Caffe' Europa
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La democrazia liberale nella società globale


Dennis F. Thompson*


Questo saggio appare sul numero 1 della Nuova Serie della rivista Filosofia e Questioni Pubbliche. Per ulteriori informazioni potete contattare Luiss Edizioni all'indirizzo e-mail edizioni@luiss.it

*Questo è il testo della prima Malagodi Lecture, tenuta a Siena il 28 ottobre 1998, che apre un ciclo di conferenze sul tema «Economia senza frontiere e cittadinanza globale», organizzato dalla Fondazione Luigi Einaudi di Roma. Il ciclo è intitolato a Giovanni Malagodi in ricordo della sua opera come presidente dell’Internazionale liberale.

 

Agli albori dell’Unione europea, la famiglia Casagrande lasciò la propria casa nell’Italia del Nord per lavorare in Germania. Benché i loro nuovi impieghi come lavoratori immigrati non li rendessero certo ricchi, le prospettive per il futuro sembravano migliori, specie per il giovane Donato, che poteva giovarsi dei servizi sociali e dell’istruzione. I Casagrande iscrissero Donato alla Realschule di Monaco e, dopo la morte del padre, la madre presentò domanda per gli assegni mensili che la legge bavarese riconosce agli studenti con famiglie a basso reddito. Ma il comune di Monaco respinse la domanda, dichiarando che la stessa legge che offre sostegno agli studenti poveri considera i non tedeschi non ammissibili (a meno che non siano apolidi o stranieri residenti in base al diritto d’asilo). Il fatto che Donato avesse vissuto tutta la vita in Germania non importava.

I Casagrande si appellarono contro questa decisione – non, come ci si potrebbe aspettare, alle autorità tedesche, ma alla Corte europea di giustizia. Si appellarono all’articolo 12 del regolamento del Consiglio europeo, che prevede che i figli di cittadini di altri stati dell’Unione europea debbano essere ammessi all’istruzione alle stesse condizioni dei cittadini di ciascuno Stato nazionale.

La procura bavarese scese in campo, mettendo in dubbio l’autorità del Consiglio europeo a stabilire tale regolamento, ma la Corte europea si schierò con il Consiglio, e Donato Casagrande ebbe il suo assegno.

Il caso è diventato una pietra miliare nello sviluppo del diritto costituzionale dell’Unione europea, sollevando molte interessanti questioni di politica e di giurisprudenza in materia di integrazione regionale e legge internazionale. Ma per i miei scopi qui, la sua importanza sta nel fatto che esso illustra alcune delle sfide più significative alla teoria della democrazia liberale nella società globale. Compresi in questo caso, sono gli elementi chiave dei problemi che la globalizzazione pone per il liberalismo e la democrazia.

L’estensione della democrazia liberale

A prima vista, il caso Casagrande si direbbe un esempio del tradizionale conflitto tra regola della maggioranza e diritti dell’individuo o, più in generale, tra democrazia e liberalismo. E, in effetti, qualcosa di questo conflitto è presente: la maggioranza democratica di Baviera ha emanato una legge che si è ritenuto violasse un diritto dell’individuo. Ma c’è qualcosa di problematico che riguarda entrambi gli elementi di questo conflitto; e neppure questo si adatta perfettamente alla cornice abituale della democrazia liberale.

Sul versante democratico, la maggioranza bavarese non è la sola maggioranza che conti. Il Consiglio europeo e il parlamento, almeno in teoria, rappresentano una maggioranza di Stati membri e anche, presumibilmente, una maggioranza di cittadini dell’Unione. Questo non è semplicemente un problema di livelli di governo – simile alle dispute giurisdizionali che sorgono in un sistema federale. L’autorità che i dirigenti dell’Unione europea hanno sul governo bavarese, benché maggiore di quella che una organizzazione internazionale come le Nazioni Unite possa rivendicare – è minore di quella di cui usufruisce il governo centrale in un sistema federale pienamente sviluppato. Il problema esemplifica una difficoltà più generale della democrazia in una società globale – quello che chiamo il problema delle maggioranze molteplici – che sorge dal fatto che l’autorità decisionale democratica è dispersa, e nessuna maggioranza può rivendicare in modo esclusivo e senza tener conto degli altri la legittimità democratica. Non sono solo i governi ma anche le aziende, le organizzazioni non governative, le agenzie internazionali e le associazioni professionali a prendere decisioni che condizionano sistematicamente e spesso vincolano i cittadini in molti paesi.

Sul versante liberale, i diritti individuali tutelati in questo caso non sono quelli dei cittadini, e l’autorità che li protegge non è quella di uno Stato nazionale. Donato Casagrande, per quanto a lungo abbia vissuto in Germania, è rimasto un cittadino italiano, e così i suoi genitori. Certo, ogni democrazia adeguata deve garantire agli stranieri qualche diritto elementare, come il diritto di parola e il diritto a un equo processo. E ogni democrazia decente dovrebbe provvedere all’istruzione essenziale per i figli degli stranieri che stiano lavorando nel paese. Ma richiedere, come una questione di diritto, che il governo garantisca a chiunque si trovi in quel paese le stesse opportunità di istruzione dei cittadini, espande concretamente le domande del liberalismo oltre la sua tradizionale concezione (e riduce contemporaneamente l’ambito della discrezionalità democratica).

