Questo saggio appare sul numero 1 della Nuova Serie della rivista Filosofia e Questioni
Pubbliche. Per ulteriori informazioni potete contattare Luiss Edizioni all'indirizzo
e-mail edizioni@luiss.it
La terapia genica consiste nelluso di metodi biologici, chimici e fisici per
introdurre geni nelle cellule. Lo scopo è che i geni così introdotti (detti quindi
«geni terapeutici») possano ripristinare unattività compromessa o permettere lo
svolgimento di nuove funzioni e portare così alla cura di malattie: queste potrebbero
essere di tipo genetico ed ereditario, come la talassemia, o genetico ma non ereditario,
come il cancro; o di tipo né genetico né ereditario, ma trasmissibile e infettivo, come
lAids. Limportante è che lagente terapeutico sia un elemento genetico,
cioè una sequenza di Dna o di Rna.
Va però subito chiarito che gli esiti migliori finora riportati dalla terapia genica
sono associabili a vantaggi selettivi riscontrati nella crescita delle cellule trattate e
attribuiti allinserimento casuale, quanto a posizione cromosomica, di un gene
terapeutico, oppure alla funzione selettiva di un altro gene ad esso legato nel costrutto
genetico impiegato.
Losservazione è provocatoria, ma in questo contesto le provocazioni possono
aiutare. La tecnica del trasferimento genico a cellule o a organismi rappresenta una
legittima applicazione della genetica molecolare alluomo; ed è giovane, forse a
mala pena trentenne. Sotto questo aspetto quindi ancora scusabile: ma per quanto ancora?
In una conferenza sulla terapia genica tenutasi a Cold Spring Harbor, NY, David
Baltimore, premio Nobel nel 1980 per i suoi studi sui retrovirus, ha ammonito: «Se noi
tutti ci ritrovassimo insieme fra 10 anni, non troveremmo una malattia che sia stata
trattata con terapia genica. Staremmo ancora discutendo di problemi». Era lanno
1982: un decennio di trionfi nel campo del Dna ricombinante sembrava assicurare che molte
malattie ereditarie erano dovute a mutazioni in relativi geni; tali successi parevano
anche garantire che sarebbe stato facile rimpiazzare in qualche modo (come, non lo
sappiamo bene ancora) la loro sequenza danneggiata con la sequenza corretta.
Laspettativa era semplice ma naïf, allora come lo è adesso. La mera
disponibilità di una corretta sequenza per il gene malato e di tecniche per una sua
introduzione nelle cellule, mediato da elementi genetici (retro)virali inattivati, è
stata troppo sovente identificata col concetto stesso di cura.
Linizio della terapia genica somatica è a riguardo indicativo: i primi tentativi
risalgono agli anni Settanta e comportano luso del Dna del virus del papilloma di
Shope per il trattamento di malati di argininemia.
Più tardi, intorno gli anni Ottanta, un ematologo californiano si trasferì dagli Usa
(dove i comitati bioetici già erano una cosa seria) in Italia e in Israele (dove erano al
più oggetto di discussioni accademiche) per iniettare, in alcuni pazienti talassemici,
beta-zero del Dna contenente i geni della beta-globina (per curare la talassemia) e della
timidina kinasi del virus herpes simplex (per conferire un vantaggio selettivo alle
cellule di midollo osseo così trattate).
Che niente sia noto di quei malati parla già di per se stesso; in aggiunta,
lintera operazione dimostra la diversa responsabilità dei comitati nazionali di
bioetica. Ma la rilevanza dellepisodio sta altrove: non appena affiorarono i
dettagli di questo «sregolato» tentativo terapeutico, lematologo californiano fu
censurato e privato dei fondi di ricerca.
Nello stesso periodo altre iniziative caratterizzate da una simile «deregulation»
vennero analogamente censurate. L«hybris» di alcune frange integraliste di
genetisti non sembra sentire ragioni.
Nel Novanta la terapia genica somatica si espande in modo inarrestabile, viene
rapidamente brevettata e francamente sovrastimata. Risulta che sino alla metà del
98 in tutto il mondo circa 3 mila pazienti sono stati trattati con almeno 300
differenti protocolli: tutti questi prevedevano aggiunte casuali di Dna terapeutico al
genoma delle cellule dei pazienti, piuttosto che una sostituzione del gene malato, quando
presente e noto, con la versione giusta. Questo tipo di intervento trova ancora ampio
spazio nei media, che spesso addirittura arrivano a presentarlo come realmente possibile
nei confronti del cancro, dove i geni affetti sono diversi, e per di più non tutti noti.
