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Attualita'



Le ragioni della critica


Virginio Marzocchi


Questo saggio appare sul numero 1 della Nuova Serie della rivista Filosofia e Questioni Pubbliche. Per ulteriori informazioni potete contattare Luiss Edizioni all'indirizzo e-mail edizioni@luiss.it

Libri discussi: W. Privitera, Il luogo della critica. Per leggere Habermas, Rubbettino, Soveria Mannelli-Messina 1996; M. Rosati, Consenso e razionalità. Riflessioni sulla teoria dell'agire comunicativo, Armando Editore, Roma 1994; M. Bianchin, Ragione e linguaggio. Ermeneutica, epistemologia e teoria critica in Jürgen Habermas, Guerini e associati, Milano 1995; A. Punzi, Discorso patto diritto. La comunità tra consenso e giustizia nel pensiero di K-O. Apel, Giuffrè, Milano 1996.

Quasi in contemporanea con la stampa delle traduzioni di importanti scritti di J. Habermas e K.-O. Apel, sono usciti i lavori di (per lo più giovanissimi) autori italiani, dedicati ai due filosofi francofortesi, i quali hanno individuato nell'intersoggettività linguistico-comunicativa il luogo primario per una riconsiderazione e un ampliamento del concetto normativo di ragione. È su tale concetto che per entrambi si giustifica la possibilità di sviluppare ancora oggi e in termini rinnovati una teoria critica.

1. Segnaliamo innanzitutto l'ultimo lavoro uscito in ordine di tempo. Non si tratta di un'opera di approfondimento, bensì di un'agile introduzione o, come asserisce l'autore stesso, di un invito alla lettura di Habermas. In modo piano ma sempre puntuale e informato, Privitera riesce egregiamente nel suo intento, consistente non nell'«illustrare dettagliatamente tutti i 'luoghi' del pensiero habermasiano, ma piuttosto il senso di un itinerario». Tralasciando programmaticamente la riflessione etica e privilegiando la dimensione sociologica, Privitera ricostruisce l'iter habermasiano organizzandolo intorno al problema dello statuto della critica e segnatamente della critica valutazione della società moderna: «Se è vero che l'essenza della modernità culturale sta nel suo riconoscere come unica autorità la critica razionale, occuparsi dello statuto della critica equivale a interrogarsi anche sul significato che ha per noi la modernità con il suo progetto illuministico di emancipazione».

È questa un'impostazione intelligente e proficua, che, senza far mai violenza all'autore trattato, anzi seguendolo con limpida fedeltà, da un lato consente di marcare la continuità e insieme la reimpostazione degli strumenti concettuali operata da Habermas rispetto ai suoi predecessori francofortesi, Horkheimer e Adorno, dall'altro permette di cogliere le tappe fondamentali di un percorso iniziatosi fondamentalmente con Storia e critica dell'opinione pubblica del 1962, per giungere all'ultima grande opera del 1992, Fatti e norme.

Acutamente Privitera nota «che con Habermas al paradigma del disvelamento, tipico della critica dell'ideologia, subentra quello della ricostruzione, riferito ad intuizioni costitutive della prassi sociale». Ovvero: «Habermas affronta il nesso validità-fatticità ribaltando il procedimento della critica dell'ideologia: non si tratta più di smentire le idee confrontandole con la realtà dei fatti, ma di partire dalla realtà sociale per mettere in risalto quegli aspetti che costituiscono il suo spessore ideale». L'unitario intento centrale viene così correttamente identificato nello sforzo di elaborare una teoria della società moderna, alla luce della quale quest'ultima si configuri come un «progetto incompiuto», ovvero come realizzazione, pur monca e non priva di patologiche deformazioni, di un universale potenziale di razionalità. Leggere la modernità come crescita e progressiva differenziazione di sfere-pretese di validità, discorsivamente riscattabili, significa rinvenire in essa stessa i criteri che, in forza della loro formalità e universalità, consentano di criticare e correggere le distorsioni di fatto prodottesi.