Di più: l’espansione non è solo nel contenuto del diritto, ma anche nella sua applicazione. Avere un’autorità indipendente dal governo nazionale impone di dare ai diritti uno statuto significativamente più ampio rispetto a quello che le Costituzioni liberali hanno di solito garantito (e per questa ragione i diritti devono essere separati dal processo decisionale democratico, anche più di quanto non accada con la revisione giudiziale in una Costituzione nazionale). Il problema non è nemmeno risolvibile facendo semplicemente notare che il governo nazionale ha formalmente acconsentito al diritto in questione e al processo che lo istituisce e implementa. Certo, il governo tedesco ha il potere formale di richiedere che il Consiglio rescinda la regolazione o cambi la giurisdizione della Corte, ma in pratica una tale azione sarebbe difficile se non impossibile.

In ogni caso, il problema è più generale di una disputa giurisdizionale entro un’autorità regionale come l’Unione europea. Esso sorge perché i diritti liberali sono sempre più richiesti e applicati da autorità esterne alla giurisdizione nazionale (talvolta ufficialmente, come nel caso dell’Unione europea, ma altrettanto spesso in via ufficiosa, attraverso pressioni economiche e sociali, esercitate da organizzazioni non governative). I diritti liberali non mirano sempre alla protezione del benessere degli individui, come Donato Casagrande. Altrettanto spesso, essi proteggono interessi economici di corporazioni e la crescita del libero mercato.

In questo modo, la classica tensione tra diritti liberali e autorità democratica assume una nuova, e più provocatoria veste nella società globale. Il destino dei diritti liberali è di espandersi, portando maggior disaccordo su quale debba esserne il contenuto e chi debba garantirli. Allo stesso tempo, il locus dell’autorità democratica che deve fare fronte a questo genere di disaccordi è sempre più disperso. Vi sono tensioni non solo entro un singolo Stato, ma tra lo Stato e altri centri di potere formali e informali.

In che modo la teoria democratica dovrebbe affrontare i problemi posti dalla globalizzazione? Si ricordi che a me interessa la sfida teorica – come pensare la democrazia liberale e non come cambiarla qui e ora. Dobbiamo chiarire il nostro pensiero, prima di cominciare a riformare le istituzioni o a disegnarne di nuove. Inoltre, non dobbiamo aspettarci che una teoria liberale fornisca una risposta definitiva ad ogni particolare problema politico – che stabilisca, per esempio, che il comune di Monaco debba garantire borse di studio ai non cittadini. Suggerirò, infatti, che la teoria democratica più feconda lascia tali questioni aperte.

Sono due i principali approcci ai problemi della globalizzazione che emergono oggi nella teoria democratica. Uno accetta la tensione tra libertà e democrazia, ma la estende al livello delle politiche interstatali o internazionali. Questo è ciò che talvolta viene chiamato «governo cosmopolita» (che io chiamerò teoria del cosmopolitismo). L’altro prova a dissolvere la tensione, riducendo il ruolo del governo a tutti i livelli. Questo è l’approccio di alcuni di coloro che si concentrano sulla «società civile» (lo chiamerò «teoria della società civile»). Nessuno dei due approcci è adeguato, e benché sembrino l’opposto l’uno dell’altro, la loro inadeguatezza deriva dalla stessa fonte. Entrambi cercano la soluzione fuori della cornice statale, sottovalutando perciò il bisogno di cambiare il modo in cui gli Stati pensano il loro processo democratico.

I limiti della teoria del cosmopolitismo

Si consideri, in primo luogo, il governo cosmopolita. Spinti dalle aspirazioni universaliste dei filosofi dell’illuminismo come Kant, i cosmopoliti rivolgono le loro speranze al rafforzamento dei fori regionali e internazionali, per proteggere i diritti liberali e per sostenere il processo democratico. Pur non rifiutando la politica democratica a livello nazionale o locale, sono favorevoli a una più forte integrazione regionale («oltre l’Europa unita»), affidando a corti internazionali potere vincolante, rendendo le agenzie economiche e le aziende responsabili verso assemblee regionali e internazionali, mantenendo una forza militare internazionale, e creando un parlamento globale.

La visione è attraente, e in qualche misura la sua realizzazione non soltanto è desiderabile, ma inevitabile. La salute della democrazia liberale dipende dal rendere liberalismo e democrazia più universali, a tutti i livelli di governo. Ma come concezione guida per la teoria democratica, il governo cosmopolita ha seri difetti, sia nel suo liberalismo che nella sua democrazia, e dunque nel modo in cui li combina.

