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Gigi Proietti e il Teatro Popolare


José Luis Sànchez-Martìn


Quando un visitatore straniero giunge in Italia, europeo, giapponese o americano che sia, dopo le frettolose e approssimative visite guidate ai musei e ai principali monumenti, se è soltanto un minimo curioso e non è soddisfatto di conoscere "l'italianità" unicamente attraverso pizze, spaghetti e lasagne, chiede quali siano i luoghi e gli appuntamenti dove poter incontrare la cultura italiana. Vorrebbe ascoltare concerti di musiche medievali e rinascimentali, brani di Monteverdi, Scarlatti, Cherubini, Respighi; quantomeno di Vivaldi. O magari uno spettacolo di canzoi popolari o danze tradizionali; almeno una tarantella, un mandolino.

Vorrebbe assistere a spettacoli di teatro antico o rinascimentale, a una rappresentazione della famosissima e internazionalmente apprezzata Commedia dell'Arte. Oppure conoscere aspetti culturali più moderni, per esempio farsi una "scorpacciata" del mitico cinema italiano. In definitiva, il visitatore ha quelle stesse ragionevolissime aspettative che un turista italiano vede soddisfatte quando visita un altro paese, anche quando insegue luoghi comuni come la Spagna tutta chitarra e Flamenco o la Grecia tutta tragedia e Sirtaki.

Purtroppo, in Italia la sua curiosotà non viene soddisfatta. Le danze rinascimentali italiane e la Commedia dell'Arte sono più facili da incontrare a Parigi che a Roma. Il teatro antico si vede soltanto, come una rarità, su qualche palcoscenico naturale situato all'estremo sud della penisola. La musica italiana del passato è appannaggio di rari, isolati e aristocratici festival. Quella popolare o folkloristica rimane relegata nelle parrocchie o è appannaggio di caritatevoli iniziative locali. Diversamente da quasi tutti i paesi del mondo, in Italia non esistono un Teatro Nazionale, una compagnia di Danza Nazionale, una compagnia Nazionale di Danze Popolari e Folkloristiche e via dicendo. La Cineteca Nazionale non esiste in quanto ente culturale che propone in una propria sede rassegne e incontri.

Non si sa nemmeno dove andare a cercare una cultura popolare italiana che non faccia interamente riferimento alla televisione. Sembra che gli unici eventi in cui gli italiani di oggi si riconoscano siano le onnipresenti sfilate di moda, le partite di calcio della Nazionale, il festival di San Remo e le regate di vela dell'America's Cup. Perché in Italia alla cultura, con la maiuscola o la minuscola che sia, a meno che non costituisca un evento mondano o di prestigio, non viene data nessuna importanza o rilievo. E questo è molto grave, perché l'identità di un popolo, di una nazione, è la sua tradizione culturale, cioè dal rapporto che stabilisce nel presente con le proprie peculiarità, con le proprie radici, con il proprio passato.

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Si può scegliere di trascurarla e perderla, o di "mummificarla" e metterla in un museo. In entrambe i casi ciò comporta una debolezza e una inconsistenza che rende una nazione una terra di nessuno, povera di risorse e di ricchezze umane, facile preda di colonialismi culturali e in balia di mode e dettami altrui. Che rende un Paese soltanto un agglomerato di lavoratori e consumatori, una rete di banche, industrie e istituzioni. Oppure si può scegliere di mantenerla viva, organica e presente, rielaborandola continuamente in relazione al proprio tempo, alle nuove influenze e agli incontri con altre culture, facendo propria, nel presente e nella costruzione del futuro, quella che Pasolini definiva la "scandalosa forza rivoluzionaria del passato".

Questo vuoto, questo mancato rapporto vitale e dinamico con la complessità della propria tradizione culturale, è particolarmente evidente nel caso specifico del teatro. Infatti sono pochissimi gli artisti che oggi possono essere considerati sia eredi dinamici di una tradizione culturale italiana, che non sia quella borghese ottocentesca e decadente, sia innovatori ed espressione del nostro tempo, fautori quindi di un vero teatro popolare contemporaneo, "che parla all'anima di un popolo", come scriveva il grande attore Sergio Tofano, nonché autore, sotto lo pseudonimo di Sto, delle vignette e del teatro del Signor Bonaventura. E' d'obbligo mettere a capo di questa esigua lista il premio Nobel Dario Fo, che ha rielaborato in particolare le tradizioni linguistiche ed espressive del nord nei suoi celeberrimi "Misteri Buffi" e, per quanto riguarda le tradizioni campane, il travolgente cantante-attore Peppe Barra con, ad esempio, le sue rielaborazioni di Pulcinella o del seicentesco "Lu Cunto de li Cunti" del Basile.

Tra i più giovani, in qualche modo erede di Fo ma dotato di una sua propria e peculiare personalità, va annoverato Marco Paolini con la sua potenza narrativa, evocativa e ammaliante, i cui racconti dell'Italia degli ultimi trent'anni, veri o falsamente autobiografici, si muovono tra ironia e comicità da una parte e alto impegno emotivo e civile dall'altra.

