| Costituzionalismo e democrazia in Bruce
Ackerman
Brunella Casalini
Questo saggio appare sul numero 1 della Nuova Serie della rivista Filosofia e Questioni
Pubbliche. Per ulteriori informazioni potete contattare Luiss Edizioni all'indirizzo
e-mail edizioni@luiss.it
Libri discussi: B. Ackerman, We the People, I: Foundations, The Belknap Press of Harvard
University Press, Cambridge, MA. 1991; Id., We the People, II: Transformations, The
Belknap Press of Harvard University Press, Cambridge, MA. 1998.
1. Se nell'ambito della scienza secondo Thomas S. Kuhn il ricorso alla
storia e all'analisi filosofica segna quei periodi di «ricerca straordinaria» che
precedono l'avvento di nuovi paradigmi, nulla di diverso sembra accadere nell'ambito del
diritto, almeno stando all'esperienza americana. La vivacità del contemporaneo dibattito
filosofico e storico sulla Costituzione, sulle origini dell'istituto del controllo di
costituzionalità delle leggi e sulla legittimità del suo esercizio da parte della Corte
suprema in alcune sentenze discusse, come la famosa Roe vs Wade, possono essere
considerati sintomi di una fase di transizione, di un'imminente svolta gestaltica, che
consenta il passaggio a nuovo paradigma costituzionale. In questa direzione va lo sforzo
compiuto da Bruce Ackerman in We the People. Un'opera in tre volumi, impegnativa sia per
la mole, sia per il carattere innovativo delle tesi sostenute sul piano costituzionale e
politico, in cui l'autore abbandona il punto di vista di «citizen of the world» di
Social Justice and the Liberal State per adottare una nuova prospettiva socialmente e
culturalmente radicata: quella di «citizen of the United States».
Con una sorta di stravolgimento della consueta interpretazione della Costituzione degli
Stati Uniti d'America quale esempio tipico di costituzione-garanzia Ackerman
propone una lettura della storia costituzionale americana tesa a sottolineare gli spazi in
cui essa ha saputo valorizzare il ruolo della sovranità popolare. La Costituzione,
secondo l'autore, ha lasciato impregiudicata la possibilità dell'esercizio di
autodeterminazione del popolo delineando una sorta di democrazia dualista o, per così
dire, «a due velocità», nella quale la politica scorre in due canali: il canale della
politica costituzionale, riservato a quei momenti eccezionali in cui il popolo (We the
People) si esprime in prima persona per dar vita a trasformazioni significative della
struttura costituzionale, e il canale della politica normale, proprio delle decisioni
ordinarie, delegate ai rappresentanti del popolo.
Nel primo volume, Foundations, Ackerman traccia il piano teorico generale del suo lavoro,
individua le origini storiche della concezione dualista della democrazia nell'esperienza
dei padri fondatori e argomenta le ragioni della sua attualità. Nel secondo volume,
Transformations, dà fondamento storico all'impianto teorico attraverso una ricostruzione
estremamente approfondita, e spesso originale, di come il popolo americano sia riuscito
nell'arco della sua storia a riappropriarsi del potere costituente e a dare luogo a
periodici risvegli della cittadinanza, senza abbattere l'intera struttura costituzionale
esistente. Il periodo della fondazione della Costituzione, la Ricostruzione e il New Deal
emergono così come tre distinte epoche costituzionali: l'esito di tre «rivoluzioni»
riuscite, se per revolution si intende sottolinea Ackerman, richiamandosi alla
Arendt la riscoperta e il risveglio della cittadinanza. Nel terzo volume,
Interpretations, ancora non pubblicato, Ackerman si soffermerà sul ruolo della Corte
suprema come «custode» dei valori costituzionali.
In questa nota, dopo un'esposizione in termini più approfonditi della linea
interpretativa avanzata nei primi due volumi di We the People qui appena accennata
propongo alcune osservazioni critiche sulla plausibilità delle sue argomentazioni
storiche e sulle difficoltà del suo impianto normativo.
2. Il dualismo della democrazia ackermaniana è espressione del tentativo di conciliare
due diverse tradizioni di cittadinanza: da un lato l'ideale repubblicano di partecipazione
attiva del cittadino alla vita politica partecipazione che è onere e
responsabilità, ma anche fonte di dignità e orgoglio dall'altro l'ideale liberale
della cittadinanza come diritto al godimento della libertà comune e alla protezione della
legge. In questo senso Ackerman assume una posizione eccentrica rispetto al cosiddetto
republican revival. Egli deve essere senz'altro considerato tra coloro che con maggiore
consapevolezza hanno tentato una «strategia di trasformazione» del repubblicanesimo tesa
a renderlo più inclusivo, meno esigente in termini di impegno civico e, al tempo stesso,
più sensibile ai problemi di società complesse. La sua rivalutazione della tradizione
repubblicana si propone, infatti, alla stregua di una terza via tra Pocock e Hartz.