La complessiva strategia habermasiana si dispiegherebbe quindi, in un serrato confronto con proposte concorrenti, «su due diversi piani argomentativi: un livello sostanziale, strettamente legato alla diagnosi storica della modernità come fenomeno di razionalizzazione unilaterale e un livello sistematico riguardante lo strumentario concettuale della teoria». A questo secondo livello, quel sapere o tipo di conoscenza cui viene rimesso il compito di identificare e convalidare i criteri, sulla cui scorta operare la critica, non è più la riflessione trascendentale o la critica dell'ideologia bensì una particolare «scienza ricostruttiva»: la cosiddetta pragmatica formale, che esplicita le regole intuitivamente (implicitamente) padroneggiate dagli interagenti al fine di coordinarsi tramite intesa linguistica. Lo sforzo di Habermas consiste quindi nel mettere in luce il fatto che «la pubblica argomentazione razionale [già oggetto del primo importante saggio del 1962 nella sua specifica configurazione di räsonierende Öffentlichkeit borghese] non è riducibile a un fenomeno storicamente circoscritto, ma risponde piuttosto a una caratteristica fondamentale dell'agire sociale». In tal senso Habermas intende mostrare che la società si riproduce e integra anche (ma in modo ineliminabile) tramite linguaggio e che l'impiego comunicativo del linguaggio, al fine di una coordinazione consensuale delle azioni, rappresenta la modalità originaria dell'uso linguistico, rispetto al quale gli altri impieghi, anche i più strategici, risultano derivati e parassitari; quindi egli rinviene nell'uso linguistico originario e autenticamente comunicativo quelle dimensioni di una razionalità piena e non parziale (differenziata in quattro irriducibili pretese di validità discorsivamente riscattabili), alla luce della quale giudicare le istituzionalizzazioni di fatto realizzatesi.

Privitera rinuncia a ogni osservazione critica. Non tanto, ci sembra, per ragioni di brevità, quanto per una profonda consonanza con gli intenti e il modo di procedere di Habermas. Tale condivisione, unita a una sicura familiarità con la vasta produzione dell'autore, gli consente di risolvere le ardite e poliedriche costruzioni habermasiane in un linguaggio piano, comprensibile e a tutti accessibile.

2. Due invece sono le prospettive critiche sottese (almeno a nostro avviso) alla seconda opera dedicata a Habermas, che intendiamo qui prendere in esame: il rapporto tra integrazione sociale affidata al linguaggio e integrazione sistemica operata dai media denaro o potere nei sottosistemi economia o amministrazione; il tipo di razionalità procedurale avanzata da Habermas e l'universalismo a essa ascritto. Il lavoro di Rosati è distinto in due parti: la prima ripercorre e cerca in qualche modo di ordinare lungo un unitario filo conduttore il magmatico opus magnum del 1981, Teoria dell'agire comunicativo; la seconda riassume e discute le più rilevanti critiche a esso mosse soprattutto in ambito anglo-americano.

Nella prima parte Rosati, presentando il dialogo che Habermas intesse con Weber, Mead, Durkheim e la tradizione fenomenologica, illumina il complesso concetto di mondo della vita (comprendente per Habermas non solo prestazioni interpretative ma anche processi di integrazione-coordinazione e di formazione della personalità), in modo tale che solo l'agire comunicativo risulti in grado di assicurarne la riproduzione e che la razionalizzazione del mondo della vita induca il dispiegarsi dei potenziali di razionalità insiti nell'agire comunicativo. D'altra parte proprio il differenziarsi strutturale del mondo della vita e i dispendiosi processi di intesa, che esso quindi richiede per ricucire il dissenso, impongono, in termini di sgravio funzionale, il costituirsi di sotto-sistemi razionali rispetto allo scopo, regolati attraverso relazioni di scambio e potere prive di rimandi normativi. Ciò consente a Habermas di inglobare nella propria complessiva teoria della società la prospettiva sistemica sviluppata da Parsons, senza però estenderla anche all'ambito della cultura e tenendo fermo il fatto che l'automatismo dei meccanismi sistemici di regolazione necessita di un sanzionamento giuridico, che equivale a un loro indiretto ancoramento-riconoscimento nel mondo della vita. Otteniamo così quella concezione della società «a due livelli», che costituisce il risultato complessivo di Teoria dell'agire comunicativo.