In primo luogo, il liberalismo. Finché pensiamo ai diritti umani (come quelli contro violenze quali lo stupro o la tortura), o anche ai diritti di welfare (come quelli che promuovono istruzione e salute), rendere universale il liberalismo è, in teoria, attraente, per quanto difficile da mettere in pratica. Ma la forma di liberalismo che è in auge oggigiorno mette l’accento sui diritti economici – la libertà promossa dal libero mercato. Come nel liberalismo a livello nazionale, questi diritti sono difesi sostenendo che sono a beneficio degli individui, non soltanto delle corporazioni capitaliste che li esercitano. Ma, in assenza di un’autorità politica che limiti questi diritti quando minacciano altri diritti liberali, il liberalismo economico finirà per dominare, persino più di quanto non accada a livello nazionale.

L’altro problema con l’universalizzazione del liberalismo è che non appena ci muoviamo oltre le libertà fondamentali, riconosciute dal diritto internazionale e difese dal movimento per i diritti umani, si provocano conflitti interni al liberalismo stesso. Maggiore è il numero delle comunità o delle nazioni che riconoscono la preminenza dei diritti liberali, maggiore sarà la probabilità di disaccordo su cosa essi significhino. Alcuni disaccordi sono ragionevoli: non si può provare che alcuna delle parti sia moralmente in errore, nemmeno all’interno della sua propria cornice culturale. Il conflitto sull’aborto dopo l’unificazione tra la Germania Est e la Germania Ovest è un caso del genere. Non è chiaro se il diritto alla vita, protetto in Germania Ovest, sia più liberale del diritto all’aborto, garantito in Germania Est. Anche quando non ci sia dissenso circa il diritto stesso, potrebbe esserci ragionevole disaccordo sugli scopi della sua applicazione o su ciò che è necessario per soddisfarlo. Dato che le risorse sono limitate, uno Stato dovrebbe spendere di più per la prevenzione sanitaria o per le terapie salvavita? Può uno Stato impedire (come fa il Canada) ai cittadini di acquistare cure mediche sul mercato privato, oltre a ciò che è garantito agli altri cittadini?

Il cosmopolitismo è altrettanto problematico sul fronte della democrazia. In primo luogo, quando guardiamo all’estensione dell’autorità di governo oltre i confini nazionali, non possiamo sentirci incoraggiati da ciò che vediamo. Non appena l’Unione europea ha accresciuto il suo potere e la sua efficacia, sono anche cresciute le critiche sulla sua mancanza di responsabilità democratica. Un tema centrale nella letteratura accademica e nei commenti dell’opinione pubblica sull’Unione europea è la critica al «deficit democratico» dell’Unione. Questo deficit appare sia tra l’Unione europea e gli Stati membri (l’Unione ha emanato regolamenti su una vasta gamma di politiche sociali senza alcun effettivo mandato elettorale) e nell’ambito delle strutture dello stesso governo dell’Unione europea (il parlamento democratico ha meno potere reale della commissione tecnica).

Un secondo e più generale problema con la democrazia cosmopolita è la moltiplicazione dei centri decisionali che genera il declino della responsabilità. I teorici del cosmopolitismo, di solito, non sostengono un solo potere sovrano (il governo mondiale), o l’abolizione dello Stato nazionale. Una delle teorie cosmopolite più sviluppate propone una «rete di agenzie e di assemblee regionali e internazionali che attraversino gli ambiti spazialmente delimitati». Per la sua natura, tale rete non offre ai cittadini al di fuori di particolari agenzie o assemblee alcun reale potere di controllo, e non offre ai cittadini nessun modo di confrontare tra loro gli effetti di decisioni non coordinate di altre agenzie o assemblee. La dispersione di autorità può generare più luoghi di influenza e più opportunità di partecipazione, ma è anche probabile che offra minor controllo reale e minor coordinazione.

L’inadeguatezza della teoria della società civile

L’altro importante approccio che si propone di mettere la democrazia liberale in grado di affrontare la globalizzazione – rafforzando la società civile – soffre di questa stessa dispersione di autorità: ancora il problema delle maggioranze molteplici. Ma ne soffre in misura ancora maggiore perché trascura l’importanza delle istituzioni a tutti i livelli.

Di sicuro, la democrazia ha bisogno di robuste istituzioni sociali – da associazioni professionali e sindacati a gruppi corali e bocciofile. Almeno dai tempi di Tocqueville i teorici della democrazia hanno riconosciuto l’importanza della società civile, anche se l’hanno data per scontata più che teorizzata. Ma i nuovi «teorici della società civile» hanno così grande attenzione per queste istituzioni sociali da disdegnare le istituzioni di governo. I cittadini hanno bisogno di prendere decisioni collettive sulle questioni che riguardano l’intera società, tra cui le conseguenze positive e negative di molte decisioni separate prese dalle istituzioni della società civile. I teorici della società civile corrono il rischio di acquistare maggiore democrazia in segmenti di società al costo di minore democrazia nell’intera società.

