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Adolescenza e handicap



Andrea Canevaro con Piero Comandè



Andrea Canevaro (1939) è laureato in Lettere e Filosofia e ha seguito gli studi in Pedagogia Speciale del Prof. Claude Kohler. Ha lavorato come educatore nel settore della devianza giovanile. Ha avuto un incarico di insegnamento di Pedagogia Speciale nel 1975 presso il corso di laurea in Pedagogia della Facoltà di Magistero dell'Università degli Studi di Bologna; presso la stessa sede è stato chiamato nel novembre 1980 a ricoprire la cattedra di Pedagogia Speciale come professore straordinario dal 1980 al 1983, e successivamente come professore ordinario. Dal 1983 è stato eletto presidente del corso di laurea in Pedagogia; e dal 1987, per due mandati triennali, è stato Direttore del Dipartimento di Scienze dell'Educazione presso lo stesso Ateneo. E' membro di associazioni scientifiche internazionali e nazionali, direttore di collane editoriali, e fa parte del comitato scientifico di alcune riviste nazionali ed internazionali. Attualmente è ordinario di Pedagogia speciale e direttore del Dipartimento di Scienze dell’educazione dell’università di Bologna.

Handicap intellettivo, che cos’è? Una domanda su cui specialisti, insegnanti, operatori della scuola e politici non smettono di interrogarsi. In questa legislatura sono state approvate nuove leggi sul collocamento obbligatorio  e un “piano per favorire l'integrazione dei disabili”, il Programma d'azione CdM 28.7.2000 .

Sullo “stato dell’arte” dei percorsi d’integrazione e della pedagogia dell’handicap abbiamo conversato con il Prof. Andrea Canevaro, ponendogli domande anche sulle potenzialità dell’intervento dei nuovi media nello sviluppo di questi giovani.


In quale situazione crescono le persone con handicap intellettivo?

La nostra storia, anche se diversa da quella di altri paesi, s’inquadra nella prospettiva comune di perseguire l’integrazione o, come si dice oggi, l’inclusione. Quest’ultima parola vuol dire che le persone nascono e sviluppano la loro vita in un quadro sociale ampio e non in esclusione. Noi l’abbiamo perseguita, puntando soprattutto sulla scuola e poi sulla formazione professionale, che pure ha connotazioni molto differenziate da regione a regione, da provincia a provincia.

Quanto all’avviamento al lavoro, la legge n.68 del 12 marzo 1999 ha introdotto il collocamento mirato, dove c’è la possibilità di reale integrazione nel lavoro con una logica più legata alla conoscenza dell’individuo e del contesto, anche in aziende piccole, e non semplicemente una sistemazione di tipo assistenziale. Purtroppo i servizi non hanno sufficientemente preparato il sistema lavorativo a utilizzare questa nuova legge.

Che cosa può mettere in scacco lo sviluppo del disabile intellettivo?

Il pericolo è che ci sia un’età riconosciuta come adulta solo perché si ha un posto di lavoro e che sia meno riconosciuta come tale quando il lavoro non c’è. Oggi, per altro, è la condizione di tutti coloro che perdono il lavoro e possono regredire. Può essere difficile il riconoscimento sociale di una persona che non lavora, non va in discoteca e non va in automobile.

Ora però vi sono delle persone handicappate che hanno raggiunto una certa notorietà e questo permette di cambiare parecchio la loro percezione sociale. C’è ancora molto pietismo, ma anche qualche evidente passaggio di qualità che va difeso.

Ci sono fenomeni nuovi?

Per la prima volta nella storia ci sono molte persone handicappate che raggiungono un’età avanzata. Un tempo morivano prima in parte perché vivevano per in istituti in condizioni a volte precarie. L’inserimento nella vita sociale invece provoca una qualità della vita migliore, quindi un miglior modo di andare avanti e invecchiare.

I nuovi media possono contribuire a formare le competenze e facilitare le transizioni dello sviluppo: dall’infanzia all’adolescenza, dall’adolescenza all’età adulta?

L’interattività degli strumenti informatici offre notevoli possibilità per chi ha condizioni intellettivamente più deboli; consente di interagire, e di conquistare delle padronanze. Se invece questi media lasciano poco spazio alla libera azione della persona e creano dipendenza, vanno evitati.

Non c’è il rischio che il rapporto con la macchina allontani dalla vita sociale?

L’interattività può condurre alla percezione che una persona non sia isolata, invece il rischio dell’isolamento c’è. Che si può fare? Bisogna vigilare. Non credo però che questo sia un problema solo per i disabili intellettivi, non bisogna farne una categoria a sé.

L’interattività apre una dimensione nuova un po’ come è accaduto con la stampa. Anche questa all’inizio, favorendo la lettura personale in solitudine, ha comportato rischi di isolamento, ma poi è diventata un potente fattore di socializzazione del sapere e della trasmissione delle culture.

Qual è la condizione del disabile intellettivo di fronte allo schermo del computer?

Ricorda colui che ha dovuto lasciare forzatamente il proprio paese e vivere in paese sconosciuto. E’ dominato dal timore di non capire quali informazioni gli servono. Resta molto stordito e confuso di fronte a una quantità di informazioni che sembra infinita senza possibilità di un codice, di una decifrazione.

E’ necessario offrirgli uno schermo ricco di elementi abbastanza mirati al raggiungimento di obiettivi personali. Obiettivi da cui però si possa andare avanti. Una volta si diceva di una persona con dei limiti d’intelligenza: “conosce 100 parole”. Ora deve poter arrivare anche a 1000 parole. E così sarà per il sistema informatico.

Dobbiamo dunque essere ottimisti circa le possibilità di sviluppo di questi giovani?

Senza farsi delle illusioni, che poi provocano delusioni, credo che vi siano sempre più possibilità, sempre più flessibilità nel loro sviluppo. Il ritardo c’è, la fragilità c’è, ma ci sono anche conquiste neppure immaginabili venti anni fa. Oggi si scopre che i limiti della padronanza di una persona con un ritardo effettivo, ad es. una persona Down, non sono così rigidi come si riteneva allora; che questi sono spesso legati a cattive interpretazioni del ritardo.

Nel nostro paese è possibile incontrare persone Down che svolgono delle mansioni lavorative anche complesse. In un self-service presso la stazione a Bologna, ci sono, due persone Down, quasi mai nello stesso turno. Lavorano in mezzo ad una quantità di segnali che devono essere catturati ed elaborati per fare delle operazioni precise e complesse, non per fare delle cose qualsiasi. Vent’anni fa, quindi non molto tempo fa, sembrava fantascienza che una persona Down avrebbe fatto una cosa del genere. Ora invece questo è possibile.

Ho l’impressione che esempi come questo non solo portino a sperare, ciò che per altro è nella mia natura, ma dimostrino che l’impegno che mettiamo a fianco di queste persone è completamente ripagato.


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