altre culture o non esistano in altri Paesi.

Uno dei nostri compiti è affermare l'universalità di principi che, pur scoperti da altre civiltà, si sono concentrati nella cultura politica occidentale. Posso fare un esempio molto semplice: uno dei grandi contributi resi alla nostra civiltà politica, al civismo del '900 fu quello del Mahatma Gandhi, un Indiano che fu prima in Sudafrica, dove diede avvio all'idea della resistenza non-violenta. Alcuni possono vedere una relazione fra le idee del Mahatma Gandhi e certe dottrine occidentali, ma si tratta di un contributo enorme al bene comune, al patrimonio comune di principi basilari dato da una persona non un occidentale, di un'altra civiltà. Il relativismo è pernicioso, poiché abbracciarlo implica che la vita umana varrà meno. Voglio citare l'esempio di Amnesty International: se le sue dottrine non possono essere esportate in Paesi o presso governo con diverse visioni, allora l'ordine morale dell'umanità crolla.

Come giudica l'espressione, molto di moda negli ultimi anni, “politicamente corretto”?

Non sono in favore del pensiero “politicamente corretto”; anzi, ritengo che sia pernicioso. “Politicamente corretto”, nell'insieme, è un modo piuttosto pericoloso di considerare il linguaggio, sebbene ci sia qualcosa da dire in suo favore. Alla base di tale nozione ci sono ottime intenzioni. Il fatto che qualcuno pensi che si debba avere un linguaggio politicamente corretto inizialmente è positivo, poiché significa avere rispetto per le minoranze, per le differenze, per chi la pensa in maniera diversa. Ma l'idea è stata poi corrotta dai fanatici, dai puritani, da gente che è “più santa di te”: questo è pericoloso e, nell'insieme, bisogna rifiutare la nozione volgare di “correttezza politica” perché la sua interpretazione più sofisticata non è molto comune e si deve fare uno sforzo per coglierla. Nel complesso, penso che sia un compito urgente nei confronti dei relativisti e dei neo-moderni o dei post-moderni, o di ogni altra forma di relativismo, difendere la nozione di “universalismo” in politica e renderci conto che esistono alcuni principi fondamentali sulla dignità umana, come il fatto che la tortura è sempre qualcosa di cattivo: dobbiamo cercare un bene comune con mezzi civili.

All'interno di questa cornice, ogni Paese può darsi la costituzione che crede: c'è così tanto spazio che possiamo benissimo avere tipi molto diversi di costituzione. L'India, per esempio, ha una costituzione molto ampia e complicata che non riconosce le caste e altre forme di sfruttamento, sebbene l'India sia piena di forme di sfruttamento, di violenza, ma rimane che essa sia la più grande democrazia del mondo perché la costituzione riconosce quei diritti ed è rispettata, sebbene ci sia stato un periodo in cui la signora Gandhi impose una forma di dittatura durata pochi anni. Ma, fondamentalmente, l'India è un Paese democratico. In altri Paesi ci sono molte variazioni: l'Inghilterra ha una costituzione non scritta diversa da quella di altri Paesi; la Francia ne ha un'altra, la Svezia un'altra, la Spagna un'altra ancora: sono tutte democrazie civili.

Quali sono le cause della crisi della democrazia e della politica e quali sono i rimedi?

Sono molto scettico sulla nozione di “crisi della rappresentanza democratica”, in quanto è sempre stata in crisi o difettosa. Le democrazie in Europa, tra l' '800 e il '900, erano piuttosto cattive: c'era una rappresentanza molto ristretta. Facendo uno sforzo, si può vedere che ciò che vogliamo è un tipo di rappresentanza molto più perfetta di quella che abbiamo; ma se confrontiamo le nostre democrazie, con la democrazia inglese di oggi come le sezioni elettorali del '700, la democrazia italiana degli anni 1948-1988 con la democrazia prima di Mussolini, la democrazia monarchica spagnola attuale con quella degli anni '30, che portò alla Guerra Civile, allora risulta evidente che la situazione odierna è migliore. Non per questo, ovviamente, dobbiamo esserne soddisfatti. Dobbiamo essere scontenti, insoddisfatti, stimando che la rappresentanza non è perfetta. Abbiamo nuovi problemi di rappresentanza: movimenti e partiti di massa sono scomparsi o sono in declino; ma sono forme di rappresentanza non esattamente democratiche perché rappresentano delle lobbies consolidate, sono quindi “rappresentanze corporative”.