«Palermo può rappresentare il futuro di Mosca», ha scritto un eminente teorico della società civile. Questa prognosi dà a Mosca troppo credito, e troppo poco a Palermo. Il caos di Mosca è dovuto più al crollo delle istituzioni politiche che al collasso della società civile. Il processo di ristabilimento della legge e dell’ordine a Palermo (nella misura in cui ciò sia avvenuto) è il risultato della ricostruzione non di gruppi corali ma di istituzioni politiche, uno sforzo in cui il governo nazionale ha giocato un ruolo importante. Dunque, la democrazia nei suoi luoghi tradizionali – governo nazionale e locale – è ancora di importanza decisiva per la democrazia stessa, non ultimo rendere possibile il governo democratico delle istituzioni della società civile.

I teorici della società civile si considerano di solito liberali, ma si differenziano per quali libertà considerano più importanti. Un gruppo sostiene le istituzioni sociali perché crede che offrano agli individui maggiori opportunità di sviluppare i loro diversi talenti e interessi, e perciò promuove il libero perseguimento di un vasto ventaglio di attività. Una robusta società civile rende più facile che tutti i cittadini, inclusi quelli che possono esserne svantaggiati, trovino maggior sostegno nel perseguire il loro progetto di vita, quale esso sia. Per un altro gruppo, la libertà che conta di più, nella società civile, è la libertà economica, e l’istituzione sociale che conta di più è il mercato. Questo gruppo è più decisamente contrario del primo ad ogni azione politica collettiva, riflettendo lo scetticismo che il liberalismo classico ha sempre avuto verso il governo.

Riconoscere il conflitto tra questi due gruppi, nella teoria della società civile, rivela quale sia il problema centrale nel comune approccio di preservare il liberalismo nella società globale. Il problema è che, mentre le libertà a cui ciascuno dà priorità sono importanti, esse non sono sempre compatibili, e i gruppi non offrono un modo per risolvere il conflitto, neppure in teoria. Ciascuno semplicemente riafferma la priorità della sua libertà preferita. Deve un’azienda avere completa libertà di chiudere un impianto che è stato la linfa vitale di una regione? Un sindacato o un’associazione di categoria hanno il diritto di stabilire criteri di adesione su basi politiche, religiose o altre basi non economiche? Lo sfruttamento economico delle foreste pluviali deve avere la precedenza su bisogni ricreativi? Le risposte sono ovvie solo se si è già deciso a favore di un tipo di liberalismo, e la maggioranza dei cittadini, nella maggior parte delle democrazie, non l’ha fatto. Scegliere, o mediare, tra queste libertà in conflitto – se la scelta deve essere giustificabile per le persone che ne saranno vincolate – è un compito che richiede un robusto processo decisionale democratico.

C’è un’altra ragione per preoccuparsi della sottovalutazione dei governi, una ragione che ha una forza particolare contro quei teorici della società civile che enfatizzano l’importanza del mercato. Un governo effettivamente democratico è parte necessaria della risposta ad una delle obiezioni più comuni al libero mercato nella società globale. L’obiezione comincia con l’osservare che le nazioni che trattano bene i loro lavoratori e proteggono l’ambiente adeguatamente saranno svantaggiate nella competizione economica con le nazioni che non lo fanno. Per ragioni di equità, le nazioni con salari più alti e più forti limitazioni ambientali possono sembrare giustificate nell’adottare politiche commerciali protezioniste. Senza tali politiche, così recita l’obiezione, non c’è «terreno di gioco uniforme» nel commercio internazionale.

Ma, come molti economisti hanno sottolineato, non deve esserci uniformità del terreno di gioco per il libero mercato, beneficiando tutti i partner10. Le nazioni non devono avere gli stessi livelli salariali o gli stessi standard di protezione ambientale. Infatti, le differenze tra paesi, in questo e in altri ambiti, sono in misura significativa ciò che rende il libero mercato vantaggioso per tutti i paesi che vi partecipano. Questa è solo una delle implicazioni dell’idea fondamentale del vantaggio comparativo. Ma si noti – cosa che gli economisti di solito non mettono in luce – che se il vantaggio comparativo si sbarazza o meno dell’obiezione basata sull’equità dipende da un’assunzione ulteriore: che le differenze tra nazioni (in livelli salariali, standard ambientali, welfare e così via) riflettano genuine differenze nelle visioni dei cittadini di queste nazioni. Le differenze devono rappresentare politiche che i cittadini, nelle nazioni interessate, hanno in qualche modo sottoscritto o accettato. Questa assunzione, a sua volta, dipende dall’esistenza di una qualche forma di processo decisionale democratico, in cui i cittadini abbiano qualche influenza sulle politiche del lavoro, ambientali e sociali dei loro governi. Da una prospettiva liberale, pertanto, se il libero mercato che i teorici della società civile liberisti propugnano sia giustificabile o meno dipende dall’esistenza di quella robusta attività di governo che i democratici approverebbero.