La società non va più pensata come «centrata» ovvero come imperniata su un nucleo (sia esso politico, economico o culturale), agendo sul quale risulti possibile mutarla o stabilizzarla nella sua totalità; né d'altra parte (come in Luhmann) essa viene a frantumarsi in una pluralità di sistemi, quali anonime monadi incapaci di interloquire o interagire direttamente le une con le altre. La società si presenta così come una unità caratterizzata da due tipi strutturalmente diversi di integrazione e riproduzione (sociale e sistemica), mediati però da quella indispensabile cerniera che è il diritto, il quale, in quanto giusto o legittimo, è condivisibile dal punto di vista del mondo della vita e, in quanto provvisto di sanzioni, è in grado di farsi udire agli ambiti sistemici nel loro stesso linguaggio, limitandoli, regolandoli e istituzionalizzandoli. Se da un lato il mondo della vita e la comunicazione orientata all'intesa, entro cui si situa in ultima istanza la stessa elaborazione teorica di Habermas con la sua pretesa di verità ed empirica adeguatezza, ha la supremazia in termini di principio, d'altra parte proprio il pieno dispiegarsi dei potenziali di razionalità del mondo della vita, in forza dei quali le interazioni non sono più rette da un consenso tradizionalmente prescritto, bensì guidate da un'intesa discorsivamente conseguibile e sempre ridefinibile, richiede funzionalmente lo sganciamento di sottosistemi, retti da automatismi sottratti ai rischi del dissenso e alla laboriosità delle sue ricuciture tramite il ricorso al riscatto argomentativo delle pretese di validità. La coordinazione tra gli agenti può tanto più affidarsi a pretese di validità e al loro critico riconoscimento in certi ambiti, quanto più altri ambiti, come quelli della riproduzione materiale e dell'organizzazione amministrativa dello Stato, vengono rimessi a un funzionamento indipendente dal convenire dei convincimenti e intenti degli interagenti. Pretese di validità e pretese di potere, agire comunicativo e agire strategico-strumentale ottengono ciascuno una loro separata ma complementare collocazione sociale, in modo tale da richiedersi ed escludersi a vicenda.

L'ultimo capitolo della prima parte è dedicato da Rosati a mostrare come tale strumentario concettuale venga utilizzato da Habermas per riformulare, sotto il titolo di colonizzazione del mondo della vita da parte dei sottosistemi e di coscienza quotidiana frammentata, le diagnosi delle patologie della modernità avanzate, alla luce della teoria del valore di Marx e delle impietosamente disperanti analisi weberiane, dal marxismo occidentale.

La seconda parte del libro di Rosati è soprattutto una registrazione di critiche rivolte a Teoria dell'agire comunicativo. Per quanto riguarda il paradigma della ragione comunicativa, Rosati giustamente individua nella pragmatica formale il suo fondamento teorico, quale tentativo di mostrare come i criteri di razionalità impiegati dalla teoria siano già dati nel linguaggio quotidiano, ovvero risultino costitutivi per la prassi di soggetti capaci di parlare e agire alla ricerca di un'intesa. Tuttavia, benché costitutivi per l'oggetto della ricerca, essi non vengono dimostrati come razionalmente intrascendibili e quindi normativamente vincolanti, ma solo come il fallibile risultato di una ricostruzione delle condizioni dei processi di intesa entro un mondo della vita già strutturalmente differenziato (che cioè conosce i tre concetti formali di mondo: oggettivo, sociale e soggettivo). Sicché si possono sollevare legittime perplessità relativamente tanto alla superiorità razionale delle tre differenziazioni di mondo rispetto alle indifferenziate immagini mitiche o alle unitarie visioni metafisiche del mondo, quanto alla esaustività o completezza della base empirica di partenza della ricostruzione (la quale sembra tagliar via una vasta fetta di usi linguistici, come ad esempio quelli poetici, ironici, metaforici o rituali). In vero, Rosati non sembra tanto lamentare la mancanza in Habermas di una giustificazione cogente dei parametri critici, quanto la loro formale e astrattiva inadeguatezza o insufficienza, che potrebbero pregiudicare la loro valenza universale.

