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Stenti e paure della nuova Russia


Marina Calloni


San Pietroburgo: terre dal volto gelido anticipano l’atterraggio su una pista ghiacciata, ammantata da una coltre di buio pesto, calata già alle quattro del pomeriggio. Operazioni di sdoganamento, formulari da riempire, curiose domande cui rispondere: "Porta armi, veleni, droghe, materiali radioattivi?" Certo che no! Eppure scrivo un sì accanto ad un interrogativo: "Porta edizioni a stampa e mezzi d’informazione?" Potrei forse fare diversamente, dovendo partecipare ad alcuni seminari universitari? Ma è una formalità, mi dicono. Nessuno ci bada più. E anche il controllo dei bagagli procede senza ulteriori intoppi.

A tanti anni dall’inizio della perestrojka, molti sono gli emendamenti ancora da fare. Tempi non sincronizzati governano la Russia: il vortice degli eventi storici convive con la riproduzione di una struttura burocratica incurante dei cambiamenti. La vita quotidiana arranca invece faticosamente dietro ad un presente che nessuno sa prevedere. Dove andrà mai a finire? E così, a qualche mese dalle controverse elezioni politiche che hanno visto l’affermazione dei partiti di governo e la perdita del controllo della Duma da parte del Partito comunista (nonostante rimanga il primo partito col 25% dei voti), mi avvicino a San Pietroburgo che, coi suoi 6 milioni di abitanti, rivendica da sempre la priorità della propria tradizione politico-culturale contro il centralismo moscovita.

"La politica è sporca", mi risponde seccamente Yuri. Proprio non vuole fare commenti sulle elezioni, mentre mi accompagna dall’aeroporto in albergo, su un’automobile comprata in Germania coi soldi racimolati durante la raccolta estiva della frutta in Grecia. Fa il traduttore dall’inglese, ma arrotonda le entrate accompagnando viaggiatori stranieri. Le reti familiari e le conoscenze personali - che erano state rafforzate durante il comunismo per avere e scambiare favori e merci, pur senza poterli ricambiare in soldi - vengono ora reincentivate per poter sopravvivere ai guasti di un liberismo selvaggio, alle incertezze di una democrazia in balìa tra corruzione e guerra, ma soprattutto per affrontare la scoperta delle radicali ineguaglianze sociali. E intanto ci lasciamo alle spalle un’enorme statua di Lenin, che con il suo cipiglio rivoluzionario e gli abiti al vento sembra indicarci un futuro luminoso. Ma anche per lui non è andata poi così bene: gli è stato addirittura revocato il diritto sul nome della città.

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Leningrado non esiste più, anche se la rivoluzione bolscevica iniziò qui, il 7 novembre 1917, con la presa del Palazzo d’Inverno. Lenin è stato dimenticato sui piedistalli di pietra, cui più nessuno fa veramente caso. Intanto osservo una coppia di sposi che, raggelati nei loro sottili abiti nuziali, depongono fiori davanti all’altare dei caduti durante la lotta anti-nazista. "Si usa far così da noi". "Ma lo fanno anche con Lenin?" "No, visitiamo solo i monumenti che ricordano gli eroi e la storia della patria". Ma come si può parlare ora di patria di nazione, dopo la deflagrazione dell’URSS? Si ritorna allora al passato. Infatti lo stemma "nazionale" riprende ora quello imperiale, raffigurante un’aquila con due teste, a segno di un potere che guarda ad occidente e ad oriente, anche se lo "zar" non è più ora dato per volere divino, bensì mediante elezioni. E così ci vengono incontro edifici che si contraddistinguono per la loro bellezza, anche se spesso fatiscente. Hanno una squisita foggia europea, se non addirittura italiana. A partire dal XVII secolo lavorarono qui infatti famosi architetti "russi" o "sovietici", come dicono e dicevano le guide turistiche,dall’inequivocabile nome: Rastrelli e Carlo Rossi.

Le elezioni per il rinnovo del parlamento sono in effetti arrivate col fiato pesante, fra malcontento e disillusione. "Qui continuano ad ammazzare politici a tutti i livelli. Sembra che ci sia una banda specializzata al proposito", mi dice serio il mio accompagnatore, ripensando alla domanda iniziale. La politica ha ormai assunto un volto tragico. Nel novembre 1998 venne uccisa davanti alla porta di casa la nota deputata democratica Galina Starovoitova, che aveva prima sostenuto le riforme di Eltsin e aveva quindi iniziato alla Duma dure battaglie e indagini contro la mafia. Il caso rimane ancora irrisolto. Si pensa però che l’ordine sia arrivato "dall’alto", mentre anche la presidenza vacilla sotto il peso degli scandali. "Eltsin alla fine ha dovuto dimettersi", dico genericamente. "Sì, infatti era messo come Brezhnev", mi risponde laconico Sasha, impiegato in un’azienda mineraria, cui chiedo lumi sulla corsa alle future elezioni presidenziali. Ma che vorrà mai dire? Beh, la politica non sembra essere più di casa nel cuore dei russi. Prevale l’arte dolente e creativa dell’arrangiarsi, dell’inventarsi il domani sotto il peso mortale del freddo.