Tra la Padania e la Campania, con una sua popolaresca tradizione che è anche un crogiuolo di varie e antiche culture, si trova Roma. E nella capitale, al Teatro Olimpico, in questi giorni è possibile godere della magia teatrale di un autentico "romano de Roma" che appartiene di diritto alla categoria di artisti italiani a cui ci riferiamo: Gigi Proietti, che con la riproposizione del suo divertente e accattivante "Prove per un recital" ci ha inevitabilmente provocato, per contrasto, queste amare riflessioni. Proietti è un artista che non ha bisogno di presentazioni, essendo molto conosciuto e amato dal grande pubblico sia per i suoi grandi successi televisivi, "Il maresciallo Rocca" e "L'avvocato Porta", la cui carta vincente è stata la particolare carica umana che ha saputo infondere ai suoi personaggi, sia per la sua più che trentennale e poliedrica carriera teatrale, come regista, cantante, attore e showman.

In questa sua ultima fatica torna alla formula della serata composita o "recital", già sperimentato nello spettacolo "A me gli occhi, please" che più di vent'anni fa diede l'avvio alla sua grande popolarità, e dove nelle vesti di "intrattenitore" a tutto tondo, accompagnato questa volta da una efficace orchestra di otto elementi, Proietti canta, balla, scherza col pubblico, propone parodie, sketch e macchiette, nonché qualche momento a sorpresa di serio brivido. La nobiltà e la classe con cui da sempre questo artista è popolare e romano, lo collegano non soltanto alle varie tradizioni, da Plauto a Petrolini, dalla Commedia dell'Arte a Sordi e Fabrizi, ma anche alle venerande figure del Belli e di Trilussa, riscattando e ridando così dignità al romanesco e alla comicità arguta di tradizione romana, impantanata e degradata nell'ultimo ventennio nel sottobosco cine-televisivo che va da Alvaro Vitali al peggiore Pippo Franco, passando dal "monnezza" di Tomas Milian.

Il lavoro di Proietti è un chiaro esempio di quel rapporto dinamico con la tradizione a cui prima ci riferivamo. Ne sia prova lo stretto legame che ha stabilito coll'amato Petrolini, del quale dice: "Con tutto il rispetto, Petrolini è stato anche reinventato da me, e non solo imitato. Lui era il dio della pausa, mentre io col suo repertorio o coi suoi modi d'esprimersi affondo sempre il pedale della velocità, dei ritmi sostenuti."

Tornando allo spettacolo in cartellone, la soluzione di presentarlo semplicemente come una "prova", alla quale mancano addirittura le tanto attese scenografie, è uno espediente semplice ed efficace perché diventi un contenitore in cui tutto può succedere e che permette a Proietti di stabilire un rapporto informale, confidenziale e complice col pubblico, al punto di permettersi di coinvolgerlo facilmente in un gioco in cui si percorrono i vari tipi di applauso possibili: "L'idea base è quella di ammettere alle prove tutti quelli che ti chiedono di dare una sbirciata all'ultimo spettacolo che hai in cantiere. In genere sono in molti a domandare: posso venire? Mi fai assistere a uno dei collaudi? Si può capire da vicino quello che succede prima del debutto? E io adesso rispondo: come no! Accomodatevi tutti." E il pubblico non solo si accomoda e si diverte, ma sente anche che, indipendentemente dal fatto che sia milanese, romano o palermitano, ciò che succede sul palco gli appartiene, è parte della sua storia.

Peccato che un artista come Proietti, con un tale bagaglio tecnico, culturale e teatrale, capace di condurre il pubblico dove e come vuole, non osi di più e si adagi sul successo senza correre rischi. Se nel famoso spettacolo al Teatro Tenda di più di vent'anni fa sembrava che di diritto si fosse appropriato di quel palcoscenico con una prorompenza animalesca, il che ci faceva sentire che poteva accadere qualunque cosa, oggi è un rassicurante e compiacente padrone di casa. Ci auguriamo che Proietti partecipi con queste sue quasi uniche e magistrali caratteristiche di uomo di teatro completo alla fondazione di un rinnovato Teatro Popolare, andando oltre i recital antologici e magari confrontandosi a modo suo con grandi classici come Moliere, Shakespeare o Goldoni, visto che alla domanda "Cosa vuol dire Teatro Popolare. Shakespeare ci rientra?" lui ha risposto, "Scherziamo? Assolutamente sì. Potrei dire che, laddove c'è un pubblico eterogeneo che durante lo spettacolo diventa omogeneo, e si gode, starei per dire, una certa democraticità, beh, quello è teatro popolare."

Ci piace concludere con una proposta al sindaco di Roma: affianchi all'interessante e innovatrice direzione artistica di Mario Martone, che ha portato finalmente un po' di aria fresca e contemporanea nella capitale, una sezione del Teatro di Roma che si dedichi alla ricerca e alla produzione di un Nuovo Teatro Popolare di qualità, che una città europea come Roma avrebbe l'obbligo di permettersi e che soltanto un direttore artistico come Gigi Proietti saprebbe garantire.

 

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