Forse più interessanti e puntuali risultano le critiche rivolte al problema della distinzione tra mondo della vita e sistema, mediante cui Habermas giunge a separare riproduzione simbolica e riproduzione materiale. Si otterrebbe così la conseguenza altamente controfattuale che nel suo insieme il mondo della vita risulti indipendente dal potere e che i sottosistemi (economia e amministrazione) possano rinunciare al consenso su norme e valori. In effetti, la più pericolosa patologia cui il presente è esposto viene da Habermas identificata nella eventualità che un mondo della vita già sostanzialmente retto da quei simmetrici rapporti di riconoscimento richiesti dall'intesa su differenziate pretese di validità venga colonizzato e sottomesso, anche attraverso una pervasiva giuridificazione, alla logica strumentale del perseguimento/elusione di vantaggi/svantaggi, identificabili e misurabili sulla scorta di media (denaro e potere) sottratti alle prestazioni interpretative degli interagenti.

Dinanzi a tali posizioni di Habermas (che, da un lato, conducono a una idealizzazione «comunicativa» del mondo della vita e, dall'altro, comportano uno svilimento «sistemico-strumentale» della dimensione del lavoro) ci si può legittimamente chiedere, a nostro avviso, se esse non discendano da un errore teorico di fondo, consistente nel rifiuto di una netta distinzione tra riflessione filosofica e analisi concettuale di tipo normativo, da un lato, e ricostruzione empirica di situazioni reali, dall'altro. Quelle che appaiono spesso quali illuminanti distinzioni concettuali (come, ad esempio, tra pretese di validità e pretese di potere, tra uso linguistico orientato all'intesa o al successo, tra irriducibili pretese di validità) vengono immediatamente ritradotte in separazioni reali, come se il loro (supposto) fattuale darsi e affermarsi potesse sopperire al compito (che resta invece inevaso) di mostrarle discorsivamente inaggirabili e quindi normativamente vincolanti (ma non per questo già di fatto vigenti).

3. Chi passasse direttamente dai due scritti presi fin qui in esame alla lettura del vivace volume di M. Bianchin, potrebbe avere a tutta prima l'impressione che quest'opera abbia per oggetto un autore diverso dallo Jürgen Habermas delle due precedenti. Ciò è dovuto non solo al taglio decisamente filosofico-epistemico, scelto da Bianchin, ma anche alla circostanza che le proposte habermasiane divengono occasione di una discussione critica tesa ad avanzare una propria prospettiva teorica. Piuttosto che ricostruito, Habermas viene qui corretto e integrato, ricorrendo soprattutto a quelli che potremmo chiamare i grandi revisionisti americani della tradizione analitica: Quine, Davidson e (in particolare) Putnam. In passi argomentativamente decisivi, i rimandi in nota a questi autori giungono decisamente a prevalere su quelli relativi a Habermas, al quale viene data parola non tanto attraverso l'opus magnum costituito da Teoria dell'agire comunicativo, quanto attraverso le pubblicazioni intercorse tra il primo e Fatti e norme (libro che, pur a volte citato, è, evidentemente per motivi temporali, oggetto di rapidi accenni).