Democrazia liberale nello Stato nazionale

Anche se è desiderabile cercare di mantenere forti governi democratici negli Stati nazionali, è tuttavia possibile? La «perdita di sovranità» è una fra le più dibattute questioni empiriche, e non abbiamo ancora prove sufficienti per alcuna conclusione definitiva. Non c’è dubbio che le forze della globalizzazione vincolino gli Stati-nazione. In generale, queste forze rendono probabilmente più arduo per i governi tassare il capitale e aumentare la spesa per i programmi sociali. Capitale e lavoro si muovono liberamente e rapidamente attraverso i confini come mai prima, e i governi hanno minore controllo sui loro movimenti. Gli effetti dei mutamenti nei mercati finanziari in una nazione sono avvertiti con forza e quasi immediatamente in molte altre nazioni. Uno dei consiglieri del presidente Clinton sottolineò il potere dei mercati finanziari in questo modo: «[se rinasco] voglio nascere come titolo di mercato».

Ma è facile esagerarne gli effetti sull’autonomia dei governi nazionali. I governi sono sempre stati vulnerabili alle forze dell’economia internazionale; la globalizzazione semplicemente intensifica problemi che sono da lungo noti a molti governi. Gli studi recenti più affidabili indicano che gli effetti della mobilità internazionale del capitale sono «contingenti alle scelte dei dirigenti politici nazionali» e delle loro istituzioni. Inoltre, i politici usano la globalizzazione come una scusa per evitare scelte difficili di politica interna. Di fronte a una diffusa opposizione alla sua proposta di riforma pensionistica e finanziaria nel 1995, il governo francese diede la colpa ai cambiamenti imposti dall’Unione europea. Benché richiesta dai criteri di Maastricht, essa era anche nell’interesse a lungo termine della Francia, secondo la maggior parte degli esperti. In altri casi, ciò che appare come una perdita di controllo locale è piuttosto il risultato di una «autolimitazione della sovranità». Perché molte nazioni hanno accettato immigrati o gastarbeiter che sono venuti come «ospiti» per rimanere permanentemente, godendo di molti dei benefici della cittadinanza? L’analisi più convincente mostra che la politica interna spiega chiaramente i «malvoluti» immigrati e gastarbeiter. Viene fuori che essi erano, in realtà, richiesti – non da tutti, ma da gruppi forti nello Stato che ne traggono vantaggio o che, per altre ragioni, sostengono politiche più liberali verso i lavoratori stranieri.

Se la democrazia liberale può e deve essere tenuta viva nello Stato nazionale, che genere di liberalismo e che genere di democrazia sono più adatti, nell’epoca della globalizzazione? Ogni teoria soddisfacente della democrazia liberale deve essere in grado di confrontarsi con i due problemi generali a cui né il cosmopolitismo né la teoria della società civile rispondono adeguatamente. Sul versante della democrazia, deve fare i conti con il problema delle maggioranze molteplici, e sul versante del liberalismo, con il problema del disaccordo sui diritti. Credo che la democrazia deliberativa – una teoria della democrazia che sta ricevendo crescente attenzione negli ultimi anni – indichi la strada più promettente per affrontare questo tipo di problemi. Non proverò a difendere questa teoria qui. Nel nostro ultimo libro, Democracy and Disagreement, io e Amy Gutmann abbiamo presentato dettagliatamente la nostra versione di tale teoria. Qui, voglio solo mostrare brevemente come la democrazia deliberativa può far fronte ai due problemi generali menzionati.

La premessa fondamentale della democrazia deliberativa è che le leggi e le politiche imposte agli individui devono essere giustificate ai loro occhi, in termini che essi possano ragionevolmente accettare. La teoria è «deliberativa», perché i termini che raccomanda sono concepiti come ragioni che i cittadini, o i loro rappresentanti di fiducia, si danno l’un l’altro, in un processo continuo di mutua giustificazione. Le ragioni reciproche non sono meramente procedurali («perché la maggioranza lo vuole»), o esclusivamente sostanziali («perché è un diritto umano»). Esse si appellano a principi morali (come le libertà fondamentali o l’eguaglianza di opportunità) che gli individui, motivati a trovare termini equi di cooperazione, possano realmente accettare. Certo, alcune delle ragioni che possono essere accettate in questo senso spesso non lo sono di fatto, in quanto le condizioni sociali e politiche non sono favorevoli alla pratica della deliberazione. Ma la democrazia deliberativa mantiene questo standard di reciprocità come un ideale contro cui le pratiche reali devono essere misurate.

