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Geni come diamanti: per sempre


Dina Bellizzi e Vittorio Sgaramella


Questo saggio appare sul numero 1 della Nuova Serie della rivista Filosofia e Questioni Pubbliche. Per ulteriori informazioni potete contattare Luiss Edizioni all'indirizzo e-mail edizioni@luiss.it

La terapia genica consiste nell’uso di metodi biologici, chimici e fisici per introdurre geni nelle cellule. Lo scopo è che i geni così introdotti (detti quindi «geni terapeutici») possano ripristinare un’attività compromessa o permettere lo svolgimento di nuove funzioni e portare così alla cura di malattie: queste potrebbero essere di tipo genetico ed ereditario, come la talassemia, o genetico ma non ereditario, come il cancro; o di tipo né genetico né ereditario, ma trasmissibile e infettivo, come l’Aids. L’importante è che l’agente terapeutico sia un elemento genetico, cioè una sequenza di Dna o di Rna.

Va però subito chiarito che gli esiti migliori finora riportati dalla terapia genica sono associabili a vantaggi selettivi riscontrati nella crescita delle cellule trattate e attribuiti all’inserimento casuale, quanto a posizione cromosomica, di un gene terapeutico, oppure alla funzione selettiva di un altro gene ad esso legato nel costrutto genetico impiegato.

L’osservazione è provocatoria, ma in questo contesto le provocazioni possono aiutare. La tecnica del trasferimento genico a cellule o a organismi rappresenta una legittima applicazione della genetica molecolare all’uomo; ed è giovane, forse a mala pena trentenne. Sotto questo aspetto quindi ancora scusabile: ma per quanto ancora?

In una conferenza sulla terapia genica tenutasi a Cold Spring Harbor, NY, David Baltimore, premio Nobel nel 1980 per i suoi studi sui retrovirus, ha ammonito: «Se noi tutti ci ritrovassimo insieme fra 10 anni, non troveremmo una malattia che sia stata trattata con terapia genica. Staremmo ancora discutendo di problemi». Era l’anno 1982: un decennio di trionfi nel campo del Dna ricombinante sembrava assicurare che molte malattie ereditarie erano dovute a mutazioni in relativi geni; tali successi parevano anche garantire che sarebbe stato facile rimpiazzare in qualche modo (come, non lo sappiamo bene ancora) la loro sequenza danneggiata con la sequenza corretta.

L’aspettativa era semplice ma naïf, allora come lo è adesso. La mera disponibilità di una corretta sequenza per il gene malato e di tecniche per una sua introduzione nelle cellule, mediato da elementi genetici (retro)virali inattivati, è stata troppo sovente identificata col concetto stesso di cura.

L’inizio della terapia genica somatica è a riguardo indicativo: i primi tentativi risalgono agli anni Settanta e comportano l’uso del Dna del virus del papilloma di Shope per il trattamento di malati di argininemia.

Più tardi, intorno gli anni Ottanta, un ematologo californiano si trasferì dagli Usa (dove i comitati bioetici già erano una cosa seria) in Italia e in Israele (dove erano al più oggetto di discussioni accademiche) per iniettare, in alcuni pazienti talassemici, beta-zero del Dna contenente i geni della beta-globina (per curare la talassemia) e della timidina kinasi del virus herpes simplex (per conferire un vantaggio selettivo alle cellule di midollo osseo così trattate).

Che niente sia noto di quei malati parla già di per se stesso; in aggiunta, l’intera operazione dimostra la diversa responsabilità dei comitati nazionali di bioetica. Ma la rilevanza dell’episodio sta altrove: non appena affiorarono i dettagli di questo «sregolato» tentativo terapeutico, l’ematologo californiano fu censurato e privato dei fondi di ricerca.

Nello stesso periodo altre iniziative caratterizzate da una simile «deregulation» vennero analogamente censurate. L’«hybris» di alcune frange integraliste di genetisti non sembra sentire ragioni.

Nel Novanta la terapia genica somatica si espande in modo inarrestabile, viene rapidamente brevettata e francamente sovrastimata. Risulta che sino alla metà del ’98 in tutto il mondo circa 3 mila pazienti sono stati trattati con almeno 300 differenti protocolli: tutti questi prevedevano aggiunte casuali di Dna terapeutico al genoma delle cellule dei pazienti, piuttosto che una sostituzione del gene malato, quando presente e noto, con la versione giusta. Questo tipo di intervento trova ancora ampio spazio nei media, che spesso addirittura arrivano a presentarlo come realmente possibile nei confronti del cancro, dove i geni affetti sono diversi, e per di più non tutti noti.

