Quando un visitatore straniero giunge in Italia, europeo, giapponese o americano
che sia, dopo le frettolose e approssimative visite guidate ai musei e ai principali
monumenti, se è soltanto un minimo curioso e non è soddisfatto di conoscere
"l'italianità" unicamente attraverso pizze, spaghetti e lasagne, chiede quali
siano i luoghi e gli appuntamenti dove poter incontrare la cultura italiana. Vorrebbe
ascoltare concerti di musiche medievali e rinascimentali, brani di Monteverdi, Scarlatti,
Cherubini, Respighi; quantomeno di Vivaldi. O magari uno spettacolo di canzoi popolari o
danze tradizionali; almeno una tarantella, un mandolino.
Vorrebbe assistere a spettacoli di teatro antico o rinascimentale, a una
rappresentazione della famosissima e internazionalmente apprezzata Commedia dell'Arte.
Oppure conoscere aspetti culturali più moderni, per esempio farsi una
"scorpacciata" del mitico cinema italiano. In definitiva, il visitatore ha
quelle stesse ragionevolissime aspettative che un turista italiano vede soddisfatte quando
visita un altro paese, anche quando insegue luoghi comuni come la Spagna tutta chitarra e
Flamenco o la Grecia tutta tragedia e Sirtaki.
Purtroppo, in Italia la sua curiosotà non viene soddisfatta. Le danze rinascimentali
italiane e la Commedia dell'Arte sono più facili da incontrare a Parigi che a Roma. Il
teatro antico si vede soltanto, come una rarità, su qualche palcoscenico naturale situato
all'estremo sud della penisola. La musica italiana del passato è appannaggio di rari,
isolati e aristocratici festival. Quella popolare o folkloristica rimane relegata nelle
parrocchie o è appannaggio di caritatevoli iniziative locali. Diversamente da quasi tutti
i paesi del mondo, in Italia non esistono un Teatro Nazionale, una compagnia di Danza
Nazionale, una compagnia Nazionale di Danze Popolari e Folkloristiche e via dicendo. La
Cineteca Nazionale non esiste in quanto ente culturale che propone in una propria sede
rassegne e incontri.
Non si sa nemmeno dove andare a cercare una cultura popolare italiana che non faccia
interamente riferimento alla televisione. Sembra che gli unici eventi in cui gli italiani
di oggi si riconoscano siano le onnipresenti sfilate di moda, le partite di calcio della
Nazionale, il festival di San Remo e le regate di vela dell'America's Cup. Perché in
Italia alla cultura, con la maiuscola o la minuscola che sia, a meno che non costituisca
un evento mondano o di prestigio, non viene data nessuna importanza o rilievo. E questo è
molto grave, perché l'identità di un popolo, di una nazione, è la sua tradizione
culturale, cioè dal rapporto che stabilisce nel presente con le proprie peculiarità, con
le proprie radici, con il proprio passato.

Si può scegliere di trascurarla e perderla, o di "mummificarla" e metterla
in un museo. In entrambe i casi ciò comporta una debolezza e una inconsistenza che rende
una nazione una terra di nessuno, povera di risorse e di ricchezze umane, facile preda di
colonialismi culturali e in balia di mode e dettami altrui. Che rende un Paese soltanto un
agglomerato di lavoratori e consumatori, una rete di banche, industrie e istituzioni.
Oppure si può scegliere di mantenerla viva, organica e presente, rielaborandola
continuamente in relazione al proprio tempo, alle nuove influenze e agli incontri con
altre culture, facendo propria, nel presente e nella costruzione del futuro, quella che
Pasolini definiva la "scandalosa forza rivoluzionaria del passato".
Questo vuoto, questo mancato rapporto vitale e dinamico con la complessità della
propria tradizione culturale, è particolarmente evidente nel caso specifico del teatro.
Infatti sono pochissimi gli artisti che oggi possono essere considerati sia eredi dinamici
di una tradizione culturale italiana, che non sia quella borghese ottocentesca e
decadente, sia innovatori ed espressione del nostro tempo, fautori quindi di un vero
teatro popolare contemporaneo, "che parla all'anima di un popolo", come scriveva
il grande attore Sergio Tofano, nonché autore, sotto lo pseudonimo di Sto, delle vignette
e del teatro del Signor Bonaventura. E' d'obbligo mettere a capo di questa esigua lista il
premio Nobel Dario Fo, che ha rielaborato in particolare le tradizioni linguistiche ed
espressive del nord nei suoi celeberrimi "Misteri Buffi" e, per quanto riguarda
le tradizioni campane, il travolgente cantante-attore Peppe Barra con, ad esempio, le sue
rielaborazioni di Pulcinella o del seicentesco "Lu Cunto de li Cunti" del
Basile.
Tra i più giovani, in qualche modo erede di Fo ma dotato di una sua propria e
peculiare personalità, va annoverato Marco Paolini con la sua potenza narrativa,
evocativa e ammaliante, i cui racconti dell'Italia degli ultimi trent'anni, veri o
falsamente autobiografici, si muovono tra ironia e comicità da una parte e alto impegno
emotivo e civile dall'altra.