Come affronta la democrazia deliberativa il problema delle maggioranze molteplici? Lo fa ampliando l’ambito della responsabilità politica: i funzionari pubblici devono tenere conto non solo del loro mandato elettivo, ma anche di quello che potrebbe essere definito il loro mandato morale, tutti gli individui che sono vincolati dalle decisioni che i funzionari prendono, siano esse de jure o de facto. Tale mandato morale va oltre i confini nazionali, ma si ferma prima di una inclusione cosmopolita di tutti quelli che nel mondo potrebbero essere coinvolti dalle decisioni dello Stato. Va oltre i confini perché i non cittadini sono talvolta vincolati dalle decisioni statali, come nel caso dell’immigrazione, delle restrizioni nelle importazioni e degli accordi sull’inquinamento transnazionale. Si ferma prima di includere ciascuno di quelli che potrebbero esserne toccati, perché la maggior parte dei non cittadini non sono ragionevolmente considerati partecipanti allo schema di cooperazione che stabilisce i diritti e gli obblighi che lo Stato applica.

Si consideri, per esempio, la politica di esportazione di prodotti a rischio, in particolare i rifiuti tossici. Per molti anni, gli Stati Uniti hanno esportato in paesi come il Bangladesh grosse quantità di rifiuti, definiti a rischio dalla loro Agenzia per la protezione ambientale (Environmental Protection Agency), contrariamente a quanto stabiliva la convenzione di Basilea del 1989. La politica americana di fatto negava che i funzionari dovessero giustificare le loro politiche ai cittadini stranieri: i funzionari americani dovevano interessarsi solo di ciò che era bene per i loro cittadini e la loro economia, e lasciare che i governi stranieri e il libero mercato si prendessero cura del benessere dei loro cittadini e della loro economia. Due tipi di ragioni sono state offerte a sostegno di questa posizione. Un insieme di ragioni si riferisce al fatto che le nazioni straniere accettano volontariamente l’esportazione americana. Questo è l’argomento basato sul consenso, ma che identifica erroneamente il consenso del governo, o in alcuni casi il consenso di certi gruppi di affari, con il consenso dei cittadini. Il tipo di consenso individuale o anche collettivo che potrebbe giustificare questa prassi non è di solito presente. Anche nel caso di paesi democratici, non possiamo assumere che la maggioranza dei cittadini acconsenta a certe politiche a meno che essi non siano pienamente informati sui pericoli che i rifiuti comportano. E i funzionari americani non si sforzano molto per informarli di ciò.

Un secondo insieme di ragioni cerca di mostrare che le esportazioni rappresentano un reale beneficio per i cittadini di altri paesi, offrendo prodotti meno rischiosi di altri a disposizione, e migliorando in generale il loro livello di vita. La prova di una tale tesi è nel migliore dei casi incerta. Nel caso di alcuni prodotti (come i pesticidi cancerogeni), i rischi sono alti e tendono a ricadere sui cittadini più svantaggiati, piuttosto che su quelli che traggono i maggiori benefici dai miglioramenti nell’economia dovuti al commercio internazionale. Ma più che l’argomento basato sul consenso, questo argomento porta i cittadini delle nazioni estere all’interno della struttura morale dei funzionari americani. Un funzionario che si appelli al benessere di quei cittadini, anche allo scopo di giustificare l’esportazione di rifiuti pericolosi, sta già riconoscendo il mandato morale di quei cittadini. Questo tipo di appello, dunque, riconosce l’ambito più ampio della responsabilità deliberativa.

L’ambito più ampio, certo, non risolve completamente il problema delle maggioranze molteplici. Non determina una particolare risposta alla domanda se i rifiuti dovrebbero essere esportati o – per quello che ci riguarda – se i figli di lavoratori stranieri abbiano diritto all’istruzione. Maggioranze differenti potrebbero ancora giungere a conclusioni differenti. Tenere aperta questa possibilità, in un più ampio ventaglio di casi di quanto non sia possibile per altre teorie, è una delle virtù della democrazia deliberativa. Ma, estendendo il mandato a tutte le maggioranze, la democrazia deliberativa rende più probabile almeno che ciascuno consideri gli interessi di alcuni individui, e cerchi politiche che come minimo non danneggino e forse persino beneficino quegli individui. Più è deliberativa la legislatura americana o la Landeshauptstadt di Monaco, maggiore è la probabilità che i cittadini del Bangladesh o i gastarbeiter italiani ricevano considerazione.

La responsabilità estesa nella democrazia deliberativa suggerisce alcuni cambiamenti istituzionali. Per esempio: uno Stato potrebbe istituire dei fori in cui i rappresentanti possano parlare a nome dei cittadini dei paesi stranieri, presentando le loro richieste e rispondendo alle controrichieste dei rappresentanti dei paesi ospiti. Tale processo potrebbe aiutare a correggere le tendenze delle negoziazioni commerciali o fra i governi che dominano la politica su tali questioni ora. Nel caso dei lavoratori ospiti, potrebbero essere garantiti dei fori per i loro rappresentanti, dando voce ai loro interessi anche quando sono loro (legittimamente) negati i pieni diritti di cittadinanza, come il voto nelle elezioni politiche. In tali fori, appropriatamente deliberativi, Donato Casagrande potrebbe o meno aver ottenuto il diritto alla stessa istruzione di cui godono i cittadini tedeschi, ma non gli sarebbe stato negato il diritto per il sol fatto che i non cittadini non hanno voce in tali decisioni e lui e i suoi genitori non erano cittadini.