L'errore di Hartz è stato presentare gli Stati Uniti d'America come un paese dominato da
un'indiscussa egemonia liberale, che, non avendo dovuto combattere per liberarsi dal giogo
feudale, si è potuto adagiare in un incontrastato «consenso lockeano», dal quale,
insieme alla glorificazione dei diritti individuali, è derivata una svalutazione del
ruolo della politica nella vita sociale ed economica. Prendendo troppo sul serio l'affermazione
di Tocqueville per cui gli americani sono «nati eguali», Hartz ha sottovalutato, secondo
Ackerman, il carattere normativo del valore dell'eguaglianza e le lotte che in suo nome
sono state combattute in alcuni periodi della storia americana: dalla Ricostruzione al New
Deal. Se per Hartz gli Stati Uniti sono rimasti per due secoli immobili all'ombra di
Locke, per Pocock lo sviluppo della tradizione politica americana dal Settecento a oggi si
presenta piuttosto come un lento declino e una progressiva scomparsa di quella cultura
politica repubblicana che aveva nutrito le aspirazioni politiche dei padri fondatori,
collocandosi in una linea di sostanziale continuità teorica con l'esperienza dell'umanesimo
fiorentino e le teorizzazioni di Harrington.
Ad avviso di Ackerman, né Hartz né Pocock riescono a cogliere interamente e fino in
fondo il carattere peculiare della tradizione politica americana, ovvero il suo
presentarsi come inedita sintesi di repubblicanesimo e liberalismo: un liberal
republicanism, lontano tanto dall'aristotelismo politico repubblicano quanto dall'individualismo
possessivo lockeano. Liberalismo e repubblicanesimo possono apparire tra loro in un'irriducibile
tensione solo se si scambia il liberalismo per il libertarianism di Nozick, ma vi è anche
sostiene Ackerman un diverso e più vero liberalismo (quello di John Stuart
Mill, Dewey e Rawls) che individua come uno dei momenti centrali della politica la
costruzione di una cittadinanza liberale ed è quindi capace di inglobare i valori della
tradizione repubblicana.
3. Il liberal republicanism riesce a raggiungere una sintesi tra repubblicanesimo e
liberalismo grazie alla political economy of virtue, consentita da quella concezione
dualista della democrazia che l'autore vede già compiutamente elaborata nella riflessione
dei padri fondatori (Madison, in particolare) e passando dal terreno della storia a
quello della filosofia politica ripropone come modello appropriato oggi
ancor più di duecento anni fa «a una cittadinanza il cui impegno politico varia
sostanzialmente di decennio in decennio, di generazione in generazione».
Con una nota di realismo non di rado assente nelle rivisitazioni contemporanee del
repubblicanesimo Ackerman considera un dato, in qualche misura inevitabile, la
tiepidezza con cui i cittadini durante la maggior parte della loro vita guardano alla
politica. In una società complessa, come gli Stati Uniti, è possibile individuare tre
diversi tipi umani: il «perfetto privatista», indifferente alla politica, ma non
necessariamente coincidente col tipo dell'egoista o del materialista; il «pubblico
cittadino», politicamente impegnato nella vita di tutti i giorni e il «privato
cittadino», a sua volta distinguibile in «privato cittadino» e «privato cittadino», a
seconda del modo in cui divide le proprie energie tra sfera pubblica e sfera privata. La
democrazia dualista riflette la doppia anima di una «cittadinanza privatistica». In
periodi di politica normale, essa si accontenta di «privati cittadini», che pur
dedicando la maggior parte delle loro energie ad attività diverse dalla politica,
mantengono quel minimo di senso di attaccamento verso le istituzioni che consente loro di
trovare motivazioni sufficienti per andare a votare e non trasformarsi in perfect
privatists.
«Un processo dualista risponde», scrive, «alla particolare complessità con cui l'americano
contemporaneo si accosta alla politica: da un lato, la maggior parte di noi riconosce una
responsabilità nel fare la propria parte come cittadini parlando delle questioni
del giorno a casa e a lavoro, pagando le tasse, andando a votare, dall'altro, di solito
spendiamo gran parte del nostro tempo e delle nostre forze in sfere più private della
nostra vita. La politica normale è secondaria, qualcosa che compete con gli sport
nazionali, gli ultimi film usciti e altre cose simili».
Diversamente dal repubblicanesimo civico il liberal republicanism non assegna alcuna
superiorità morale alla vita pubblica rispetto alla vita privata. Accanto alla politica
vi sono infatti altre sfere dotate tutte di eguale dignità in cui il
cittadino può decidere di trovare la propria realizzazione. Dal punto di vista del
liberale repubblicano non si può dire, insomma, che «Michelangelo sia stato meno umano
di Pericle».
Il genio del sistema politico americano sta, secondo Ackerman, nella sua capacità di
funzionare a doppio regime. In tempi normali, quando le decisioni ordinarie possono essere
lasciate al governo e ai rappresentanti eletti in parlamento, al cittadino non si chiede
che un impegno ridotto, come andare a votare e pagare le tasse. Non ci si attende che egli
sia politicamente ben informato, né che il suo voto esprima un'opinione frutto di una
ponderata riflessione. In tempi eccezionali, tuttavia, quando si tratta di apportare
modifiche significative alla struttura istituzionale e politica, è necessario che i
leader fautori delle riforme siano in grado di risvegliare la virtù civica, di attivare
un discorso e un processo deliberativo pubblico, capace di portare la politica fuori dalla
logica del compromesso e della contrattazione tra i gruppi di interesse. La politica
costituzionale impone per questi motivi prove estremamente severe a quei movimenti che
sperano di guadagnarsi l'alto grado di legittimità democratica che è necessario a coloro
che vogliano parlare in nome di We the People. Ciò che distingue la teoria dualista della
democrazia dalle teorie moniste è, infatti, una valorizzazione della sovranità popolare
che va di pari passo con una scarsa considerazione dei meccanismi ordinari delle
democrazie rappresentative. Solo un «popolo» di cittadini attivi, coinvolto in un
processo di autodeterminazione, appare in grado di esprimere una politica razionale e
riflessiva, tale da rispecchiare un interesse e una volontà comuni.
