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La libertà repubblicana


Massimo Rosati


Questo saggio appare sul numero 1 della Nuova Serie della rivista Filosofia e Questioni Pubbliche. Per ulteriori informazioni potete contattare Luiss Edizioni all'indirizzo e-mail edizioni@luiss.it

La tesi avanzata da Philip Pettit e da Quentin Skinner è una tesi dalle pretese forti. La tradizione di pensiero politico repubblicano è portatrice, così recita la tesi, di un’idea di libertà negativa che si differenzia da quella propria della tradizione liberale da tre punti di vista: storico, teorico e, per finire, pratico-politico. La tesi deve, inoltre, parte della sua radicalità al fatto che il bersaglio polemico al quale si rivolge non è il solo liberalismo classico (Hobbes e Locke), ma anche il liberalismo contemporaneo di sinistra derivato da J.S. Mill, ossia Rawls, Dworkin e Van Parijs (per stare agli autori esplicitamente chiamati in questione). Quello che intendo provare a chiarire in queste pagine è se la tesi, nei termini in cui viene formulata da Pettit e da Skinner, abbia effettivamente buone frecce al suo arco, o se invece essa non vada riformulata (ma con ciò in qualche misura difesa) o se, ancora più radicalmente, essa non vada del tutto lasciata cadere.

Libertà negativa, autogoverno e strumentalismo

 

Skinner e Pettit qualificano la libertà repubblicana come libertà dalla dipendenza/dominio, e insistono nell’interpretarla come una particolare versione della libertà negativa, sovvertendo la tradizionale equiparazione di repubblicanesimo e libertà positiva e, ancor più, di repubblicanesimo e aristotelismo. Essere liberi dalla dipendenza/dominio significa non essere soggetti alla volontà arbitraria di nessuno, non vivere alla mercé di un padrone. La metafora che meglio coglie questa accezione della libertà è quella delle relazioni tra servo e padrone, e il contrario della libertà nel senso repubblicano è la schiavitù, o la tirannia, in altre parole il potere arbitrario, e non invece l’interferenza o la presenza di constraints. La differenza tracciata rispetto al liberalismo è insomma quella che separa le dicotomie concettuali freedom vs. constrains (liberale) e freedom vs. slavery (repubblicana). La distinzione, come accennavo sopra, viene difesa sia da Skinner sia da Pettit da tre punti di vista: storico, analitico e politico-pratico; se riferita al liberalismo di Hobbes, e poi anche di Bentham e Berlin, ritengo che essa possa essere agevolmente difesa.

Contro Hobbes l’offensiva repubblicana prende le mosse da Harrington, il cui argomento sostanzialmente i teorici contemporanei del repubblicanesimo reiterano. In un famoso passo del Leviatano Hobbes ironizzava sull’idea repubblicana di libertà scolpita dai lucchesi all’ingresso delle mura della città:

There is written on the Turrets of the city of Lucca in great characters at this day, the word LIBERTAS; yet no man can thence interferre, that a particular man has more Libertie, or Immunitie from the service of the Commonwealth there, than in Constantinople. Whether a Commonwealth be Monarchical, or Popular, the Freedome is still the same.

A sua volta Harrington replicava evidenziando sostanzialmente tre aspetti: che la libertà repubblicana era da intendersi come libertà tramite la legge e non libertà dalla legge; che ciò significava che la libertà andava intesa come governo della legge e non degli uomini, e che, in fine, il governo della legge costituisce in ottica repubblicana lo strumento privilegiato contro l’arbitrarietà del potere tirannico:

The mountain hath brought forth and we have a little equivocation! For to say that a Lucchese hath no more liberty or immunity from the laws of Lucca than a Turk from those of Constantinople, and to say that a Lucchese hath no more liberty by the laws of Lucca than a Turk hath by those of Constantinople, are pretty different speeches.

In pratica Harrington metteva a nudo la differenza tra libertà dalla semplice interferenza e libertà dalla dipendenza/dominio. Analiticamente, la differenza è intuitiva se si pensa alla possibilità di casi di dominio senza che sia esercitata interferenza effettiva e, viceversa, casi d’interferenza senza dominio, cioè interferenza non arbitraria. I casi di dominio senza interferenza sono esattamente quello che la metafora del servo/padrone coglie al meglio. Di fatto è possibile che il servo goda della stessa assenza d’interferenza nella sua vita di un libbre, in virtù della benevolenza del suo padrone. Ciò non basta però, com’è intuitivamente chiaro, a farne un uomo libero. La libertà coincide infatti con quella protezione che solo i diritti possono fornire, in quanto sistema che rende la libertà sicura. Questa è una dimensione su cui tanto Pettit quanto Skinner insistono fortemente.