La gente si organizza in corporazioni e importanti gruppi finanziari, industriali o di altro genere, trovano il loro accesso in Parlamento o nei corridoi del potere e fanno pressioni su di esso. La rappresentanza è divenuta difficile: si creano nuovi corpi come Bruxelles senza smantellare gli Stati: dobbiamo stare in guardia in questa fase in cui la sovranità dei nostri rispettivi Stati europei viene erosa perdono, forse non per sempre: se raggiungeremo una completa Unione Europea, avremo un sistema federale di Stati. Una volta stabilito il fatto che non c'è crisi della rappresentanza, va notato che c'era molta più corruzione politica nella classi dirigenti cento anni fa: leggendo Gaetano Mosca ci si accorge che parla di classi dirigenti che controllavano la democrazia in un modo che non è quello attuale, poiché oggi ci sono più gruppi rappresentati a molti livelli e, inoltre, le elezioni sono più pulite: questo è un fatto che va difeso. Certo, è più facile criticare tutto e non dire mai che le cose vanno bene, ma non funziona: talvolta dobbiamo porci dalla parte dello spettatore ingenuo e riconoscere che le nostre democrazie occidentali non sono in uno stato miserabile. Una volta che i problemi seri sono identificati, va ammesso che la situazione lascia molto a desiderare.

Come si inseriscono, nel sistema politico attuale, le cosiddette “organizzazioni apolitiche”, il cui operato riguarda, in varie forme, l'aspetto della solidarietà e della tutela di beni comuni come, ad esempio, l'ambiente?

Questa domanda riguarda altre forme di partecipazione: si tratta di qualcosa che è stato trascurato dalla teoria politica. Sociologi, pensatori politici, buoni giornalisti, hanno riconosciuto che c'è una tendenza, da parte di gruppi della società civile, ad autoorganizzarsi, ad aiutare gli altri, non per far soldi o per acquistare potere al livello dello Stato o all'interno dell'apparato statale. Questi gruppi non sono stati analizzati e teorizzati dal pensiero politico: una delle ragioni è il fatto che questi gruppi si definiscono “apolitici”, “non politici”. Non vogliono essere confusi o identificati con partiti politici, perché pensano che i partiti politici siano esauriti, non rappresentino veramente la gente o siano soltanto piattaforme per politici alla ricerca di potere, di notorietà. Ci sono molti di questi gruppi, ma si può non essere schierati politicamente? Prendiamo delle organizzazioni internazionali come Greenpeace che, anche se non appartengono ad un partito, inevitabilmente contribuiscono all'arricchimento della sfera politica.

Quando i poteri politici, non possono controllare la situazione, come ad esempio l'inquinamento nel Mare del Nord, arriva Greenpeace e li costringe a trainare via una piattaforma, la cui attività avrebbe inquinato il mare: se aspettassimo un intervento governativo, la soluzione sarebbe l'inazione, la soluzione l'inquinamento. Non credo che queste organizzazioni siano immuni da critiche: sono sicuro che queste multinazionali della carità sono, in alcuni casi, così potenti e complicate che si prestano a un esame critico, ne sono certo; ovviamente sono politiche anche quando dicono di non esserlo. Non solo noi siamo animali politici, come diceva Aristotele, ma anche le organizzazioni sono politiche ed è molto difficile evitarlo. Ciò di cui occorre rendersi conto è che le organizzazioni solidaristiche civili sono parte della sfera del pubblico nel mondo moderno. La sfera pubblica ha almeno tre dimensioni nel mondo moderno: una struttura democratica composta dai cittadini e dal governo con tutte le sue imperfezioni; una struttura di imprese, grandi e piccole, di tipo economico, in cui la gente cerca di far soldi e di arricchirsi; infine la terza dimensione, delle organizzazioni civiche che tentano di intervenire nella sfera pubblica. Questo è il gruppo più debole dei tre, ma esiste e ha modificato completamente la prospettiva.