La dualist democracy distingue, dunque, tra decisioni di routine, proprie dell'amministrazione
quotidiana della vita pubblica, e scelte di grande rilievo con cui il popolo ridefinisce
la propria identità, ridisegnando le istituzioni fondamentali che determinano le libertà
comuni e i diritti di cui può godere. Per ciascuno di questi processi decisionali, in
ragione del diverso livello di razionalità da essi richiesto, la democrazia dualista
ackermaniana prevede un diverso percorso legislativo: un higher lawmaking track, proprio
degli episodi di straordinaria mobilitazione politica, e un normal lawmaking track,
affidato agli organi legislativi nelle loro funzioni di promozione delle leggi ordinarie.
Questo doppio binario della politica democratica spiegherebbe la ciclicità con cui nella
storia americana si sono succeduti periodi di quietismo politico a eventi di politica
«rivoluzionaria» di più o meno lunga durata, durante i quali si è assistito a uno
straordinario coinvolgimento popolare nella politica nazionale.
4. Il doppio binario in cui scorre la politica democratica ackermaniana con la
valorizzazione della razionalità espressa dalla sovranità popolare nei momenti di
politica costituzionale e il sospetto verso il grado di riflessività e la capacità di
esprimere l'interesse comune del governo affida alla Corte suprema un ruolo
peculiare. Nei periodi di normale amministrazione politica, quando sembra prevalere
inevitabilmente, in maniera fisiologica, il dominio esercitato dal pluralismo dei gruppi
di interesse, con le loro spinte particolaristiche ed egoistiche, la Corte suprema è
chiamata a rivestire i panni di «preservatrice» dei valori della Costituzione, a farsi
interprete e garante della ragione pubblica espressa da We the People.
Sotto questo profilo, la teoria dualista della democrazia, secondo Ackerman, rivela l'inconsistenza
di uno dei problemi che hanno afflitto la teoria costituzionale americana di questo
secolo, almeno a cominciare dalla pubblicazione di The Least Dangerous Branch di Alexander
Bickel: la cosiddetta «counter-majoritarian difficulty», o, in altri termini, la
tensione tra la democrazia e il potere dei giudici di invalidare, attraverso il judicial
review of legislation, le decisioni assunte da rappresentati del popolo, democraticamente
eletti. L'errore delle teorie moniste della democrazia (tra le più rappresentative quella
di John Ely), da cui deriverebbe l'idea di una «difficoltà contro-maggioritaria» quale
elemento costitutivo del sistema politico americano, sta nel concepire il legislativo come
rappresentante della volontà popolare e la democrazia come sinonimo di sovranità del
parlamento. Diversamente da quanto avviene nella tradizione britannica nel sistema
democratico americano will of the People e parliamentary sovereignty non coincidono e la
genuina voce della volontà popolare si fa sentire solo nei momenti di politica
costituzionale. Per questo il controllo di costituzionalità delle leggi, lungi dal
rappresentare una contraddizione rispetto al principio maggioritario, svolge, secondo
Ackerman, un compito democratico di grande importanza: a esso spetta difendere i prodotti
costituzionali di quei particolari momenti in cui il popolo, normalmente eclissato, esce
sulla scena pubblica.
La teoria dualista della democrazia rispetta, così, la sensibilità democratica dei
monisti, offrendo al tempo stesso un'alternativa alle teorie dei diritti, nelle diverse
versioni che di esse hanno offerto autori come Richard Epstein (property rights), Ronald
Dworkin (rights to equal concern and respect) e Owen Fiss (rights of disadvantaged groups
to equal treatment).
Contrariamente ai democratic monists, i rights foundationalists temono soprattutto gli
abusi del legislativo nei confronti dei diritti individuali e difendono perciò
strenuamente la possibilità di sottrarre questi temi alle vicissitudini delle
controversie politiche, affidando la loro difesa alle corti. La teoria dualista della
democrazia fa suo il sospetto verso le maggioranze transitorie, ma non concepisce i
diritti come istanze che, in virtù della loro intrinseca natura, precedono e limitano il
potere della volontà popolare espressa nei momenti di politica costituzionale. Il popolo
costituente mantiene, secondo l'autore, la possibilità di riformare o riscrivere i
diritti fondamentali contenuti nel Bill of Rights. Se al limite ipotizza Ackerman
un giorno il revival religioso che ha attualmente investito il mondo arabo dovesse
arrivare in Occidente e scatenare negli Stati Uniti un movimento costituzionale per la
revisione del Primo emendamento, che conducesse all'introduzione di un nuovo emendamento
che elevi il cristianesimo a religione di Stato, un giudice della Corte suprema avrebbe il
dovere di considerare tale emendamento parte integrante della Costituzione. La
plausibilità di questa interpretazione sulla quale ci soffermeremo in seguito
troverebbe fondamento, secondo Ackerman, nel silenzio del testo costituzionale: se
la Costituzione tedesca esplicitamente esclude la revisione costituzionale dei diritti
fondamentali, quella americana tace al riguardo e ciò perché in America, a differenza
che in Germania sostiene l'autore «il Popolo è la fonte dei diritti».