Il fatto triste è che purtroppo nessun paziente sinora è stato curato con qualsiasi forma di terapia genica: lo scontento è rimasto a lungo sopito ma da qualche tempo incomincia ad essere apertamente e ufficialmente manifesto, come traspare dalle osservazioni di Orkin-Motulsky, due rispettati genetisti umani americani, che hanno elaborato un poco noto documento sul problema, dietro esplicita richiesta degli Istituti nazionali della sanità Usa, o NIH).

Ma il fatto ancora più triste è che a dispetto di questa situazione si riscontra un aumento nel numero delle richieste di approvazioni per protocolli di cura sottoposti al Comitato responsabile presso gli NIH da aspiranti terapeuti genetici. Si nota anzi un fenomeno decisamente paradossale: la maggior parte dei protocolli di terapia genica viene addirittura applicata allo studio del cancro, dell’Aids e delle malattie circolatorie. Questo appare una realistica conseguenza del numero dei pazienti coinvolti, dell’assenza di trattamenti efficaci e di una forte rilevanza nel mondo occidentale delle malattie in questione. Ma è anche una temeraria violazione dell’inevitabile riconoscimento della molto più complessa eziopatologia alla base di queste malattie, della scarsa efficacia dei trattamenti proposti.

Ed è così che si arriva ad annunci autorevoli come quelli diramati dal comitato sull’«Ingegneria umana germinale» dell’Università di California a Los Angeles: un premio Nobel avrebbe affermato che la terapia genica germinale dovrebbe essere incoraggiata e completamente esonerata da ogni regola o norma di controllo. In tutta risposta un isolato richiamo alla cautela e ad un più esteso studio sulla terapia genica somatica è stato sollevato da un componente del comitato, che è uno dei leader della terapia genica «tradizionale» e anche il titolare dei più rilevanti brevetti nel settore.

I problemi di una terapia basata su geni com’è noto coinvolgono sia la scienza che la tecnologia. Per quanto riguarda la scienza, e in particolare i disordini monogenici, sappiamo molto della componente genetica ma poco della biologia molecolare e della fisiologia dei processi coinvolti.

La situazione è ancor peggiore con le nuove e complesse malattie multifattoriali, i bersagli più ambiziosi della terapia genica: le funzioni intercorrelate dei geni, ma anche dei prodotti genici, sono semplicemente ignorate. Per ciò che concerne invece la componente tecnologica, disponiamo di una discreta batteria di strumenti per l’inserzione intracellulare di geni vari anche estranei all’organismo destinatario, ma purtroppo d’un controllo molto limitato sulla possibilità di rimuovere il gene «malato», che diventa quasi nullo per quel che riguarda la possibilità di sostituirlo col gene terapeutico.

Nella maggior parte dei casi i geni terapeutici sono delle copie di Dna (cDna) degli Rna messaggeri trascritti da sequenze genomiche: queste ultime sarebbero preferibili per una corretta funzione genica ma in generale sono troppo lunghe. Le tecniche oggi disponibili sono inadeguate, per quel che riguarda sia il loro isolamento che la loro sintesi. Sotto forma di sequenze genomiche, i geni potrebbero essere eventualmente inseriti in cromosomi artificiali, ma lo stato delle conoscenze su queste strutture non è ancora abbastanza avanzato per progetti sensati: ulteriori studi sono urgentemente necessari nella costruzione e nell’uso di questi vettori di seconda generazione.

Al momento non si può che ricorrere a «minigeni» terapeutici, basati su cDna: i relativi Dna possono essere disegnati sia perché rimangano liberi nella cellula trattata (sotto forma di Dna nudo, quindi destinato a scomparire rapidamente col moltiplicarsi delle cellule), sia perché originino elementi genetici auto-replicanti e quindi persistenti (episomi), o infine perché si integrino nei cromosomi delle cellule ospiti. In ogni caso, l’inserzione casuale è probabilmente il più frequente metodo di acquisizione di Dna estraneo da parte di una cellula bersaglio.

Da qui derivano le potenzialità ambigue della procedura: i geni trapiantati possono essere occasionalmente terapeutici, ma sono sistematicamente mutagenici. Quest’ultimo effetto può essere passivo (a causa dell’inattivazione di geni cromosomici da parte del Dna estraneo), ma anche attivo (dovuta alle sue funzioni, ad esempio nel controllo trascrizionale). Possono seguirne uno sconvolgimento della crescita cellulare e quindi fenomeni tipici delle formazioni neoplastiche.