Tra la Padania e la Campania, con una sua popolaresca tradizione che è anche un
crogiuolo di varie e antiche culture, si trova Roma. E nella capitale, al Teatro Olimpico,
in questi giorni è possibile godere della magia teatrale di un autentico "romano de
Roma" che appartiene di diritto alla categoria di artisti italiani a cui ci
riferiamo: Gigi Proietti, che con la riproposizione del suo divertente e accattivante
"Prove per un recital" ci ha inevitabilmente provocato, per contrasto, queste
amare riflessioni. Proietti è un artista che non ha bisogno di presentazioni, essendo
molto conosciuto e amato dal grande pubblico sia per i suoi grandi successi televisivi,
"Il maresciallo Rocca" e "L'avvocato Porta", la cui carta vincente è
stata la particolare carica umana che ha saputo infondere ai suoi personaggi, sia per la
sua più che trentennale e poliedrica carriera teatrale, come regista, cantante, attore e
showman.
In questa sua ultima fatica torna alla formula della serata composita o
"recital", già sperimentato nello spettacolo "A me gli occhi, please"
che più di vent'anni fa diede l'avvio alla sua grande popolarità, e dove nelle vesti di
"intrattenitore" a tutto tondo, accompagnato questa volta da una efficace
orchestra di otto elementi, Proietti canta, balla, scherza col pubblico, propone parodie,
sketch e macchiette, nonché qualche momento a sorpresa di serio brivido. La nobiltà e la
classe con cui da sempre questo artista è popolare e romano, lo collegano non soltanto
alle varie tradizioni, da Plauto a Petrolini, dalla Commedia dell'Arte a Sordi e Fabrizi,
ma anche alle venerande figure del Belli e di Trilussa, riscattando e ridando così
dignità al romanesco e alla comicità arguta di tradizione romana, impantanata e
degradata nell'ultimo ventennio nel sottobosco cine-televisivo che va da Alvaro Vitali al
peggiore Pippo Franco, passando dal "monnezza" di Tomas Milian.
Il lavoro di Proietti è un chiaro esempio di quel rapporto dinamico con la tradizione
a cui prima ci riferivamo. Ne sia prova lo stretto legame che ha stabilito coll'amato
Petrolini, del quale dice: "Con tutto il rispetto, Petrolini è stato anche
reinventato da me, e non solo imitato. Lui era il dio della pausa, mentre io col suo
repertorio o coi suoi modi d'esprimersi affondo sempre il pedale della velocità, dei
ritmi sostenuti."
Tornando allo spettacolo in cartellone, la soluzione di presentarlo semplicemente come
una "prova", alla quale mancano addirittura le tanto attese scenografie, è uno
espediente semplice ed efficace perché diventi un contenitore in cui tutto può succedere
e che permette a Proietti di stabilire un rapporto informale, confidenziale e complice col
pubblico, al punto di permettersi di coinvolgerlo facilmente in un gioco in cui si
percorrono i vari tipi di applauso possibili: "L'idea base è quella di ammettere
alle prove tutti quelli che ti chiedono di dare una sbirciata all'ultimo spettacolo che
hai in cantiere. In genere sono in molti a domandare: posso venire? Mi fai assistere a uno
dei collaudi? Si può capire da vicino quello che succede prima del debutto? E io adesso
rispondo: come no! Accomodatevi tutti." E il pubblico non solo si accomoda e si
diverte, ma sente anche che, indipendentemente dal fatto che sia milanese, romano o
palermitano, ciò che succede sul palco gli appartiene, è parte della sua storia.
Peccato che un artista come Proietti, con un tale bagaglio tecnico, culturale e
teatrale, capace di condurre il pubblico dove e come vuole, non osi di più e si adagi sul
successo senza correre rischi. Se nel famoso spettacolo al Teatro Tenda di più di
vent'anni fa sembrava che di diritto si fosse appropriato di quel palcoscenico con una
prorompenza animalesca, il che ci faceva sentire che poteva accadere qualunque cosa, oggi
è un rassicurante e compiacente padrone di casa. Ci auguriamo che Proietti partecipi con
queste sue quasi uniche e magistrali caratteristiche di uomo di teatro completo alla
fondazione di un rinnovato Teatro Popolare, andando oltre i recital antologici e magari
confrontandosi a modo suo con grandi classici come Moliere, Shakespeare o Goldoni, visto
che alla domanda "Cosa vuol dire Teatro Popolare. Shakespeare ci rientra?" lui
ha risposto, "Scherziamo? Assolutamente sì. Potrei dire che, laddove c'è un
pubblico eterogeneo che durante lo spettacolo diventa omogeneo, e si gode, starei per
dire, una certa democraticità, beh, quello è teatro popolare."
Ci piace concludere con una proposta al sindaco di Roma: affianchi all'interessante e
innovatrice direzione artistica di Mario Martone, che ha portato finalmente un po' di aria
fresca e contemporanea nella capitale, una sezione del Teatro di Roma che si dedichi alla
ricerca e alla produzione di un Nuovo Teatro Popolare di qualità, che una città europea
come Roma avrebbe l'obbligo di permettersi e che soltanto un direttore artistico come Gigi
Proietti saprebbe garantire.