«In questo senso, la Costituzione del dualista è prima democratica, e poi protettrice
dei diritti».
5. Una lettura della Costituzione americana legata rigorosamente al testo sembra
avvalorare l'idea che essa sia rimasta inalterabilmente fedele ai principi e alle regole
originariamente stabiliti (200 anni di storia e soli ventisei emendamenti!), sicché
sarebbe lecito considerarla come la più antica Costituzione al mondo. Andando oltre una
lettura ipertestualista, tuttavia si arriva a un quadro diverso e al tempo stesso più
problematico. Alla luce di un approccio pluralista, che unisca alla lezione del testo la
lezione della storia, dei precedenti, quale quello utilizzato da Ackerman, emerge la
necessità di tenere distinte tre diverse epoche costituzionali: il periodo della
Fondazione, quello della Ricostruzione e il New Deal. Nel momento stesso in cui hanno
portato mutamenti sostanziali nei valori fondamentali che ispiravano la Costituzione
nel primo caso segnando il passaggio da una debole confederazione a un'unione
federale, nel secondo con la fine della schiavitù e l'inizio della libertà dei neri, nel
terzo con l'abbandono del laissez faire e l'avvento di uno Stato attivista e pianificatore
ciascuno di questi momenti ha imposto una trasformazione delle procedure di
revisione costituzionale: i federalisti alterarono le regole del gioco previste dagli
articoli della Confederazione, la Ricostruzione e il New Deal operarono al di fuori delle
procedure previste dall'art. V della Costituzione.
L'art. V della Costituzione americana disegna un complesso meccanismo di revisione
costituzionale in cui il potere di proporre emendamenti è assegnato al Congresso su
richiesta dei due terzi delle Camere, oppure a un'Assemblea, convocata dal Congresso su
richiesta dei due terzi dei legislativi degli Stati. In ognuno dei due casi gli
emendamenti hanno validità solo se ratificati dai parlamenti dei tre quarti degli Stati o
dai tre quarti dell'Assemblea, riunita su proposta degli Stati. We the People.
Transformations descrive in modo estremamente accurato sotto il profilo storico la strada
alternativa scelta dagli attori della Ricostruzione e del New Deal. «Come i padri
fondatori prima di loro», scrive Ackerman, «questi riformatori legittimarono
consapevolmente le loro iniziative attraverso una serie di appelli istituzionali non
convenzionali al popolo». In ciascuno di questi casi esemplari i protagonisti non
cercarono l'abbattimento totale e radicale dell'edificio esistente alla stregua dei
rivoluzionari bolscevichi (il paragone è di Ackerman) ma una sua interna
trasformazione rivoluzionaria. Rispetto all'art. V della Costituzione, la strada descritta
da Ackerman vede attori delle «trasformazioni» costituzionali più significative
avvenute nella storia americana non gli Stati, ma il Congresso, il presidente e la Corte
suprema. Sia nel periodo della Ricostruzione che nel New Deal si assistette a una sorta di
gioco di forza tra i poteri dello Stato federale, un gioco il cui destino fu sempre
determinato in modo fondamentale dalla mobilitazione del consenso popolare, misurato in
parte dal clima generale dell'opinione pubblica, in parte dagli stessi risultati
elettorali.
Nel caso della Ricostruzione, gli ipertestualisti coerenti sostiene Ackerman
dovrebbero rifiutare il Tredicesimo e il Quattordicesimo emendamento. A rigore infatti
essi non potrebbero considerarsi quali esito di una proposta dei due terzi del Congresso,
poi ratificata dai tre quinti degli Stati, ma andrebbero piuttosto visti quali
«emendamenti-simulacro», prodotti di un atto di forza esercitato sui recalcitranti Stati
del Sud. Il Quattordicesimo emendamento fu espressione della volontà dei deputati
repubblicani di varare riforme costituzionali in grado di consolidare l'impegno della
nazione verso i valori dell'eguaglianza e della libertà. Sostenuti dai risultati
favorevoli delle elezioni del 1866 essi riuscirono a vincere le ostilità del presidente
Johnson e a costringere con un'azione ai limiti della legalità gli Stati del Sud, posti
in stato d'assedio, ad adottare il Quattordicesimo emendamento. Solo l'ascesa di Grant
alla carica di presidente nel 1868 e il predominio dei repubblicani in seno al Congresso e
alla Corte suprema fecero in seguito passare del tutto in secondo piano la questione della
legittimità del Quattordicesimo emendamento, concentrando tutte le controversie sul
problema della sua corretta interpretazione.
Se la Ricostruzione diede vita ad amendment simulacra, il New Deal inaugurò la via
moderna alla revisione costituzionale, ovvero la strada degli amendments analogues,
introducendo due significative variazioni: il ruolo centrale della leadership
presidenziale e lo strumento dei transformative appointments, ovvero di nuove nomine di
giudici della Corte esplicitamente mirate a mutare, per così dire, la composizione
«politica» della stessa.