Si ricordi che la Corte europea ha prevalso sui funzionari di Monaco e quindi ha protetto i diritti di Donato. Perché non adottare una teoria democratica che semplicemente dichiari certe libertà inviolabili, lasciando che un’autorità indipendente dalle maggioranze politiche le applichi?

La democrazia deliberativa non esclude la revisione giudiziale come possibile soluzione istituzionale, ma insiste sul fatto che ci saranno spesso disaccordi ragionevoli su quali libertà dovrebbero essere inviolabili, e che anche quando ci sia accordo, ci saranno dispute ragionevoli sulla loro interpretazione e su come esse dovrebbero essere valutate contro altre libertà. Le libertà sono soggette a revisione, come risultato di nuove visioni filosofiche, prove empiriche, ma soprattutto delle sfide sollevate dalle reali deliberazioni democratiche.

Dalla prospettiva della democrazia deliberativa, possiamo dire che Donato ha il diritto all’istruzione di base, ma quanto dovrebbe avere e come questo diritto debba essere economicamente sostenuto, in comparazione con altri diritti come la salute, e in quale misura il suo diritto debba dipendere da quali diritti gli altri Stati garantiscono agli stranieri, sono tutte questioni che non dovrebbero essere stabilite in anticipo rispetto alla deliberazione democratica. Poiché diritti e libertà non sono privilegi, posti indipendentemente dalla politica, la democrazia deliberativa è del tutto compatibile con i cambiamenti nelle concezioni della libertà e con i conflitti fra le libertà.

Tutto questo potrebbe sembrare enfatizzare la democrazia a spese del liberalismo. La democrazia deliberativa non prevede speciali garanzie per la libertà? Certamente sì. Almeno altrettante garanzie che ciascun’altra teoria può offrire. Essa sostiene che alcune libertà e alcuni diritti sono fondamentali, e non dovrebbero essere facilmente scavalcati dal voto di maggioranza, e neanche dalle decisioni giudiziali. Essa assegna uno statuto speciale a quelle libertà e a quei diritti che sono necessari per la cittadinanza libera ed eguale, non considerando nemmeno la Corte costituzionale, sia nazionale che sovranazionale, come la sola autorità per decidere quali siano e come debbano essere interpretati. In ogni momento particolare, alcune libertà sono propriamente considerate come diritti che le maggioranze democratiche non dovrebbero scavalcare. Ma le maggioranze stesse devono giungere a vedere i diritti in questo modo. È molto più probabile che questi diritti vengano sostenuti se non solo le corti, ma tutti i cittadini e i loro rappresentanti hanno l’opportunità di deliberare su di essi. Questo è soprattutto vero quando, come nella società globale, le persone si trovano a dover cooperare con altri che hanno idee del tutto diverse e in competizione sui diritti liberali.

La democrazia deliberativa non dà alla democrazia alcuna priorità rispetto alla libertà. Essa tratta il processo democratico nello stesso modo in cui tratta il sistema dei diritti e delle libertà. Le questioni su ciò che è richiesto per rendere il processo democratico più deliberativo devono esse stesse essere dibattute e risolte per mezzo della continua deliberazione. Le libertà e opportunità – come la libertà di espressione politica e l’istruzione primaria – che sono fra le precondizioni della deliberazione democratica, sono esse stesse soggette a interpretazioni e bilanciamenti nel processo democratico.

La democrazia deliberativa, pertanto, non privilegia la libertà o la democrazia, e vede la tensione fra loro come una condizione continua che nessuna adeguata teoria della democrazia può aspettarsi di risolvere. Essa raccomanda un processo reiterato, in cui le libertà vengano proposte, stabilite, sfidate e riviste in un processo continuamente in corso. Cosa potrebbe significare questo in pratica?

Dopo che la Landeshauptstadt di Monaco decide sfavorevolmente rispetto al garantire a Donato l’istruzione, la Corte europea dovrebbe esprimere un’opinione preliminare, puntualizzando che l’azione della Landeshauptstadt è prima facie contraria alla regolazione del Consiglio europeo, chiedendo che i funzionari di Monaco riconsiderino la loro decisione. Oppure, essi potrebbero chiedere al Consiglio europeo di considerare se aveva previsto che la regolazione avesse queste implicazioni, e, se così, se non intenda rivedere la regolazione alla luce delle obiezioni sollevate in quel caso. Altre autorità, come il parlamento europeo e le istituzioni nazionali tedesche, potrebbero essere invitate ad esprimere opinioni. La deliberazione ha luogo non solo all’interno di uno Stato nazionale, ma fra cittadini in differenti Stati nazionali. Questa deliberazione transnazionale non solo è compatibile, ma è necessaria per una politica democratica praticabile all’interno dello Stato nazionale.