Quando un bambino è nato affetto da una malattia monogenica recessiva come la Scid-Ada dipendente (immunodeficienza grave combinata), per la sua terapia esistono in teoria due vie alternative. In una, il bambino può ricevere un gene terapeutico (codificante per l’enzima mancante) possibilmente trasportato da un (retro)virus e, dal momento che le cellule espiantate e trattate possono ricolonizzare il midollo osseo con grande difficoltà e bassa frequenza, può rivelarsi necessario ripetere il trattamento. Nell’altra via, al bambino può essere somministrato il prodotto genico mancante, o uno analogo. Ciò è stato realizzato utilizzando l’enzima d’origine bovina prodotto per mezzo del Dna ricombinante: ma in questo caso la terapia risulterebbe misteriosamente molto costosa. Se è così, perché non produrre, sempre per mezzo di Dna ricombinante, l’enzima umano, probabilmente più sicuro e più efficace di quello bovino? I motivi non sono chiari: uno potrebbe essere il fatto che in tutto il mondo ci sono meno di 100 pazienti affetti da Scid; probabilmente neppure il prezzo molto alto ottenibile con l’enzima umano (ovviamente sarebbe maggiore di quello pur alto spuntabile col prodotto bovino) riesce a convincere le società farmaceutiche ad adattare al gene umano il vecchio protocollo messo a punto per il gene bovino.

Quanto alla necessità di ripetere il trattamento, è chiaro che la terapia enzimatica deve essere ripetuta nel tempo (a differenza di un trattamento genico ottimale), ma potrebbe essere interrotta in qualunque momento per qualunque ragione (anche in questo differendo da un trattamento genico ottimale). Purtroppo abbiamo visto che il trattamento di terapia genica realizzato è lungi dall’essere ottimale.

Da notare che attualmente questa malattia è l’unica dove la terapia genica può vantare qualche successo: i pazienti trattati presentano sì sequenze retrovirali integrate in qualche sito nei cromosomi nelle loro cellule T manipolate: ma, visto che il gene terapeutico non risulta (sufficientemente) attivo, per sopravvivere quei pazienti hanno bisogno di ripetute somministrazioni dell’enzima, che peraltro continua ad essere d’origine bovina. Forse sarebbe corretto ipotizzare che l’enzima umano potrebbe lavorare meglio di quello bovino, ma ai pazienti viene somministrato quest’ultimo.

È questo un successo?

Ora leggiamo che il gene terapeutico realizzato dall’uomo dovrebbe essere inserito anche nelle cellule germinali. Se questa non è insolente hybris scientifica, a stento giustificabile perché la tecnica è ancora ai primordi, una simile proposta non può non essere vista come una precipitosa e ingiustificata fuga in avanti.

«Dobbiamo essere estremamente cauti su ciò che si sperimenta sugli uomini. Ciò è cruciale perché qualsiasi tentativo della terapia umana che non sia totalmente giustificabile sul terreno scientifico va ad inquinare l’atmosfera politica nella quale si realizza la nostra ricerca. Quindi io vorrei sostenere che prima che qualsiasi esperimento venga compiuto su esseri umani, si acquisisca un solido consenso sulla necessità di realizzarlo. Non è una decisione che può essere lasciata a un singolo scienziato»: è ancora Baltimore, già citato.

Regolamentare tali procedure significa realizzare un accordo tra gli operatori sulle condizioni miranti a minimizzare il rapporto costo/benefici. La deregolazione, viceversa, certamente stimola la competizione, ma anche, se non soprattutto, comporta tagli delle spese.

Fu proprio la regolamentazione a consigliare all’ematologo californiano di tentare la sua terapia genica fuori dagli Stati Uniti; e fu la deregolazione al contrario che lo convinse a dirigersi verso il Sud Europa.

Sull’uso della terapia genica germinale sono state avanzate obiezioni convincenti: mentre se ne sottolineano le incertezze se non i rischi, non ne sono chiari i vantaggi.

L’ipotesi di utilizzare geni nella terapia appariva attraente 30 anni fa e continua sicuramente ad essere così. Ma la separazione tra terapia e sperimentazione è la tanto ricercata (ma altrettanto elusiva) capacità di sostituire la sequenza alterata con quella normale.

L’aggiunta di un gene terapeutico legato a sequenze (retro)virali, non funziona, per lo meno ancora. Inoltre, la loro stessa natura virale del vettore non può non evocare i fantasmi di ricombinazioni patologiche.

Se quindi l’utilizzo di un costrutto di Dna può essere meno che sicuro, noi siamo eticamente obbligati a seguire ben sperimentati protocolli, come quelli che prevedono l’uso dei prodotti dei geni, quando possibile.