Roosevelt poté lanciare quelle riforme che avrebbero rafforzato l'amministrazione dello
Stato centrale e i suoi poteri in ambito economico grazie all'appoggio dei deputati
democratici e al sostegno dei risultati positivi ottenuti nelle elezioni del 1936.
Ostacolato dalla Corte suprema, nella primavera del 1937 riuscì a costringerla a un
rapido mutamento di posizione (switch in time), mediante la minaccia di packing. Un forte
consenso popolare permise, così, a Roosevelt di instaurare e consolidare un nuovo regime
costituzionale senza emendare la Costituzione nelle forme previste dall'art. V, grazie
alla prassi dei transformative appointments. La nomina alla carica di giudici
costituzionali di persone favorevoli alle iniziative politiche dei democratici, favorì,
infatti, in seguito, la produzione di sentenze innovative che garantirono piena
legittimazione sul piano costituzionale al nuovo corso rooseveltiano.
La legittimità di tali eventi costituzionali trasformativi riusciti ai quali altri
si possono accostare come tentativi falliti deve essere ricondotta alla capacità
dei loro protagonisti di riattivare quel potere costituente che secondo Ackerman
rimane, al di là delle procedure esplicitamente previste dalla Carta
costituzionale, una risorsa implicita di trasformazione della Costituzione, e insieme alla
loro volontà di operare all'interno della struttura costituzionale esistente. Nessuno dei
«momenti costituzionali» descritti può essere ridotto, infatti, a «mero atto di
arbitrio»: «Se i federalisti, i repubblicani e i democratici non rispettarono le regole
e i principi stabiliti, sperimentarono comunque nell'esercizio della loro autorità di
revisione potenti freni istituzionali». Essi rispettarono nelle loro mosse una precisa
sequenza, secondo un analogo «modello in cinque fasi»: 1) segnalarono la necessità di
un mutamento; 2) proposero delle riforme; 3) le sottoposero alla duplice prova costituita
dalla necessità di ottenere il consenso popolare e insieme superare le riserve avanzate
da altri organi istituzionali; 4) ratificarono e infine 5) consolidarono la loro autorità
sul piano costituzionale. In particolare, sia i repubblicani del periodo della
Restaurazione, sia i democratici del New Deal, combinarono la separazione dei poteri a
vittorie elettorali decisive al fine di conquistare l'autorità necessaria a parlare con
la voce del popolo.
Ognuno dei momenti costituzionali analizzati presenta, secondo Ackerman, delle linee di
tendenza comuni: il nazionalismo, nel senso del consolidarsi dell'importanza dello Stato
centrale sugli Stati federali e del rafforzamento dell'identità americana come nazione e
insieme un carattere progressivamente più inclusivo della cittadinanza. Con il
consolidamento del governo federale, durante la Ricostruzione e il New Deal, d'altra
parte, l'asse dei rapporti tra i poteri subisce uno spostamento, con il passaggio dalla
dialettica della divisione dei poteri tra Stato federale e Stati federati a quella della
separazione dei poteri tra Congresso, presidente e Corte suprema.
6. Se ciò che sembra venir fuori dal primo e ancor più dal secondo volume di We the
People è principalmente un enorme sforzo di ricostruzione della storia americana, a un
esame più approfondito emerge piuttosto il fitto intreccio tra teoria e storia. Alla
storia Ackerman fa appello come se la storia fosse in grado di parlare da sola
per sostenere la validità di una teoria costituzionale nella quale sia preservata,
all'interno di società complesse, la possibilità di quei momenti eccezionali nei quali i
cittadini escono dal loro privatismo e si riappropriano di un potere decisionale
altrimenti demandato a una prassi politica dominata dalla logica del compromesso e della
competizione tra i gruppi di interesse.
La via «moderna» alla revisione costituzionale, la strada percorsa dai protagonisti del
New Deal, rimane un'opzione aperta. La «fuga» dal testo costituzionale che essa
presuppone non è, tuttavia, priva di difetti e possibili esiti degenerativi, che non
sfuggono all'autore. Nulla garantisce, infatti, che il modello della leadership
presidenziale, inaugurato da Roosevelt, possa in futuro divenire pretesto per l'azione
politica di leader più avventurosi e meno legittimati dal consenso popolare. Lo scarso
peso del Congresso e il ruolo determinante del presidente nella nomina dei giudici della
Corte suprema configurano il rischio di una non auspicabile deriva elitista della
«moderna» procedura di revisione costituzionale. Non sottovalutabili, d'altra parte,
sono altri inconvenienti, primo tra tutti l'impossibilità di tradurre immediatamente in
un testo le trasformazioni costituzionali avvenute al di fuori dell'art. V. Il loro
significato corre così il pericolo di rimanere ambiguo, fonte di confusione, e oggetto
della più ampia discrezionalità interpretativa della Supreme Court, dal momento che a
quest'ultima viene in ultima analisi delegato il compito di registrare i mutamenti
intervenuti e operare una sintesi tra i diversi momenti costituzionali attraverso le
proprie sentenze, sentenze destinate a divenire interpretazione ultima e definitiva della
Costituzione.