Potremmo dire che Bianchin cerchi di delineare una via mediana tra la fondazione ultima della pragmatica trascendentale di Apel e la ricostruzione della pragmatica formale di Habermas. Tale via mette capo alla conclusione secondo cui tutto è fallibile (quindi, contro Apel, anche i presupposti incontestabili dell'argomentazione), ma non tutto allo stesso modo (ovvero, questa volta contro Habermas, non tutto è falsificabile attraverso un qualche ricorso all'empiria). Giustamente, a nostro avviso, Bianchin nota una «ambiguità di fondo» nello statuto ascritto da Habermas alle scienze ricostruttive in generale, di cui la pragmatica formale sarebbe un caso particolare, ma eminente, in quanto è proprio alla pragmatica che Habermas affida la giustificazione delle strutture di fondo della ragione comunicativa, ovvero la determinazione dei criteri di un concetto non monco o astrattivo di ragione, articolato su quattro irriducibili pretese di validità (comprensibilità, verità, giustezza normativa e sincerità-autenticità) e sulla riscattabilità argomentativa delle prime tre. In effetti Habermas, da un lato, presenta la propria pragmatica formale come ricostruzione razionale, che, tramite analisi concettuale, mette in luce i presupposti che i parlanti non possono non padroneggiare intuitivamente, affinché la comunicazione svolga il ruolo di coordinazione delle azioni, ma, dall'altro (non potendosi escludere che in tal modo si pervenga a una erronea esplicitazione teorica delle intuizioni dei parlanti), egli richiede che l'ipotetica analisi concettuale rinvenga la propria conferma/ correzione nel ricorso a test empirici o, indirettamente, mostrando la propria proficuità nell'impostazione di ricerche empiriche. Ora Bianchin, di nuovo giustamente (ma a nostro avviso anche insufficientemente, in quanto manca di cogliere l'autentica paradossalità, più volte sottolineata da Apel, di questa richiesta habermasiana), nota che i test empirici potrebbero solo dimostrare che i parlanti si comportano seguendo certe regole, ma non riuscirebbero a qualificare le regole stesse come normative. Il vero e proprio momento probatorio (cioè del carattere normativo delle presupposizioni pragmatiche) Bianchin lo vorrebbe quindi affidare ad argomenti trascendentali, il cui compito consisterebbe «nel mettere in evidenza l'ineludibilità di certi presupposti attraverso la rilevazione (elenctica) che una loro negazione renderebbe impossibile la nostra comprensione del mondo, in quanto è possibile (per noi) solo in base ad essi». Resta comunque una riserva fallibilista (incolmabile e soprattutto, a dispetto di Habermas, empiricamente incolmabile), in quanto «l'argomento trascendentale non può offrire una fondazione ultima, ma rimane legato alla possibilità che i soggetti conoscenti modifichino il loro modo di pensare il mondo».

A questo punto andrebbe già comunque notato che Bianchin non rende pienamente conto della discussione, intercorsa tra Habermas e Apel sulla possibilità o meno di una fondazione ultima (trascendentale) della pragmatica, ovvero ne muta i termini: i due autori discutono dei presupposti della comunicazione mentre Bianchin traduce spesso il demonstrandum nelle condizioni dell'esperienza. Inoltre, egli manca di cogliere i diversi livelli comunicativi, cui i due autori situano i loro strumenti di prova: la comunicazione quotidiana del mondo della vita (Habermas) e la comunicazione entro il discorso argomentativo (Apel).