A meno che non sia corretto considerare l’attuale terapia genica come un disperato rimedio. («Mali diventati disperati / Da disperati rimedi sono alleviati / O niente affatto». Amleto IV, 3, 9.)

Ma è giusto considerare senza speranza quei rimedi (sono ancora pochi, ma potrebbero presto diventare di più) per realizzare i quali un prodotto genico corretto potrebbe essere somministrato senza rischi, o, se ancora non è disponibile nella struttura o nella formulazione corretta, quantomeno potrebbe essere ricercato più attivamente? O l’esistenza di caratteristiche che potrebbero essere semplicemente alleviate da stigma di natura culturale-sociale (si pensi alla statura)? O casi in cui analisi di preimpianto embrionale sono disponibili? Se, ad esempio, l’uso della beta-globina (il prodotto genico) nella cura dei beta-talassemici non appare molto promettente, va detto che l’uso di approcci genetici (basati sul gene o su altre sequenze)non pare per ora ancora molto più convincente.

Fino a tempi recenti il motto di un gigante della chimica era: «Migliori cose per viver meglio attraverso la chimica». Adesso l’espressione «attraverso la chimica» è stata eliminata: dopo molti abusi e incidenti, la chimica gode di una cattiva reputazione. Stesso destino potrebbe essere riservato alla genetica: si pensi proprio alle controverse percezioni pubbliche della clonazione e dell’ingegneria genetica.

Per ora considerate le più complesse modalità di azione dei geni e confrontatele a quelle dei prodotti genici sembrerebbe meno rischioso tentare di curare i pazienti attraverso la chimica, mediante una somministrazione tempestiva e locale di un prodotto genico utile, se è disponibile e possibile, piuttosto che attraverso la genetica, mediante l’aggiunta casuale e l’attività di geni teoricamente terapeutici, ma spesso dotati di una incontrollata attività. Ancor meno incoraggianti paiono le proposte di intervento su cellule germinali, o in utero.

Naturalmente nei casi in cui questi geni lavorino in quanto tali, ad esempio sotto forma di ribozimi o sequenze antisenso, allora determinate sequenze geniche potrebbero qualificarsi come efficaci agenti terapeutici.

Originariamente gli acidi nucleici furono considerati estremamente interessanti proprio per la loro abilità a replicarsi non appena diventati parte del genoma dei pazienti trattati e quindi capaci di esprimere la loro funzione da una generazione all’altra. I geni sono perciò come i diamanti: sono per sempre. Purtroppo ciò è vero anche se essi si integrano in una posizione cromosomica errata, non ottimale, o addirittura dannosa, e funzionano in modo difficilmente prevedibile e persino individuabile.

Lungo la stessa linea di argomentazione, anche i prodotti genici potrebbero essere tossici o dannosi, naturalmente. Ma la loro emivita, per quanto lunga, è limitata: in ogni caso, anche il più persistente dei prodotti genici si esaurirà con cinetiche più o meno lente, ma finite.

Ma questo non è il caso dei geni: con la loro abilità ad integrarsi, replicarsi, trasporsi e ricombinarsi, essi sono perenni e in generale mutagenici. Quand’anche diventasse desiderabile, non possono essere ritirati.

Non si può negare che conosciamo poco di tutto ciò: eccetto che le mutazioni sono da evitare, se appena possibile, e che il controllo che possiamo esercitare sui geni, una volta che siano entrati nei genomi delle cellule somatiche, è desolantemente scarso. E la situazione non è certo migliore nelle cellule germinali, a dispetto della loro maggiore disponibilità agli interventi genetici, caratteristica interessante ma non tale da giustificarne la manipolazione.

Anche senza abbracciare per questo l’ipotesi di Gaia che attribuisce una reattività fisiologica, quasi uno status organismale, all’intero pianeta, seguendo lo stesso schema logicamente rigoroso delineato per i geni umani, dobbiamo riconsiderare la diffusa convinzione che i trattamenti biologici, e in particolare quelli genetici, siano preferibili all’impiego di sostanze chimiche, naturali o artificiali che siano, quando si opera a livello della biosfera: la contrapposizione non deve essere tra una chimica, un tempo buona ma oggi vista dall’opinione pubblica sempre più come ostile all’uomo, e una genetica, ora così di moda e percepita in una luce benigna, ma altrettanto se non più incontrollabile da un punto di vista ecologico.

Nel decidere interventi sempre meno rinunciabili e dilazionabili su sistemi organismali, ecologici, o planetari, dovremmo fare del nostro meglio per evitare di ripresentare una versione ossessiva del classico film di W. Disney, «Fantasia», con terapisti genici e ingegneri eco-genetici che giocano a fare gli apprendisti stregoni.

 

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