Alla luce di queste considerazioni Ackerman propone una riforma dell'art. V che faciliti l'introduzione
di quelle riforme costituzionali di volta in volta necessarie ad adeguare il testo a
realtà, valori e situazioni mutate. La sua proposta è articolata in modo da consentire
al presidente e al Congresso di sottoporre le potenziali riforme costituzionali
direttamente al popolo, ed è così formulata: «Durante il suo secondo mandato, il
presidente può sottoporre all'esame del Congresso degli Stati Uniti una proposta di
emendamento costituzionale. Se due terzi di entrambe le Camere l'approvano, essa sarà
sottoposta al giudizio degli elettori durante le due successive elezioni presidenziali in
ciascuno Stato; se i tre quinti dei votanti partecipanti a ciascuna di queste elezioni
approveranno l'emendamento, esso sarà ratificato in nome del popolo degli Stati Uniti».
Si tratta di una procedura che presenta qualche somiglianza con l'attuale art. V, ma vede
come attore principale delle riforme costituzionali il popolo e non più gli Stati. Essa
dà priorità all'identità nazionale su quella federale, coerentemente con la convinzione
che la lotta per la prevalenza tra cittadinanza statale e cittadinanza nazionale si sia
risolta con la Ricostruzione e il New Deal: da allora, secondo Ackerman, il «più
persistente leitmotiv» della storia americana sarebbe rappresentato dal desiderio di
vedere affermata la volontà della nazione sopra quella degli Stati.
7. Come accade per quasi tutte le opere ambiziose e innovative, accanto ai suoi molti
meriti, We the People offre spunto a numerosi rilievi critici sia sul piano della
ricostruzione storica, sia su quello della costruzione teorica.
Sul piano ricostruttivo, una delle critiche più frequentemente sollevate dalle recensioni
uscite dopo la pubblicazione del primo volume alla quale Ackerman sembra non
rispondere nel secondo è relativa alla genealogia della sua teoria dualista della
democrazia. Che gli autori del Federalista avessero abbracciato favorevolmente l'idea di
procedure di revisione costituzionale altre rispetto a quelle esplicitamente previste
dalla Costituzione è apparso a molti insostenibile se non sulla base di una lettura poco
fedele del testo e delle intenzioni stesse dei federalisti, che ignora le paure suscitate
dal popolo nei padri fondatori. Madison, per fare solo un esempio, era tutt'altro che
attratto dalla mobilitazione e deliberazione popolare e auspicava anzi che i meccanismi
istituzionali fossero congegnati in modo da ridurre al minimo le circostanze il cui il
popolo come tale dovesse essere consultato direttamente. A differenza di Jefferson, che
aveva avanzato una proposta di periodica revisione della Costituzione, Madison riteneva
dannoso ritoccare o riformare frequentemente il testo costituzionale, perché ciò avrebbe
finito da un lato per privare il governo «di quella venerazione che il tempo finisce col
porre su ogni cosa e senza la quale anche il governo più saggio e più libero non sarebbe
abbastanza stabile», dall'altro «per turbare la tranquillità pubblica agitando
eccessivamente le passioni».
Un ulteriore difetto dell'argomentazione storica ackermaniana deriva dal suo tentativo di
legittimare attraverso una rilettura di alcune tra le più discusse sentenze della Corte
suprema il ruolo «preservazionista» che a essa egli attribuisce. Ackerman ricostruisce
qui in modo inconsueto casi quali Scott vs Sandford, Lochner vs New York e Brown vs Board
of Education of Topeka, per arrivare a dimostrare che in nessuno di questi episodi la
Corte ha mai svolto una funzione «creativa» e «innovativa» del diritto, distaccandosi
dal ruolo di interprete della volontà popolare espressa nei «momenti costituzionali».
La sentenza Lochner, per esempio, con la quale la Corte invalidò nel 1905 una legge
statale in favore dell'introduzione della limitazione dell'orario di lavoro sulla base
della motivazione che essa configurava una violazione della libertà di contratto, viene
letta da Ackerman quale espressione dell'intenzione della Supreme Court di farsi
interprete del significato degli emendamenti introdotti nel periodo della Ricostruzione,
intendendoli come un'indicazione della volontà dello Stato federale di garantire certi
diritti fondamentali, tra i quali la libertà di contratto e il diritto alla proprietà
privata. Un argomento poco convincente, perché la principale preoccupazione di coloro che
proposero gli emendamenti della Ricostruzione era, piuttosto, consolidare la vittoria
ottenuta dagli Stati del Nord nella guerra civile garantendo eguali diritti agli schiavi
liberati e quindi limitando il potere degli Stati di interferire nel godimento di quegli
stessi diritti. In questo senso la Corte si allontanò da un'interpretazione coerente
della volontà popolare espressa sia dalla Costituzione che dai mutamenti introdotti negli
anni Sessanta del secolo scorso. Le ragioni della sua decisione vanno rintracciate, più
plausibilmente, nell'ostilità allora nutrita dai giudici verso la «legislazione di
classe».
In ogni caso, il problema vero è qui la visione del ruolo giocato dalla Corte suprema
nella storia americana. Si ha l'impressione, infatti, che Ackerman tenti di fondare la
propria posizione normativa su un traballante argomento storico.