Il fatto triste è che purtroppo nessun paziente sinora è stato curato con qualsiasi
forma di terapia genica: lo scontento è rimasto a lungo sopito ma da qualche tempo
incomincia ad essere apertamente e ufficialmente manifesto, come traspare dalle
osservazioni di Orkin-Motulsky, due rispettati genetisti umani americani, che hanno
elaborato un poco noto documento sul problema, dietro esplicita richiesta degli Istituti
nazionali della sanità Usa, o NIH).
Ma il fatto ancora più triste è che a dispetto di questa situazione si riscontra un
aumento nel numero delle richieste di approvazioni per protocolli di cura sottoposti al
Comitato responsabile presso gli NIH da aspiranti terapeuti genetici. Si nota anzi un
fenomeno decisamente paradossale: la maggior parte dei protocolli di terapia genica viene
addirittura applicata allo studio del cancro, dellAids e delle malattie
circolatorie. Questo appare una realistica conseguenza del numero dei pazienti coinvolti,
dellassenza di trattamenti efficaci e di una forte rilevanza nel mondo occidentale
delle malattie in questione. Ma è anche una temeraria violazione dellinevitabile
riconoscimento della molto più complessa eziopatologia alla base di queste malattie,
della scarsa efficacia dei trattamenti proposti.
Ed è così che si arriva ad annunci autorevoli come quelli diramati dal comitato
sull«Ingegneria umana germinale» dellUniversità di California a Los
Angeles: un premio Nobel avrebbe affermato che la terapia genica germinale dovrebbe essere
incoraggiata e completamente esonerata da ogni regola o norma di controllo. In tutta
risposta un isolato richiamo alla cautela e ad un più esteso studio sulla terapia genica
somatica è stato sollevato da un componente del comitato, che è uno dei leader della
terapia genica «tradizionale» e anche il titolare dei più rilevanti brevetti nel
settore.
I problemi di una terapia basata su geni comè noto coinvolgono sia la scienza
che la tecnologia. Per quanto riguarda la scienza, e in particolare i disordini
monogenici, sappiamo molto della componente genetica ma poco della biologia molecolare e
della fisiologia dei processi coinvolti.
La situazione è ancor peggiore con le nuove e complesse malattie multifattoriali, i
bersagli più ambiziosi della terapia genica: le funzioni intercorrelate dei geni, ma
anche dei prodotti genici, sono semplicemente ignorate. Per ciò che concerne invece la
componente tecnologica, disponiamo di una discreta batteria di strumenti per
linserzione intracellulare di geni vari anche estranei allorganismo
destinatario, ma purtroppo dun controllo molto limitato sulla possibilità di
rimuovere il gene «malato», che diventa quasi nullo per quel che riguarda la
possibilità di sostituirlo col gene terapeutico.
Nella maggior parte dei casi i geni terapeutici sono delle copie di Dna (cDna) degli
Rna messaggeri trascritti da sequenze genomiche: queste ultime sarebbero preferibili per
una corretta funzione genica ma in generale sono troppo lunghe. Le tecniche oggi
disponibili sono inadeguate, per quel che riguarda sia il loro isolamento che la loro
sintesi. Sotto forma di sequenze genomiche, i geni potrebbero essere eventualmente
inseriti in cromosomi artificiali, ma lo stato delle conoscenze su queste strutture non è
ancora abbastanza avanzato per progetti sensati: ulteriori studi sono urgentemente
necessari nella costruzione e nelluso di questi vettori di seconda generazione.
Al momento non si può che ricorrere a «minigeni» terapeutici, basati su cDna: i
relativi Dna possono essere disegnati sia perché rimangano liberi nella cellula trattata
(sotto forma di Dna nudo, quindi destinato a scomparire rapidamente col moltiplicarsi
delle cellule), sia perché originino elementi genetici auto-replicanti e quindi
persistenti (episomi), o infine perché si integrino nei cromosomi delle cellule ospiti.
In ogni caso, linserzione casuale è probabilmente il più frequente metodo di
acquisizione di Dna estraneo da parte di una cellula bersaglio.
Da qui derivano le potenzialità ambigue della procedura: i geni trapiantati possono
essere occasionalmente terapeutici, ma sono sistematicamente mutagenici. Questultimo
effetto può essere passivo (a causa dellinattivazione di geni cromosomici da parte
del Dna estraneo), ma anche attivo (dovuta alle sue funzioni, ad esempio nel controllo
trascrizionale). Possono seguirne uno sconvolgimento della crescita cellulare e quindi
fenomeni tipici delle formazioni neoplastiche.