Il repubblicanesimo è associato ad una teoria della libertà sicura, alla qualità resilient della libertà, ossia alla possibilità di ripristinare la libertà in presenza di corsi d’azione in cui ci sia interferenza arbitraria. Inoltre, a questa teoria della libertà sicura, Pettit e Skinner associano una dimensione psicologica. È solo infatti la consapevolezza della libertà goduta come diritto e non come gentile concessione, e la consapevolezza di poter impugnare in caso di violazione dei propri diritti la legge, anziché dover fare ricorso alla benevolenza di qualcuno in posizione dominante (e il fatto che questa consapevolezza sia comune a tutte le parti in causa), che fa di un uomo un uomo libero e non un servo, e che mette tutti in condizione di «guardarsi negli occhi». Si tratta di un elemento antigerarchico, di eguaglianza «ontologica», che è a mio giudizio al cuore della nozione repubblicana e democratica di eguaglianza.

Con questo arriviamo al terzo livello al quale Pettit e Skinner vogliono far valere la difesa della specificità della libertà dalla dipendenza/dominio, il livello pratico-politico. Non intendo questa espressione nel solo senso delle politiche che possono discendere da una concezione della libertà di questo genere, a differenza delle politiche che possono invece derivare dall’idea della libertà come sola assenza di interferenza (che pure può essere fatto rilevante ed interessante). Piuttosto due punti mi sembrano centrali nell’argomentazione di Skinner e Pettit. Il primo ha a che fare con il ruolo e la concezione della legge, il secondo con il ruolo e l’apprezzamento delle libertà di. Quanto al primo punto, Skinner e Pettit (come anche J.F. Spitz) rimproverano al liberalismo di Hobbes e Locke l’idea secondo cui la libertà, per stare alle formulazioni classiche, inizia là dove la legge tace.

Naturalmente la legge ha un ruolo fondamentale anche nella tradizione liberale, ma quale male minore, indispensabile alla protezione di aree di non interferenza; tuttavia di per sé essa è fattore di interferenza, e quindi di coercizione della libertà individuale. L’osservazione vale, credo con pochi dubbi, contro Hobbes e Locke, ma ancora contro il Berlin dei famosi saggi sulla libertà. Viceversa, nella tradizione repubblicana legge e libertà sono legate da un nesso non solo strumentale: la legge costituisce la libertà dei singoli e della collettività. Detto diversamente, il punto è che per il repubblicanesimo non ha alcun senso parlare di libertà e diritti naturali, in quanto libertà e diritti sono fin dall’inizio legati alla presenza di un quadro istituzionale che li fonda e protegge, o altrimenti essi non sono affatto. Questo è il punto specificamente machiavelliano del discorso repubblicano à la Skinner e Pettit: l’enfasi di Machiavelli sul nesso tra libertà dello stato e libertà dei cittadini trova giustificazione nella necessità di difendere razionalmente la cornice che garantisce ai singoli di godere in sicurezza e pace dei loro diritti privati, anziché, aristotelicamente, dall’idea secondo cui la politica ed il vivere civile rappresentano la forma per definizione migliore di perseguimento della vita buona e di realizzazione di una presunta natura umana.

Alla luce di questa idea di libertà dalla dipendenza/dominio, e del nesso che essa richiede tra libertà comune e libertà dei singoli, anche l’enfasi sulla partecipazione alla res publica acquista un carattere squisitamente strumentale, tanto in Skinner quanto in Pettit. Soprattutto il primo ne fa un punto importante della sua critica al liberalismo, anche contemporaneo. Secondo Skinner il liberalismo, perdendo di vista il nesso tra libertà dello Stato e libertà dei cittadini, perde anche di vista tutto ciò che consente il mantenimento della libertà. Se il liberalismo si arrocca sulla difesa dei diritti, il repubblicanesimo ritiene più razionale e coerente parlare dei doveri dei cittadini, doveri di partecipazione attraverso i quali i diritti dei singoli vengono difesi e garantiti. Il punto, banale a prima vista, diventa più qualificante se si tiene conto che da Hobbes fino a Berlin la libertà negativa (intesa come assenza di interferenza) non ha nessun nesso necessario con l’idea dell’autogoverno democratico:

Liberty in this sense [libertà come assenza di interferenza] is not incompatible with some kinds of autocracy, or at any rate with the absence of self-government. Liberty in this sense is principally concerned with the area of control, not with its source. [...] It is perfectly conceivable that a liberal-minded despot would allow his subjects a large measure of personal freedom [...] Freedom in this sense is not, at any rate logically, connected with democracy or self-government. Self-government may, on the whole, provide a better guarantee of the preservation of civil liberties than an older régimes, and has been defended as such by libertarians. But there is no necessary connection between individual liberty and the democratic rule.

La lezione repubblicana invece, dall’ottica di Skinner, consiste nell’idea secondo cui libertà dalla dipendenza e autogoverno democratico sono indissolubilmente legati. Autogoverno, tuttavia, inteso qui come libertà di partecipazione, voto, libertà politiche in sostanza. Già Cicerone ricordava che essere liberi non significa avere un buon padrone, ma non averne affatto, e questa è anche la lezione da trarre, secondo Skinner, dall’esperienza storica e teorica delle repubbliche italiane.

La concezione skinneriana e di Pettit della libertà dalla dipendenza/dominio è quindi negativa in un duplice senso: in primo luogo perché il suo termine di riferimento normativo è la libertà del singolo, dell’individuo, e non la volontà generale anche a costo della coercizione della libertà del singolo (come invece secondo Bentham) e, in secondo luogo, perché anche le libertà di, da non confondersi con la libertà positiva propriamente intesa, rivestono un carattere strumentale e non «essenzialista». Ciò nonostante, argomentano Pettit e Skinner, la libertà dalla dipendenza/dominio illumina una faccia dell’ideale della libertà non colto dall’idea di libertà dall’interferenza e, in secondo luogo, obbliga ad una riarticolazione del nesso libertà-legge-doveri verso il bene comune che sfugge al liberalismo classico. E contemporaneo. Ma qui il discorso si complica.

Skinner rimprovera a Rawls sostanzialmente di sottostimare il nesso tra libertà dello Stato e libertà dei cittadini, cosicché il fine della massimizzazione della libertà dei singoli dovrebbe essere perseguito, secondo Rawls, attraverso la tradizionale strategia del rispetto da parte dello Stato del diritto dei singoli di non subire indebite interferenze nella loro vita. Pettit, nei pochissimi cenni che dedica a Rawls, sostiene più o meno lo stesso, richiamando il concetto secondo cui la libertà può essere costretta solo in nome della libertà stessa, affermazione che equivarrebbe a equiparare la legge ad un fattore restrittivo della libertà (la libertà inizia invece dove la legge tace, nella linea Hobbes-Locke). In sostanza, tanto per Pettit quanto per Skinner, Rawls condividerebbe con Berlin e la tradizione del liberalismo classico l’idea di libertà come assenza di interferenza. A sua volta ciò porterebbe alla sottostima del ruolo che le libertà di e i doveri civici giocano nel mantenimento della libertà.

Qui i toni di Skinner si fanno più forti e aspri, a indicare che questo sembra essere il vero punto di scontro: il liberalismo, compreso quello contemporaneo di sinistra, non ha una visione razionale del modo in cui la libertà negativa dei singoli individui va difesa, a prezzo cioè della «eterna vigilanza». La retorica dei diritti come trumps, e qui è ovviamente Dworkin il bersaglio polemico, ha anzi – anche dal punto di vista pedagogico – l’effetto contrario di erodere se non l’appeal almeno la consapevolezza della necessità della partecipazione alla vita pubblica quale strumento di difesa della libertà comune e quindi di ciascuno. L’uso implicito dell’idea di libertà dall’interferenza farebbe sì che il liberalismo, di un Rawls o di un Dworkin, non sia abbastanza avvertito nei confronti di quella dimensione di responsabilità individuale, verso la propria libertà e verso quella della collettività, da cui la libertà dalla dipendenza-dominio non può prescindere.