Un terzo e ultimo appunto che si può muovere sotto il profilo storico all'affresco
disegnato in We the People è la riproposizione di una visione consensualista e
armonicista della società americana. Da un lato, infatti, si continua a presentare qui l'immagine
di un'America dominata da un'unica tradizione egemone, non più quella liberale
come in Hartz bensì quella del repubblicanesimo liberale, dall'altro si dà per
scontata la soluzione della questione della supremazia della cittadinanza nazionale su
quella federale. Se sotto il primo profilo sarebbe stato opportuno considerare quelle
analisi storiche che hanno recentemente dimostrano il peso avuto dalla presenza negli
Stati Uniti di una molteplicità di tradizioni politiche tra loro anche fortemente in
contrasto, dall'altro si sarebbe probabilmente dovuto tenere in più seria considerazione
la ripresa contemporanea del dibattito sul federalismo negli Stati Uniti, che pare per
certi versi rimettere in discussione proprio la supremazia del governo federale. L'introduzione
del sistema dei block grants, ovvero di finanziamenti agli Stati dispensati dal governo
federale senza indicazione specifica e vincolante dei programmi di welfare a cui
destinarli come era avvenuto in passato è andata evidentemente in direzione
di quel «ritorno del potere agli Stati», auspicato soprattutto dai repubblicani.
8. Passando dalla storia alla teoria, il lavoro di Ackerman presenta quattro punti deboli:
il primo relativo alla convivenza tra cittadinanza repubblicana e cosiddetta «politica
normale»; il secondo concernente la validità del ricorso al referendum quale strumento
di politica costituzionale alla luce di alcune caratteristiche tipiche dell'attuale
sistema politico americano; il terzo riguardante l'opportunità di introdurre negli Stati
Uniti d'America un Bill of Rights non emendabile, sul modello tedesco, e la possibilità
di modificare alcuni degli attuali emendamenti; il quarto legato al ruolo assegnato alla
Corte suprema.
Per quanto concerne il primo punto, Ackerman sottovaluta gli effetti prodotti dalla
«politica normale» sulla cittadinanza, e, più in particolare, l'esito corrosivo che la
politica dei gruppi di interesse può avere su quelle capacità e motivazioni civiche che
sole possono consentire l'attivazione della mobilitazione e partecipazione politica
necessarie per passare dal normal lawmaking track a un higher lawmaking track, in cui i
cittadini diventino improvvisamente capaci di formulare giudizi ponderati e di sospendere
la ricerca del loro interesse personale. Il disinteresse per la politica, l'alta
percentuale di astensionismo durante le elezioni, gli squilibri esistenti nell'accesso ai
finanziamenti per la conduzione delle campagne elettorali, l'ignoranza e la
disinformazione che caratterizzano la politica normale possono veramente lasciare spazio a
momenti, seppure eccezionali, di risveglio civico' We the People risponde a questa
obiezione facendo appello al referendum come strumento che in sé potrebbe aiutare a
innescare un processo di deliberazione e partecipazione pubblica: nell'essere chiamati a
decidere su una proposta del Primo emendamento costituzionale, i cittadini per ciò stesso
si trasformerebbero in «private citizens». E qui, tuttavia, in considerazione dei
risultati contraddittori che derivano dall'esperienza referendaria nei singoli Stati
americani sorge un ulteriore problema. Se, infatti, quanto accade nella politica statale
ha un qualche valore come laboratorio per la democrazia nazionale, le speranze di Ackerman
appaiono a dir poco ottimistiche. Per quanto ogni Stato rappresenti un po' una realtà a
sé per i diversi tipi di referendum ammessi e i particolari requisiti richiesti
per la loro validità la manipolazione dell'elettorato da parte di potenti gruppi
di interesse, il prevalere di passioni fortemente ostili verso i gruppi minoritari
(omosessuali, gruppi etnici), la tendenza a sovra-rappresentare coloro che hanno di più e
sotto-rappresentare coloro che hanno di meno sono alcuni dei dati più significativi
segnalati dalla maggior parte degli osservatori politici. L'introduzione di un referendum
costituzionale a livello nazionale potrebbe ottenere risultati vicini a quelli prospettati
dalla democrazia dualista ackermaniana solo se intervenissero delle riforme radicali,
quali: l'adozione di nuovi sistemi di finanziamento delle campagne elettorali, l'abolizione
del requisito di registrazione o altri simili ostacoli all'esercizio del voto e un
allargamento degli spazi e dei momenti di discussione e deliberazione pubblica.