Quando un bambino è nato affetto da una malattia monogenica recessiva come la Scid-Ada
dipendente (immunodeficienza grave combinata), per la sua terapia esistono in teoria due
vie alternative. In una, il bambino può ricevere un gene terapeutico (codificante per
lenzima mancante) possibilmente trasportato da un (retro)virus e, dal momento che le
cellule espiantate e trattate possono ricolonizzare il midollo osseo con grande
difficoltà e bassa frequenza, può rivelarsi necessario ripetere il trattamento.
Nellaltra via, al bambino può essere somministrato il prodotto genico mancante, o
uno analogo. Ciò è stato realizzato utilizzando lenzima dorigine bovina
prodotto per mezzo del Dna ricombinante: ma in questo caso la terapia risulterebbe
misteriosamente molto costosa. Se è così, perché non produrre, sempre per mezzo di Dna
ricombinante, lenzima umano, probabilmente più sicuro e più efficace di quello
bovino? I motivi non sono chiari: uno potrebbe essere il fatto che in tutto il mondo ci
sono meno di 100 pazienti affetti da Scid; probabilmente neppure il prezzo molto alto
ottenibile con lenzima umano (ovviamente sarebbe maggiore di quello pur alto
spuntabile col prodotto bovino) riesce a convincere le società farmaceutiche ad adattare
al gene umano il vecchio protocollo messo a punto per il gene bovino.
Quanto alla necessità di ripetere il trattamento, è chiaro che la terapia enzimatica
deve essere ripetuta nel tempo (a differenza di un trattamento genico ottimale), ma
potrebbe essere interrotta in qualunque momento per qualunque ragione (anche in questo
differendo da un trattamento genico ottimale). Purtroppo abbiamo visto che il trattamento
di terapia genica realizzato è lungi dallessere ottimale.
Da notare che attualmente questa malattia è lunica dove la terapia genica può
vantare qualche successo: i pazienti trattati presentano sì sequenze retrovirali
integrate in qualche sito nei cromosomi nelle loro cellule T manipolate: ma, visto che il
gene terapeutico non risulta (sufficientemente) attivo, per sopravvivere quei pazienti
hanno bisogno di ripetute somministrazioni dellenzima, che peraltro continua ad
essere dorigine bovina. Forse sarebbe corretto ipotizzare che lenzima umano
potrebbe lavorare meglio di quello bovino, ma ai pazienti viene somministrato
questultimo.
È questo un successo?
Ora leggiamo che il gene terapeutico realizzato dalluomo dovrebbe essere inserito
anche nelle cellule germinali. Se questa non è insolente hybris scientifica, a
stento giustificabile perché la tecnica è ancora ai primordi, una simile proposta non
può non essere vista come una precipitosa e ingiustificata fuga in avanti.
«Dobbiamo essere estremamente cauti su ciò che si sperimenta sugli uomini. Ciò è
cruciale perché qualsiasi tentativo della terapia umana che non sia totalmente
giustificabile sul terreno scientifico va ad inquinare latmosfera politica nella
quale si realizza la nostra ricerca. Quindi io vorrei sostenere che prima che qualsiasi
esperimento venga compiuto su esseri umani, si acquisisca un solido consenso sulla
necessità di realizzarlo. Non è una decisione che può essere lasciata a un singolo
scienziato»: è ancora Baltimore, già citato.
Regolamentare tali procedure significa realizzare un accordo tra gli operatori sulle
condizioni miranti a minimizzare il rapporto costo/benefici. La deregolazione, viceversa,
certamente stimola la competizione, ma anche, se non soprattutto, comporta tagli delle
spese.
Fu proprio la regolamentazione a consigliare allematologo californiano di tentare
la sua terapia genica fuori dagli Stati Uniti; e fu la deregolazione al contrario che lo
convinse a dirigersi verso il Sud Europa.
Sulluso della terapia genica germinale sono state avanzate obiezioni convincenti:
mentre se ne sottolineano le incertezze se non i rischi, non ne sono chiari i vantaggi.
Lipotesi di utilizzare geni nella terapia appariva attraente 30 anni fa e
continua sicuramente ad essere così. Ma la separazione tra terapia e sperimentazione è
la tanto ricercata (ma altrettanto elusiva) capacità di sostituire la sequenza alterata
con quella normale.
Laggiunta di un gene terapeutico legato a sequenze (retro)virali, non funziona,
per lo meno ancora. Inoltre, la loro stessa natura virale del vettore non può non evocare
i fantasmi di ricombinazioni patologiche.
Se quindi lutilizzo di un costrutto di Dna può essere meno che sicuro, noi siamo
eticamente obbligati a seguire ben sperimentati protocolli, come quelli che prevedono
luso dei prodotti dei geni, quando possibile.
A meno che non sia corretto considerare lattuale terapia genica come un disperato
rimedio. («Mali diventati disperati / Da disperati rimedi sono alleviati / O niente
affatto». Amleto IV, 3, 9.)