Vero è che Bianchin dichiara almeno «relativamente ininfluente» il contesto teorico in cui gli argomenti trascendentali vengono avanzati, intendendo quindi concentrarsi sulla «forma» dell'argomento, la cui forza dimostrativa consisterebbe nel mettere in luce il prodursi di un'«attuale inconsistenza riflessiva». Quest'ultima viene quindi esemplificata a riguardo del principio di non contraddizione: «E per quanto noi ora non siamo in grado di rappresentarcela [ovvero: la negazione del principio di non contraddizione], non è impossibile supporla possibile: una contraddizione non è incomprensibile nel senso in cui è incomprensibile l'asserto 'wa 'arobi besnork gavagai'', ma nel senso che non riusciamo a concepire come sarebbe il mondo nel caso fosse vera». Due sintetiche osservazioni da parte nostra: 1) dinanzi a una contraddizione (ovvero a una inosservanza del principio di non contraddizione, che è cosa diversa dalla sua negazione) non abbiamo da rappresentarci alcunché, in quanto, proprio una volta compresa, una proposizione contraddittoria semplicemente non dice nulla, ovvero nega quel che asserisce, ovvero non riesce a costituirsi né come asserzione né come negazione o domanda; 2) il contesto teorico non è forse così ininfluente come Bianchin asserisce, dato che solo un certo contesto teorico (esplicitamente rifiutato, in numerosi altri passi, da Bianchin in nome del linguistic turn novecentesco) consente di risolvere senza problemi una inconsistenza in un che di irrappresentabile-inconcepibile-inimmaginabile-impensabile o, più esattamente, di considerare inconsistente ciò che è irrappresentabile.

Ciò che resta inchiarito in Bianchin è: sia in che cosa consista l'«ineludibilità di fatto» (al di là dell'irrappresentabilità), cui a suo avviso gli argomenti trascendentali metterebbero capo; sia come un argomento trascendentale, il quale può dimostrare soltanto la validità in linea di principio di alcuni presupposti o regole, sia in grado di dimostrarli fattualmente ineludibili; sia, infine, come (sopperendo alle insufficienze di Habermas) riuscire a qualificare normativamente ineludibile (anche se solo per l'oggi) quanto possiamo mostrare solo fattualmente tale. Tale mancanza di chiarezza ovvero di coerenza-distinzione concettuale produce frasi come le seguenti, le quali, violando di fatto quel principio di non contraddizione che Bianchin ritiene dimostrabile come di fatto ineludibile al momento, dicono e disdicono allo stesso tempo: «Gli argomenti trascendentali, per quanto non equivalenti a fondazioni ultime, possono mostrare che, in una storia e for the time being, certe strutture cognitive e morali sono ineludibili e detengono (di fatto) una validità di diritto».

Il successivo capitolo terzo rappresenta un tentativo di ricostruire, e per così dire coerentizzare, la complessiva prospettiva habermasiana a partire dalla teoria del significato, secondo cui noi comprenderemmo un atto linguistico soltanto se sappiamo quel che lo rende accettabile. In estrema sintesi: «Se la comprensione del significato dipende dalla conoscenza delle condizioni di accettabilità accertabili discorsivamente per la pretesa di validità degli enunciati, allora il semplice fatto dell'esercizio del linguaggio, ineludibile per chiunque intenda significare qualcosa, presuppone l'appello a un'organizzazione sociale radicalmente democratica, che promuova l'accesso e la partecipazione egualitaria di ogni attore a processi di decisione svolti comunicativamente». Il tentativo resta interessante, sebbene a nostro avviso distante dall'autocomprensione di Habermas e in particolare dal suo proposito, realizzato in particolare in Teoria dell'agire comunicativo, di radicare la pragmatica formale nelle intuizioni di fatto (sebbene implicitamente) impiegate dai parlanti: la distinzione tra quattro irriducibili pretese di validità e la precisazione dell'accettabilità come giustificabilità argomentativa sembrano dipendere in Habermas da un determinato e differenziato mondo della vita.