Venendo al terzo dei punti teorici sollevati sopra, risulta quanto meno strano il modo in
cui Ackerman arriva a caldeggiare, nelle ultime pagine del suo primo volume, una riforma
del Bill of Rights tesa a trasformarlo in una carta dei diritti non emendabile. Dopo aver
ricordato l'esempio della Germania che al termine della seconda guerra mondiale ebbe il
buon senso di dichiarare «incostituzionali i tentativi di future maggioranze di
indebolire il loro impegno fondativo in difesa di un insieme di libertà fondamentali»,
per timore del ripetersi di eventi tristemente noti, l'autore conclude sostenendo che
sarebbe fiero se anche gli americani alla fine «mantenessero fede alle promesse contenute
nella Dichiarazione dei diritti introducendo dei diritti inalienabili all'interno della
loro Costituzione». Ora, se non stupisce il contenuto progressista del Bill of Rights da
lui auspicato date le posizioni espresse in Social Justice and the Liberal State
lascia invece perplessi l'idea di escludere la volontà popolare da questo ambito
decisionale. Non doveva, forse, la democrazia dualista costituire un terreno di
compromesso o incontro tra democratic monist e rights foundationalists' Perché
glorificare le opportunità che il sistema americano offre ai suoi cittadini di rivedere e
riformare la loro identità comune, se si intende sostenere la necessità di sottrarre
come propongono i rights foundationalists la sfera dei diritti alle
decisioni di potere costituente' Ackerman pare fare qui, a mio avviso, un passo indietro
ingiustificato sul piano teorico.
D'altra parte, ci si può chiedere se sia veramente plausibile l'idea che sulla base dell'attuale
Costituzione sarebbe possibile introdurre riforme costituzionali tali da stravolgere
diritti fondamentali come quelli affermati dal Primo emendamento e che la Corte suprema
non potrebbe eccepire sulla loro costituzionalità' È, infatti, possibile argomentare che
l'inviolabilità di alcuni diritti fondamentali deriva dalla loro natura stessa di
condizioni necessarie per la formazione del consenso democratico: sopprimere la libertà
di espressione o di associazione, per esempio, significherebbe mettere direttamente in
pericolo la vita della democrazia, anche all'interno di una concezione dualista della
democrazia. È questa nella sostanza la risposta del Rawls di Liberalismo politico, il
quale di fronte all'affermazione di Ackerman secondo la quale la Corte suprema non
potrebbe opporsi alla volontà popolare espressa nei momenti costituzionali, neanche se
ciò comportasse la sostituzione del Primo emendamento con il suo opposto, scrive: «La
Corte [...] potrebbe dire che un emendamento volto ad abolire il Primo e a sostituirlo con
il suo opposto contraddirebbe fin dalle fondamenta la tradizione costituzionale del più
antico regime democratico del mondo, e quindi non sarebbe valido. Questo significa che c'è
un blocco sulla Dichiarazione dei diritti e sugli altri emendamenti' C'è nel senso che l'uno
e gli altri sono convalidati da una lunga pratica storica», per cui l'abolizione o la
sostituzione degli attuali emendamenti costituirebbe per Rawls un vero e proprio
«collasso costituzionale».
Il quarto e ultimo punto teorico-problematico della costruzione ackermaniana è si
potrebbe dire il rompicapo per eccellenza all'interno della teoria costituzionale
americana: la funzione dei giudici. Nell'ambito del «moderno» schema di revisione
costituzionale, la Corte suprema deve sobbarcarsi compiti onerosi: accertare che si sia
verificato un «momento costituzionale», determinarne i contenuti specifici,
interpretarne il significato, operare una sintesi che lo renda coerente con la precedente
tradizione costituzionale e «preservi» la volontà espressa da We the People.
Il metodo interpretativo del giudice descritto in We the People è per molti aspetti
lontano da quello di Ercole nell'Impero del diritto di Ronald Dworkin: si prende qui,
infatti, spunto dalla storia e non dai testi filosofici e ci si impegna, inoltre, in una
conversazione reale tra diverse generazioni, in cui non si è liberi di giocare con le
astrazioni, ma ci si deve dimostrare piuttosto «esperti di casistica». Ciò nondimeno, l'impresa
dei giudici della Corte suprema rimane erculea e tale da godere di un ampio margine di
arbitrio. We the People affronta il problema degli eventuali abusi di potere del
giudiziario proponendo due riforme fondamentali: un nuovo higher lawmaking system, ovvero
come abbiamo visto una nuova procedura di revisione costituzionale, e al
tempo stesso l'approvazione delle nomine presidenziali alle cariche di giudici della Corte
mediante una maggioranza qualificata del Senato. Si tratta, credo, di una risposta
insufficiente, che sul piano della teoria è vulnerabile alle critiche di quanti
dal realismo giuridico ai Critical Legal Studies hanno sottolineato come le
decisioni dei giudici siano sempre, in qualche misura, anche decisioni politiche. Sarà
necessario, probabilmente, attendere il terzo volume, We the People. Interpretations, per
capire se l'idea appena accennata nel secondo volume di un humanistic
positivism, quale alternativa tanto al realismo quanto al formalismo giuridico, sia in
grado di fornire una teoria interpretativa coerente con quella concezione della
Costituzione come rule of law che Ackerman intende salvaguardare dagli esiti nichilisti
del pensiero post-moderno. Certo è come sottolinea Habermas che appare
abbastanza sorprendente l'ampio potere che questa teoria lascia nelle mani dei nove
giudici della Corte suprema, destinati ad assurgere, nei momenti di latenza della volontà
popolare, a «custodi di una prassi di autodeterminazione momentaneamente congelata».
Al di là delle possibili obiezioni e riserve, We the People offre, comunque, con la sua
teoria dualista della democrazia una prospettiva originale nella disputa interminabile tra
«democratici che ritengono nocive le costituzioni e costituzionalisti che percepiscono la
democrazia come una minaccia».
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