Sopra ho affermato che la differenza tra libertà dalla dipendenza/dominio e libertà dall’interferenza sta in piedi sia dal punto di vista storico che analitico e pratico-politico con riguardo al liberalismo classico e, tanto più, con riguardo a quello dei libertarians. Tuttavia, con riguardo al liberalismo di sinistra contemporaneo, è probabilmente vero che Skinner e Pettit mancano di una certa finezza di analisi. Per quanto la «messa a fuoco» del concetto di libertà dalla dipendenza/dominio sia recente, già alcune voci si sono levate contro la pretesa di fondare su questa distinzione una teoria alternativa al liberalismo. Anche infatti laddove si accetta la distinzione tra un repubblicanesimo di matrice aristotelica ed uno invece di matrice machiavelliana (che è l’unico che ci interessa in questa sede), si rigetta la tesi della incapacità del liberalismo di comprendere in sé l’idea di libertà dalla dipendenza/dominio. Quello che si rimprovera a Skinner e Pettit è di caricaturizzare il liberalismo di sinistra schiacciandolo sul libertarianism, con un’operazione che cela lo spazio che nelle teorie di Rawls, Dworkin o altri liberali, hanno le idee di doveri, libertà dalla dipendenza/dominio e così via. Non intendo esporre queste contro-critiche liberali, avanzate in questo numero da Ferrara e Maffettone.

Quello che mi interessa è fare, in un certo senso, il punto. Se le contro-obiezioni da parte liberale alla effettiva capacità dell’idea repubblicana di libertà, così come avanzata da Pettit e Skinner, di marcare differenze qualitativamente apprezzabili rispetto al liberalismo stanno in piedi, come tutto sommato sono incline a credere, siamo di fronte a tre strade: o concludere che il repubblicanesimo, anche nella versione machiavelliana, non rappresenta un valore aggiunto né tanto meno una reale alternativa al liberalismo, ma solo l’ennesimo pungolo critico e complemento di una filosofia politica (quella liberale) che di tanto in tanto ha bisogno di essere sollecitata, come è già avvenuto nel passato recente e meno recente; o concludere, con una tesi di storia delle idee, che il liberalismo altro non è che un repubblicanesimo derivato ma indebolito (secondo la provocatoria tesi di Maurizio Viroli), lasciando però irrisolto il nodo teorico sul presente ed il futuro del repubblicanesimo; oppure, come terza possibilità, semplicemente domandarsi se la versione offerta da Pettit e Skinner della libertà dalla dipendenza/dominio rappresenti effettivamente l’unica possibile messa a fuoco di questo concetto, o se, per finire, la specificità del repubblicanesimo non vada cercata altrove, nell’idea ad esempio di conflitto o in un’immagine deliberativa ma non razionalista della politica. Personalmente, ritengo che ciascuno di questi elementi costituisca il tassello di un mosaico il cui risultato finale è qualcosa di diverso, e più rispondente ad un’idea radicale di democrazia, dal liberalismo.

Tuttavia, credo anche che la nozione di libertà dalla dipendenza/dominio rappresenti un punto centrale, che è stato merito di Skinner e Pettit riportare alla nostra attenzione, ma anche che nella versione che essi ce ne offrono rimanga un potenziale inespresso che la rende più vulnerabile alle contro-critiche liberali. L’esercizio, nelle pagine seguenti, sarà quindi quello di pensare l’idea di libertà dalla dipendenza/dominio in parte contro Skinner e Pettit.

Libertà dalla dipendenza/dominio come concetto di status e come libertà positiva

Le linee lungo le quali credo che valga la pena approfondire l’idea di libertà dalla dipendenza/dominio sono due: da una parte l’accentuazione della valenza sociologica dei concetti di dipendenza e dominio, e dall’altra la riabilitazione del momento «positivo» insito nella libertà repubblicana.

Sia Pettit che Skinner, come anche J.F. Spitz, accennano al primo punto. Richiamandosi alla definizione romana (repubblicana ovviamente) della libertà, essi definiscono la libertà non in termini di azione sociale, né in termini di volontà (la differenza che passa per Bobbio tra libertà negativa e positiva propriamente intese), ma in termini di rapporto sociale tra consociati aventi eguale potere entro una comunità politica. Ch. Wirszubski, in uno studio sull’idea di libertas nella Roma repubblicana, sottolinea proprio questo punto, evidenziando come libertà sia di fatto equivalente a cittadinanza, ossia eguale status che costituisce tramite il governo della legge al tempo stesso diritti e doveri reciproci dei cittadini. Ovviamente questa idea di libertà come status implica, per Wirszubski, sia diritti negativi che diritti di partecipazione, evidentemente complementari. Ma il punto è che l’attribuzione dello status di cittadino, e quindi dell’eguaglianza politica, fonda in partenza tutti gli altri diritti. La libertà dalla dipendenza, che Wirszubski riconduce alla opposizione tra liber e servus, è condizione anche della assenza di dipendenza intesa come libera volontà, ossia come autonomia, non essere soggetti ad altra legge che alla propria.