Ma è giusto considerare senza speranza quei rimedi (sono ancora pochi, ma potrebbero
presto diventare di più) per realizzare i quali un prodotto genico corretto potrebbe
essere somministrato senza rischi, o, se ancora non è disponibile nella struttura o nella
formulazione corretta, quantomeno potrebbe essere ricercato più attivamente? O
lesistenza di caratteristiche che potrebbero essere semplicemente alleviate da
stigma di natura culturale-sociale (si pensi alla statura)? O casi in cui analisi di
preimpianto embrionale sono disponibili? Se, ad esempio, luso della beta-globina (il
prodotto genico) nella cura dei beta-talassemici non appare molto promettente, va detto
che luso di approcci genetici (basati sul gene o su altre sequenze)non pare per ora
ancora molto più convincente.
Fino a tempi recenti il motto di un gigante della chimica era: «Migliori cose per
viver meglio attraverso la chimica». Adesso lespressione «attraverso la chimica»
è stata eliminata: dopo molti abusi e incidenti, la chimica gode di una cattiva
reputazione. Stesso destino potrebbe essere riservato alla genetica: si pensi proprio alle
controverse percezioni pubbliche della clonazione e dellingegneria genetica.
Per ora considerate le più complesse modalità di azione dei geni e confrontatele a
quelle dei prodotti genici sembrerebbe meno rischioso tentare di curare i pazienti
attraverso la chimica, mediante una somministrazione tempestiva e locale di un prodotto
genico utile, se è disponibile e possibile, piuttosto che attraverso la genetica,
mediante laggiunta casuale e lattività di geni teoricamente terapeutici, ma
spesso dotati di una incontrollata attività. Ancor meno incoraggianti paiono le proposte
di intervento su cellule germinali, o in utero.
Naturalmente nei casi in cui questi geni lavorino in quanto tali, ad esempio sotto
forma di ribozimi o sequenze antisenso, allora determinate sequenze geniche potrebbero
qualificarsi come efficaci agenti terapeutici.
Originariamente gli acidi nucleici furono considerati estremamente interessanti proprio
per la loro abilità a replicarsi non appena diventati parte del genoma dei pazienti
trattati e quindi capaci di esprimere la loro funzione da una generazione allaltra.
I geni sono perciò come i diamanti: sono per sempre. Purtroppo ciò è vero anche se essi
si integrano in una posizione cromosomica errata, non ottimale, o addirittura dannosa, e
funzionano in modo difficilmente prevedibile e persino individuabile.
Lungo la stessa linea di argomentazione, anche i prodotti genici potrebbero essere
tossici o dannosi, naturalmente. Ma la loro emivita, per quanto lunga, è limitata: in
ogni caso, anche il più persistente dei prodotti genici si esaurirà con cinetiche più o
meno lente, ma finite.
Ma questo non è il caso dei geni: con la loro abilità ad integrarsi, replicarsi,
trasporsi e ricombinarsi, essi sono perenni e in generale mutagenici. Quandanche
diventasse desiderabile, non possono essere ritirati.
Non si può negare che conosciamo poco di tutto ciò: eccetto che le mutazioni sono da
evitare, se appena possibile, e che il controllo che possiamo esercitare sui geni, una
volta che siano entrati nei genomi delle cellule somatiche, è desolantemente scarso. E la
situazione non è certo migliore nelle cellule germinali, a dispetto della loro maggiore
disponibilità agli interventi genetici, caratteristica interessante ma non tale da
giustificarne la manipolazione.
Anche senza abbracciare per questo lipotesi di Gaia che attribuisce una
reattività fisiologica, quasi uno status organismale, allintero pianeta, seguendo
lo stesso schema logicamente rigoroso delineato per i geni umani, dobbiamo riconsiderare
la diffusa convinzione che i trattamenti biologici, e in particolare quelli genetici,
siano preferibili allimpiego di sostanze chimiche, naturali o artificiali che siano,
quando si opera a livello della biosfera: la contrapposizione non deve essere tra una
chimica, un tempo buona ma oggi vista dallopinione pubblica sempre più come ostile
alluomo, e una genetica, ora così di moda e percepita in una luce benigna, ma
altrettanto se non più incontrollabile da un punto di vista ecologico.
Nel decidere interventi sempre meno rinunciabili e dilazionabili su sistemi
organismali, ecologici, o planetari, dovremmo fare del nostro meglio per evitare di
ripresentare una versione ossessiva del classico film di W. Disney, «Fantasia», con
terapisti genici e ingegneri eco-genetici che giocano a fare gli apprendisti stregoni.