Bisogna comprendere che questa visione tridimensionale della politica dovrebbe tener presente la correlazione tra i tre elementi: l'economia influenza l'intera struttura della democrazia; la democrazia influenza la nuova società civile che include le organizzazioni civiche. Sarebbe sbagliato avere una visione idealista di una delle tre. In tal senso non credo che le organizzazioni civiche siano al di là del bene e del male, ma ovviamente sono qualcosa di buono. Il loro arrivo, nell'ultima parte del '900, è uno sviluppo positivo. Ma dureranno? Si accresceranno? Saranno una caratteristica importante dei prossimi quaranta anni: non possiamo guardare più in là, perché la storia ha subito un'enorme accelerazione. È molto difficile e delicato parlare del futuro, ma mi sembrano far parte delle nuove forme politiche in via di sviluppo.

L'appartenenza a un'associazione volontaristica è un modo di superare le carenze e le contraddizioni della democrazia?

Lo sviluppo di queste organizzazioni è positivo nella direzione della scoperta di un interesse comune. Ma si concentrano su qualcosa di specifico e uno dei grandi compiti del futuro, o del presente, è la scoperta di un interesse comune definibile “bene comune”. È un'idea che ha radici cattoliche, ma vanno riconsiderate, rinnovate perché è arrivato un momento, nella storia dell'umanità, in cui abbiamo problemi comuni a tutti di cui vanno esaminate le soluzioni. Questa è la “scoperta dell'interesse comune”. L'interesse comune non è qualcosa di sostanziale, non sappiamo cosa sia e non c'è modo di identificarlo nei termini di un codice di principi, perché è una complessa visione del mondo che dobbiamo man mano costruire. Abbiamo scoperto alcuni suoi aspetti, identificati molto tempo fa, come la dignità umana che porta alla nozione che l'integrità di ognuno va rispettata. “Ognuno” non significa un individuo di ogni nazionalità, in quanto bisogna includere la nozione di “cittadino del mondo” per scoprire che l'umanità ha l'interesse comune di avere rispetto per ognuno in ogni Paese, di vedere questo diritto migliorato, protetto e realizzato con tutte le implicazioni che esso ha. Dobbiamo rispettare gli altri Paesi quando si verificano in essi violazioni dei diritti umani, ma non i governi.

Tutti i fenomeni, come il benessere prodotto dalla globalizzazione, implicano che stiamo scoprendo problemi comuni a tutti: per esempio, l'ecologia è un esempio perfetto di interesse comune. La scoperta dell'interesse comune è importante in senso politico, non solo morale. In questo senso vorrei vederci più chiaro sulle maniere di superare i localismi tribali, allo scopo di arrivare a un'idea di interesse comune e di mondo comune. Sto scoprendo qualcosa di elementare, ma bisogna fronteggiare un problema di localismo, di eccessivo rispetto per le differenze che non sono sempre così rispettose. Dovremmo avere rispetto in nome della tolleranza, che è un'idea generale fondamentale: dobbiamo rispettare le differenze, ma non quando violano gli interessi fondamentali che sono di tutti, specifici, indifendibili. Non dovremmo includere nel nostro catalogo delle differenze da rispettare, il fatto che in alcuni Paesi le donne subiscano una mutilazione chiamata “clitorectomia”. Certo non bisogna ricorrere alla forza, ma lo sforzo attraverso i media e le sanzioni può essere utile, come è accaduto in Sudafrica, dove si è favorito lo sviluppo della democrazia. Lo sviluppo dell'interesse comune non è un processo chiuso, ma aperto, un continuo processo di discussione fra i governi e i popoli, fra i pensatori e gli analisti che sottoporranno alla gente nuove idee che costituiscono gli interessi dell'intera umanità. L'interesse comune è sempre a lungo termine, mentre i politici, nelle democrazie contemporanee, lavorano per il breve e il medio termine.

La crisi ecologica va pensata su una scala temporale inusuale per i politici, ma bisogna fare pressione su di loro, in modo da indurli a pensare alle generazioni future. Dobbiamo introdurre, nella nostra prospettiva morale, le conseguenze future delle nostre azioni. È una componente cruciale, nuova nella filosofia morale e nel linguaggio morale della modernità. Dovremmo vivere in modo più austero e pensare in termini di futuro. Ovviamente non conosciamo il futuro, ma la nostra generazione ha un dovere, pensare al futuro e fare qualcosa per esso, altrimenti ne saremo ritenuti responsabili dalla gente. Sappiamo molto del futuro, molto meglio delle generazioni passate; sappiamo che non possiamo andare avanti così. La scoperta dell'interesse comune per l'umanità è stata, quindi, un risultato positivo.