Il conclusivo capitolo quarto è dedicato, dapprima, alla distinzione tra agire comunicativo, centrato sull'uso linguistico orientato all'intesa, e agire teleologico-strumentale, quindi a mostrare come solo il primo sia in grado di dar conto di uno stabile ordine sociale tramite la mediazione del diritto. Viene poi analizzato il concetto di mondo della vita, ripreso da Husserl ma da Habermas reso indipendente dalle categorie della filosofia della coscienza, anzi considerato il luogo di costituzione delle soggettività tramite i processi di socializzazione dell'interazione simbolica. La conclusione è la seguente: «Ora, da un lato il carattere strutturale della pragmatica formale viene interpretato nel senso di una ricerca di elementi invarianti rispetto alle forme di vita differenziate storicamente. Questo può suggerire un'interpretazione molto forte dell'universalismo della razionalità comunicativa. Dall'altro i testi permettono un'interpretazione alternativa in cui il ricorso all'argomento trascendentale può essere considerato una procedura di legittimazione debole in grado di ricostruire la razionalità di strutture rivedibili nel contesto olistico della semantica del linguaggio». Solo che l'olismo linguistico è una tesi insistentemente attribuita da Bianchin a Habermas, il quale, però, si limita a dichiarare olistico il mondo della vita, che non è il luogo ultimo e unico dell'impiego segnico, in quanto lo stesso mondo della vita rinvia al discorso: la doppia struttura performativo-proposizionale del linguaggio, che non è un semplice portato storico contingente, non rompe forse l'olismo dei sempre particolari sistemi linguistici in direzione di una comunità argomentativa tendenzialmente illimitata'

4. La prospettiva di una fondazione trascendentale forte, quale condizione della critica in generale e di quella della società in particolare, viene fatta valere nell'ultima opera che qui recensiamo. Si tratta di una ricostruzione complessiva della proposta pragmatico-trascendentale di Apel con particolare riferimento all'etica e al diritto.

Nella prima parte, Punzi ripercorre con competenza le discussioni critiche (con Wittgenstein, Heidegger e Peirce), attraverso cui Apel giunge a delineare la propria concezione pragmatica del linguaggio e quindi a giustificare una teoria della verità quale consenso entro la comunità tendenzialmente illimitata e paritaria dell'argomentazione: «L'impresa teorica appare, così, intrecciata alla prassi dei rapporti umani, e il suo destino inverato nella progressiva emancipazione della comunità verso un dialogo universale e trasparente: la ricerca non contraddittoria della verità da parte di ciascun soggetto razionale implica, in quanto tale, l'accettazione del telos della situazione discorsiva illimitata come ideale realizzazione di una relazionalità autentica».

La seconda parte viene quindi dedicata a ricostruire le ragioni che Apel adduce, prima, a difesa della indispensabilità di una giustificazione non storicistico-contestualista dell'obbligazione morale (tanto contro il liberalismo alla Rorty quanto in opposizione al comunitarismo neo-aristotelico di MacIntyre), quindi, per la convalida razionale di un principio morale ultimo, sottratto all'emotivismo (di alcune etiche analitiche) e al decisionismo (sostenuto soprattutto dai rappresentanti del razionalismo critico). È a questo punto, ovvero in riferimento all'etica, che Punzi presenta e discute la figura argomentativa centrale costituita in Apel dalla fondazione ultima, quale esibizione di quelle regole (anche moralmente rilevanti) la cui contestazione proposizionale entra in contraddizione con il momento performativo, indispensabile all'avanzamento di una qualche proposizione in un atto linguistico argomentativo. Una volta messo in luce il principio morale fondamentale dell'etica del discorso, Punzi passa a considerare in che modo Apel (soprattutto a partire dagli anni Ottanta) riesca a inglobare nella prospettiva deontologica di un'etica universalista della reciprocità, di dichiarata ispirazione kantiana, il punto di vista teleologico della responsabilità in riferimento alla situazione storica, esaminando così il passaggio (moralmente comandato) dalla morale alle condizioni giuridiche e statuali della sua applicabilità e richiedibilità. In tal senso, il diritto positivo rappresenta la indispensabile integrazione della morale: sia in quanto istituzionalizzazione procedurale di quei discorsi pratici, cui la morale discorsiva rimette la produzione-giustificazione delle norme materiali, sia in quanto, data la sua natura coercitiva, assicurazione della generale osservanza di dette norme e quindi garanzia dell'effettivo rispetto reciproco e della soddisfazione degli interessi in gioco. D'altra parte, la morale permane quale istanza per la critica di rivedibilità di qualsiasi sistema giuridico particolare, dato che ogni diritto positivo è il prodotto di un consenso fattuale, mai identico con quello ideale, cui potrebbe giungere una comunità sia autenticamente argomentativa sia davvero paritaria e illimitata (la quale, cioè, superi i confini tracciati, almeno fino a oggi, da ogni Stato di diritto, per quanto internamente democratico).