Le donne diventano il nerbo forte, di fronte a militari frustrati, a uomini soldati per tre anni, a mariti che si affogano nell’alcol, a studenti che vanno sempre peggio all’università, a figli che vogliono solo far soldi. Ma le donne sperano sempre nell’"età d’oro", come mi dice Ludmilla, direttrice di un ufficio comunale dedito agli affari sociali. Spera che ritorni il tempo di Caterina la Grande. "Ho una tesi. Che le cose vanno così male perché governano gli uomini. Combinano solo disastri, economici e politici." In Russia le donne hanno addirittura fondato un partito "Il movimento delle donne della Russia", che è riuscito però a racimolare solo il 2% dei consensi, per cui non verrà rappresentato alla Duma. Ma al di là dell’aumento del traffico di donne e della prostituzione, nelle donne c’è molta dignità nell’andare avanti nel disagio, nell’inventare occupazioni improbabili, nella forza civettuola dell’eleganza, nel piacere di apparire curate. Incredibile è la quantità di fogge di cappotti e cappelli che si vedono passare per la strada, mentre sembrano reclamare quella "distinzione" che prima era loro impedita.

Intanto non solo l’invasione di merci, colori e suoni hanno creato uno shock percettivo negli abitanti. C’è anche l’irruzione dei caratteri latini - o meglio delle scritte in inglese - che si impongono alle tradizionali lettere cirilliche. In effetti, i repentini mutamenti storici, la secolare inerzia, le difficoltà ambientali e i drammatici rivolgimenti politici hanno contribuito a rendere i russi, nel corso dei secoli, capaci di reagire alle peggiori devastazioni e persecuzioni. Ma San Pietroburgo, con l’eleganza dei suoi negozi, la bellezza dei suoi edifici, talvolta "rimodernizzati", con la splendida raccolta d’arte dell’Ermitage, non fa certo la Russia. La povertà è nelle campagne, nell’abbandono di enormi e remote aree periferiche, dove si continuava ad abitare grazie alle sovvenzioni statali. Ma le persone vivono ora di stenti.

"Mi sono rimesso a far politica da quando ho cominciato a vedere i miei pazienti morire poco alla volta", mi dice Konstantin, psichiatra. "Da quando le farmacie sono state privatizzate, la maggior parte dei cittadini non è più in grado di comprare le medicine necessarie. Gli anziani prendono 600 rubli al mese (25 rubli sono pari a un dollaro) e non possono certo permettersi di spendere soldi in cure. Quindi muoiono. Lo stesso vale per i bambini. Mangiano poco e il loro cibo contiene poche proteine. Il 70% della popolazione vive dunque sotto il minimo di sussistenza. Come possono funzionare le capacità umane? Stiamo perdendo enormi potenzialità. E intanto le nuove generazioni crescono vedendo la sempre più radicale differenza che separa i ricchi dai poveri: abbiamo bambini malnutriti e bambini che vengono invece accompagnati a scuola con le guardie del corpo. Io guadagno 1.300 rubli al mese, che devono essere ovviamente ripartiti fra mia moglie e i miei due figli."

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Difficile davvero convivere con la radicalizzazione della povertà. Il ricordo ideologico dell’uguaglianza socialista e della contrapposizione col capitalismo ha in effetti giocato un importante ruolo anche nelle recenti elezioni. Uno spot elettorale cercava in effetti di ricreare le suggestioni della grandezza del popolo russo/sovietico, mediante le immagini di campi dal copioso raccolto, operai al lavoro, vittorie durante la seconda guerra mondiale. Lavoro e patriottismo diventano quindi i simboli per rifondare l’idea politica dell’"uomo di ferro". Venivano ripresi gli avambracci di due uomini, uno con in mano il telefonino, l’altro col mattone; uno con l’orologio d’oro, l’altro con la camicia a quadri. Inizia fra di loro un estenuante braccio di ferro, mentre scorrono in sovrapposizione al singolar tenzone gli anni: 1991, 92,....,1999: il muscolo operaio sconfigge con un colpo secco il braccio dello yuppy. Semplice, ma chiaro il significato. Difficile è invece prevedere il reale peso che potrà avere alla Duma il Partito comunista, soprattutto per via di un primo ministro, quale Putin, definito da molti come il "nuovo Kennedy", paradossalmente rinforzato fra l’opinione pubblica dalla propaganda per la "patriottica" guerra in Cecenia.

La lotta per le elezioni si è consumata fra 30 partiti, ma solo 6 ce l’hanno fatta, dal momento che – con sistema proporzionale - per accedere al parlamento è stato necessario raggiungere la soglia del 5%. 450 sono stati i posti disponibili, di cui 250 eletti nele liste dei partiti, mentre i restanti 200 scelti dai distretti. Mi piacerebbe incontrare qualche neo-eletto. Chiedo a Natalya – ricercatrice universitaria - se posso incontrare qualcuno. "Sì, ho in mente chi potrebbe fare al tuo caso. E’ una donna molto intelligente, tipica bellezza russa. Era una famosa attrice ed è stata poi professoressa di retorica all’università. Ora è diventata comunista". Fisso così un appuntamento con Elena Drapeko, che mi viene incontro con la grazia e il sorriso di chi ha cavalcato molti palcoscenici. Nel 1972 ebbe addirittura una nomination all’Oscar come co-protagonista per il miglior film straniero: "The Dawns are quiet here", storia di 5 donne ed un uomo che, uno alla volta, vengono uccisi sul fronte dell’ultima guerra. Elena ebbe poi svariate onorificenze pubbliche e fu per anni presidente del sindacato sovietico degli artisti. Ora si occupa di politiche culturali, sociali ed educative, sicurezza sociale e famiglia.