Nel trittico rivoluzionario “Libertà, Uguaglianza e Fratellanza”, ci si è dimenticati della “Fraternité”. Molti reclamano un nuovo legame sociale, un nuovo patto sociale: come rispondere alle critiche dei neo-comunitari? La democrazia deve fare i conti con l'identità?

Penso che i comunitari siano essenzialmente dei neo-tribalisti. Hanno mancato il punto fondamentale, l'universalismo. È gente che ha perso una battaglia e, per questo, pensano che la democrazia possa verificarsi solo all'interno di un sistema, di un mondo, di un ambito, di una sfera: la loro. Hanno rinunciato e, per questa ragione, ho i miei dubbi sulla possibilità di risolvere alcuno dei seri problemi dell'umanità all'interno del comunitarismo. È una forma nuova, sofisticata, di isolazionismo. Vedo negli sforzi l'idea che certe cose non possano essere esportate e, in tal senso, non possono rispondere al problema della fratellanza. Si può essere fraterni: questa è solidarietà. Come possiamo essere fraterni all'interno della nostra comunità? Non saremo mai fraterni con altri popoli: suppongo che il nero americano va incluso nel fraternalismo americano, perché i neri sono cittadini americani, ma prima non lo erano. Questo è assurdo: bisogna americanizzare i Messicani, i Portoricani, prima che essi possano divenire fraterni. Sono realmente stordito o perplesso di fronte al comunitarismo, è una sconfitta della ragione. Si può essere comunitari solo all'interno dei limiti dell'universalismo.

(traduzione: Fiorinda Li Vigni)

Chi è Salvador Giner

Salvador Giner è nato a Barcellona nel 1934. Ha studiato diritto all'Università di Barcellona e sociologia nelle Università di Colonia e di Chicago, dove ha conseguito il Master of Arts e il PhD. È stato Visiting Professor all'University of Puerto Rico (1962-63), Lecturer all'University of Reading (1965-70), Senior Lecturer all'University of Lancaster (1970-76) e, quindi, Reader e poi professore e direttore del Department of Social Anthropology della Brunel University di West London (1976-87). Dal 1987 è professore presso il Dipartimento di Sociologia all'Università di Barcellona, che ha anche diretto dal 1987 al 1990. È stato fra i fondatori della Federación Española de Sociología, che ha presieduto dal 1987 al 1991. È membro del consiglio di redazione della rivista “Sociology. Revista Española de Investigaciones Sóciologicas”, Editor della “Revista Internacional de Sociología” e Associated Editor dell'“European Journal of Social Theory”.

I principali interessi scientifici di Salvador Giner vertono sulla teoria e filosofia sociale e sulla storia della teoria sociale. Conduce studi di macrosociologia sulle società contemporanee progredite, con una particolare attenzione per quelle dell'Europa meridionale. Si occupa, inoltre, di specifiche questioni, quali: il corporativismo, la cittadinanza, la democrazia, la governabilità e la sociologia delle credenze.

Qui ricordiamo di Giner: Historia del Pensamiento Social, Ariel, Barcelona, 1967; Sociología, Edicions 62, Barcelona, 1968 (trad. it.: Sociologia, Sansoni, Firenze, 1973); El Progreso de la Conciencia Sociológica, Ediciones Península, Barcelona, 1974; Mass Society, Martin Robertson, London, 1976; (con m. p. yruela) La Sociedad Corporativa, Centro de Investigaciones Sociológicas, Madrid, 1979; Ensayos Civiles, Ediciones Península, Barcelona, 1984; El Destino de la Libertad, Espasa Calpe, Madrid, 1987; (con x. arbós) La Gobernabilidad, Siglo Veintiuno, Madrid, 1993; Carta sobre la Democracia, Ariel, Barcelona, 1996 (trad. it.: Le ragioni della democrazia, Laterza, Roma-Bari, 1998); (con v. camps) Manual de Civismo, Ariel, Barcelona, 1998. Ha curato: (con m. scotford archer) Contemporary Europe. Vol. I, St. Martin's Press, New York, 1971; (con m. p. yruela) El Corporatismo en España, Ariel, Barcelona, 1988; (con m. scotford archer) Contemporary Europe. Vol. II, Routledge & Kegan Paul, London, 1971; La Societat Catalana, Generalitat de Catalunya-Institut d'Estadística de Catalunya, Barcelona, 1998.

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