Benché l'opera di Punzi risulti informata, anche per quanto riguarda la letteratura critica, e abbracci l'intero iter teorico di Apel (con particolare riferimento ai suoi esiti più recenti), la nostra impressione generale è che Punzi ne privilegi più le opposizioni ad altri autori, gli intenti, i propositi e la trasformazione operata nei confronti di una certa tradizione filosofica, piuttosto che cogliere, ricostruire ed eventualmente criticare la cogenza e la forza probante del ragionamento apeliano. Ciò fa sì che i capitoli conclusivi delle due parti, cui Punzi rispettivamente affida le proprie considerazioni critiche, appaiano o come una sorta di estrinseca giustapposizione o come una integrazione-correzione che tradisce un fraintendimento, una mancata penetrazione della stringenza teorica e insieme della portata delle argomentazioni apeliane.

Così, nella prima considerazione critica, dedicata alla filosofia apeliana del linguaggio, Punzi prima si appella a «un non detto che rimane incatturabile nelle maglie del significato espresso, ma che dice pur sempre qualcosa», un «non detto che è forse indicibile» (dimenticando che se Apel ha ragione per quanto attiene il superamento del solipsismo metodico, allora indicibile equivale a inconoscibile, ovvero a un concetto o termine privo di senso), per poi asserire «la pari dignità ma, al contempo, la reciproca irriducibilità metodologica tra una semiotica pragmatico-trascendentale e una lettura fenomenologico-esperienziale dell'intersoggettività comunicativa». Tale lettura consentirebbe di illuminare i «soggetti dell'enunciazione [...] come apertura di un orizzonte simbolico che eccede il detto e rinvia al 'nulla' che ci attesta come 'unici' nella creazione di senso».

Viceversa, nella seconda considerazione critica, si accusa l'etica del discorso di poter dar luogo a patologici esiti istituzionali (come «la negazione dell'universalità del riconoscimento, la chiusura della comunità in se stessa, l'appiattimento del consenso sul 'noi' già esistente, la violazione dei diritti di coloro che non hanno accesso al discorso»), che di fatto possono ben verificarsi, ma che l'etica del discorso condannerebbe senz'altro; e ad essi si tenta di porre rimedio sia ricorrendo a «un principio superiore», a «una dimensione originaria, precedente il gioco argomentativo» (senza dirci, però, come determinare e convalidare tale principio al di fuori dell'argomentazione), sia raccomandando che «il gioco discorsivo venga improntato al principio dell'ascolto reale dell'altro nella sua irriducibile alterità». Sarebbe dunque necessario «valorizzare la comunicazione intersoggettiva al di là della dimensione del confronto argomentativo, leggendola piuttosto come spazio di formazione dell'identità personale, di affermazione del proprio essere nel medio del riconoscimento dell'altro».

Solo una limitativa interpretazione del discorso pratico (il quale prevede come uno dei suoi momenti essenziali la reinterpretazione-articolazione delle esigenze di ciascuno al di là di introiettati pregiudizi-precomprensioni convenzionali) impedisce di vedere come le esigenze fatte valere, contro o al di là dell'etica del discorso, siano invero già in essa contenute e articolate in modo ben più convincente del rinvio a un generico «principio dell'ascolto reale dell'altro», all'«accoglienza dell'altro nella sua unicità». Se il nostro ascolto non vuole trasformarsi in un ascolto solo supposto, ovvero ridursi a un auto-ascolto, esso non può essere che dibattito pubblico con gli altri, ascoltati in quello che essi stessi dicono di sé.

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