L’idea della libertà come concetto di status non è nuova nel pensiero politico. Anzi, in un certo senso è la più antica che esista. C.S. Lewis ne rintraccia l’origine nel greco «eleutheros», prima ancora che nel latino «liber», ed infatti alla radice la concezione sembra, diversamente da quanto sostiene Skinner, idea greca prima ancora che romana. Anche nei «luoghi» ormai classici nella filosofia politica contemporanea in cui l’idea di libertà è stata analizzata, a questa idea di libertà è sempre stata attribuita una sua autonomia rispetto alla libertà negativa e positiva, anche se poi, nei casi più influenti, essa è stata considerata una categoria residuale e ormai ininfluente, quando non pericolosa. Vorrei soffermarmi per un momento su alcuni di questi luoghi classici, o almeno degni di nota.

Già nel 1980, sottolineando la stretta relazione tra libertà come legal status word e il ruolo della legge, J. Feinberg tracciava la differenza tra libertà dall’interferenza e libertà dalla dipendenza/dominio (nel nostro vocabolario) come segue:

there is, however, one crucial difference between de jure liberties of the freeman and those «permitted» to the slave. The freeman enjoys some of his legal liberties as a matter of right: no one else is permitted to nullify or withdraw them. When they are slow to be acknowledged, or where they appear to be withheld, he may lay claim to them and demand them as his due. If other violetes them he will properly feel not merely hurt but wronged. Some of his de jure liberties are correlated logically with other people’s duties of action and forebearance, and even with the state’s duties of enforcement and support. They are, in short, rights.

Né più né meno di quanto affermato da Pettit, con la stessa sottolineatura oltre tutto della valenza psicologica ed egualitaria in senso ontologico che la eguale attribuzione dello status di cittadinanza comporta. Feinberg, inoltre, completa la definizione di questa idea di libertà riferendosi ad essa come non solo ad un concetto di status, ma anche come ad un concetto (di status) cui è associata l’idea di virtù. In sostanza Feinberg sostiene, non a torto, che l’idea repubblicana di uomo libero rimanda anche alla descrizione di alcuni tratti caratteriali, di alcune virtù dell’uomo libero: capacità di contare su stesso, non dipendenza dall’opinione altrui, onore e così via. Feinberg non ne tira le possibili conclusioni, ma questo potrebbe significare che il repubblicanesimo è, nei termini rawlsiani, una teoria comprensiva e perfezionista, nella misura in cui sostiene che certi tratti del carattere andrebbero «educati» al fine di conservare la libertà: il circolo rousseauiano insomma tra virtù, patriottismo e libertà repubblicana, che potrebbe rendere per alcuni il repubblicanesimo meno attraente di quanto sia isolando analiticamente la sola idea di libertà dalla dipendenza/dominio dal resto della teoria repubblicana (operazione che sembrano condurre in effetti Skinner e Pettit).

Perfino Berlin, nel classico Due concetti della libertà, dedica un paragrafo alla «ricerca dello status», quale approccio al tema della libertà diverso tanto dalla libertà negativa quanto da quella positiva. Il punto, per Berlin, è che se il concetto di status ha una sua autonomia rispetto alle due concezioni antagoniste della libertà, non può però dirsi propriamente un concetto di libertà, ma piuttosto di solidarietà, fratellanza ed eguaglianza. In questo caso infatti la richiesta non sarebbe tanto quella di essere liberato da certe aree di interferenza, quanto piuttosto quella di non essere ignorato, di essere riconosciuto parte di una comunità dotata essa di libertà negativa. Il riconoscimento della mia identità passa in questo caso per il riconoscimento del mio status di piena cittadinanza all’interno di un gruppo libero nel senso della libertà negativa. Sentirsi non liberi significa o non essere riconosciuti membri, o sentirsi membri di un gruppo non sufficientemente riconosciuto, a cui non è accordato pari rispetto. Per Berlin si tratterebbe, come accennato, di un errore categoriale, poiché più che la libertà qui sarebbe in questione una richiesta di inclusione, eguaglianza e solidarietà. Inoltre, l’esito di questa falsa concezione della libertà sarebbe al fondo illiberale, data la sua somiglianza con le classiche concezioni organicistiche.