Elena Drapeko aveva appoggiato con convinzione le riforme di Eltsin (dal 1993, dopo l’attacco alla "Casa Bianca"), ma aveva poi deciso di candidarsi per il Partito comunista, a seguito del lavoro svolto nel movimento "Spiritual Heritage" (fondato nel 1995). Si rifiutava di considerare il passato sovietico come completamente erroneo, come 70 anni di vacuo storico, quando ci sarebbero invece eredità da riprendere. E su questa convinzione si fonda anche il programma del Partito comunista russo, che Elena va riassumendomi: 1) che il budget nazionale sia di dominio pubblico e che il denaro non venga allocato in mani private o depositato in banche estere, bensì in istituti finanziari statali. 2) Che i giudici siano indipendenti dal Parlamento e dalle amministrazioni delle diverse città; i giudici sono infatti ora pagati dai politici. 3) Che vi sia una revisione delle politiche di privatizzazione, soprattutto delle infrastrutture e del diritto di proprietà che giace nel completo caos (ad esempio il mercato immobiliare è quasi fermo, perché la gente non si fida a vendere o a comprare case, con la paura di frodi poiché senza garanzie legali). 4) Che si riveda il diritto del lavoro, dal momento che ai sindacati non viene riconosciuto il diritto di intervenire nei conflitti, proteggendo i lavoratori. "Ma – chiedo - come si discosta il vostro programma, ad esempio, dal partito centro-sinistra Madrepatria – Tutta la Russia, guidato dall’ex primo ministro Primakov e dal potente sindaco moscovita Luzhkov, che è forse lo schieramento a voi più vicino?" "Dovremo in effetti prendere accordi con loro. Usano il tradizionale lessico della sinistra. Ma non abbiamo ancora letto il loro programma. Non per cattiva volontà, ma perché non lo abbiamo trovato in giro durante la campagna elettorale".

Molto il malcontento che serpeggia nell’aria: dalla delusione per le promesses de bonheur mancate dall’Occidente, fino al profondo scetticismo verso i governanti locali. L’élite intellettuale, che aveva appoggiato nei passati anni le riforme liberali, sarebbe ora virata a sinistra. Vi è stato infatti un crescente impauperimento dell’intellighenzia, sopraffatta dai nuovi professionisti e da affaristi senza scrupoli. Le università sarebbero quindi diventate un centro per la formazione di un pensiero radicale di sinistra. "Certo, anche gli intellettuali sono in crisi e disillusi. E non è che si sia in disaccordo con i punti salienti del programma dei comunisti e le loro richieste", mi dice Natalya, giornalista. "Tuttavia ci sono in giro ancora troppi nostalgici, con la memoria corta". "Costoro si sono già dimenticati di cosa fosse la cortina di ferro", interviene Andrej, che dopo aver studiato business aveva aperto con entusiasmo un’agenzia turistica, fallita subito dopo il crollo finanziario dell’agosto ’98; ora ha preferito ritornare a insegnare ad apprendisti uomini d’affari, per minimizzare i rischi dell’azienda privata. "Avevamo enormi limitazioni di pensiero e di azione – continua Andreij - e dovevamo subire l’oppressione del partito unico. Ora viene soprattutto ricordata la sicurezza sociale e il lavoro assicurato di un tempo. Ma che ne è del resto? No, non siamo davvero più attratti dall’ideologia della solidarietà di partito o dall’idea di proletariato. Di fatto stiamo vivendo una radicale spaccatura fra governo e società: i politici vogliono il potere, mentre la gente preferisce pensare alla propria sopravvivenza. Ma il passato non potrà più certo tornare".

Richieste politiche per trasformare l’oggi vengono dunque disgiunte dall’enfasi per ricomporre il passato sovietico. Intanto si è registrato un grande calo nell'affluenza alle urne. Hanno votato soprattutto adulti ed anziani, ben disciplinati all’abitudine rappresentativa. Da parte dei giovani non è stato invece dimostrato un grande interesse per le procedure democratiche. Intanto molti spettri si aggirano per la Russia: non è la paura neo-zarista, borghese e post-moderna per il ritorno del socialismo sovietico. E’ invece l’attesa fatalistica e spasmodica, nella previsione di possibili colpi di Stato, crolli finanziari, penurie insostenibili. Intanto si continua a riadattare biografie, a inventare creative strategie di sopravvivenza, ma soprattutto a scrutare un impervio futuro, a guardare ad un gelido orizzonte da dove non si vedrà più sorgere il "sol dell’avvenir".

 

 

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