Nel tempo in cui un processo come questo fa il suo corso, Donato avrà probabilmente finito le scuole, cominciando a preoccuparsi della sua pensione invece che dei suoi diritti all’istruzione. Ogni processo reiterativo di questo tipo dovrebbe includere decisioni di autorità, tempi in cui un caso particolare deve essere deciso, o una particolare politica implementata. Inoltre, se la deliberazione si concentra sulle questioni di secondo ordine, su ciò che i processi decisionali di primo ordine dovrebbero essere, le richieste di partecipazione della democrazia deliberativa non sarebbero così impegnative come potrebbe sembrare all’inizio. Ma se la questione è una politica o una procedura, il processo deliberativo potrebbe ancora tenere aperta la sfida a continuare, mantenendo aperte più possibilità di revisione di quanto altre forme di democrazia normalmente incoraggino. Il punto non è che la continuazione della deliberazione sia un valore in sé, ma che è necessario raggiungere decisioni che siano reciprocamente giustificabili, che possano essere ragionevolmente accettate da coloro che saranno vincolati da esse.

Infine, mentre la deliberazione può produrre almeno un consenso di massima su alcune questioni (come sembra probabile sulle politiche dell’istruzione in Europa), non ci si può aspettare di produrre accordo su tutto. La democrazia deliberativa prevede esplicitamente questa possibilità, e fornisce alcuni standard per vivere nonostante il disaccordo morale. Uno dei più importanti (nella nostra versione della teoria) è il principio di una economia del disaccordo morale, che chiama i cittadini e i loro rappresentanti a cercare punti significativi di convergenza fra la loro visione morale e quella dei cittadini le cui posizioni, prese nella loro forma più comprensiva, essi rifiutano.

Questo principio è applicabile alle dispute in cui entrambi i lati sostengano posizioni morali nessuna delle quali si può mostrare sia sbagliata. Un esempio è la controversia sull’aborto menzionata sopra – la disputa fra gli anti-abortisti della Germania dell’Ovest e gli abortisti della Germania dell’Est. Sebbene questa disputa sia stata risolta per legge, scegliendo una parte, il principio dell’economia del disaccordo morale ricorda a cittadini e funzionari di entrambi i lati che i loro obblighi deliberativi non cessano dopo che sia stata posta una legge a favore dell’aborto. Cittadini e funzionari dovrebbero cercare di promuovere politiche su cui i loro principi convergano, anche se avrebbero messo quelle politiche significativamente più in basso nella lista delle loro priorità. Così, i difensori dell’aborto potrebbero pensare che programmi finanziati pubblicamente che aiutino le madri non sposate a prendersi cura dei loro figli siano meno importanti di quanto non ritengano gli anti-abortisti, ma dovrebbero unirsi alla promozione attiva di quei programmi e di altre politiche allo stesso modo coerenti con i principi che condividono con i loro avversari.

Conclusioni

Al summit del 1996, il Gruppo dei Sette stilò una comunicazione (intitolata «Rendere il successo della globalizzazione un beneficio per tutti») in cui si diceva:

In un mondo sempre più interdipendente dobbiamo tutti riconoscere che abbiamo interesse a diffondere i benefici della crescita economica quanto più ampiamente possibile.

Il sentimento è benvenuto, ma lo scopo è incompleto. In un mondo sempre più interdipendente abbiamo tutti un interesse a diffondere i benefici della libertà e della democrazia quanto più ampiamente possibile. Questo scopo politico non è meno importante di quello economico, e nonostante possano entrare in conflitto, alla fine essi stanno o cadono insieme. Nella nostra premura di gestire in modo efficiente l’economia globale, non dobbiamo dimenticare che abbiamo bisogno di governare democraticamente la società globale che la sostiene.

Le sfide che la globalizzazione pone alle democrazie liberali non sono del tutto nuove, ma richiedono un nuovo modo di pensare alla teoria e alla pratica della democrazia. Qui mi sono concentrato sulla teoria perché credo che le teorie, o frammenti di teorie, influenzino il modo in cui i leader e i cittadini agiscono, spesso ponendo ostacoli concettuali al modo di realizzare i progressi pratici nelle democrazie liberali. Sia la teoria del cosmopolitismo sia quella della società civile, mentre attraggono la nostra attenzione verso promettenti opportunità nell’arena internazionale, dimenticano il bisogno di adattare la nostra concezione della politica rispetto al suo luogo più familiare, lo Stato nazionale. Ho suggerito che se adottiamo la prospettiva della democrazia deliberativa – una teoria che favorisce una responsabilità più ampia, maggiori opportunità di revisione delle decisioni politiche, e maggiore economia del disaccordo morale – gli Stati nazionali che aspirino a essere democrazie liberali dovranno essere meglio preparati ad affrontare le sfide che incontreranno nella società globale.

 

(traduzione di Ingrid Salvatore)

 

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