Anche Tim Gray, nel classico Freedom, attribuisce un posto all’idea di libertà come status, riconducendola correttamente in primo luogo ad un’idea di ascrizione, ed in secondo luogo alla dimensione dell’azione sociale. L’appartenenza ad una trama di relazioni sociali libere dal dominio è la condizione dell’azione libera (nel senso della libertà negativa) dei singoli cittadini. Ciò significa, sottolinea Gray, che libertà in questo senso è equivalente a cittadinanza, e che il suo ambito proprio è quello pubblico, prima ancora che quello privato. Se questo può dar luogo alle critiche di cui anche Berlin è portavoce, ossia all’idea secondo cui si tratterebbe più di una prospettiva sull’identità e la solidarietà che sulla libertà, Gray si preoccupa di sciogliere questo nodo dimostrando che, a suo giudizio, libertà come status rientra nella concezione triadica di MacCallum, seppure lasciando alcuni termini impliciti, cosicché ad essa si può effettivamente attribuire il titolo di concezione della libertà.

Questi pochi cenni alle classiche analisi del concetto di libertà bastano forse a mostrarci come all’idea di libertà come status o cittadinanza, che Pettit e Skinner affermano essere propria della concezione repubblicana e sinonimo di libertà dalla dipendenza/dominio, è stata nel tempo riconosciuta una qualche specificità, senza però che ne sia stato colto del tutto il potenziale. A mio giudizio, questo potenziale può forse diventare un po’ più chiaro se si tiene conto di due aspetti: essa consente una cucitura ben più immediata delle idee di libertà, eguaglianza e solidarietà di quanto permetta l’idea di libertà dall’interferenza liberale, e dall’altra consente di individuare con maggiore chiarezza la mappa delle forme di dipendenza e dominio proprie del mondo contemporaneo che si annidano nelle diverse sfere sociali, specificamente in virtù di una reattività maggiore al nesso tra libertà e cultura. Per chiarire meglio tutto ciò ci sarebbe bisogno, come accennavo, di un’analisi più schiettamente sociologica del concetto di status, che non è possibile ovviamente condurre qui. Tuttavia, vorrei provare a dire qualcosa in più sui due punti di cui sopra.

 

Progetto Ottantanove. Per fare un passo in avanti rispetto alla tesi di Skinner e Pettit bisogna, come detto, poter sostenere che la differenza tra libertà come assenza di dipendenza/dominio e libertà come assenza di interferenza persiste non solo se assumiamo come riferimento il liberismo classico o quello dei libertarians, ma anche il liberalismo di sinistra, della tradizione J.S. Mill-Rawls per intenderci, che è il liberalismo che mi interessa. Proverò a cercare queste differenze dentro l’opera di Rawls, seguendo anche in questo caso le tesi in particolare di Spitz e Skinner, con due premesse: la prima è che assumo Rawls come riferimento in un certo senso paradigmatico, pur sapendo che ad esempio Dworkin o magari meglio ancora Ackerman possono avere su singoli punti posizioni più vicine al repubblicanesimo, senza che però questo sposti i termini generali della questione; la seconda è che prescinderò dalle differenze tra Una teoria della giustizia e Liberalismo politico, pure rilevanti, anche ai fini del nostro discorso, ma solo su questioni «marginali», poiché credo che sul nocciolo del mio esercizio interpretativo, ossia l’idea di libertà, tra le due opere non intercorrano differenze sostanziali.

Alla definizione dell’idea di libertà semmai Rawls dedica più spazio in Una teoria della giustizia. Nel paragrafo 32 infatti egli usa la definizione di libertà data da MacCallum per aggirare il problema della dicotomia tra libertà negativa e positiva. Cito da Rawls:

di conseguenza, assumerò semplicemente che la libertà possa sempre essere spiegata riferendosi a tre elementi: gli agenti quali esseri liberi, le restrizioni o limitazioni da cui sono liberi, e ciò che sono liberi di fare o non fare. Le spiegazioni complete della libertà forniscono l’informazione pertinente a queste tre cose. [...] La descrizione generale della libertà quindi ha la seguente forma: questa o quella persona (o persone) è libera (o non libera) da questo o quel vincolo (o insieme di vincoli) di fare (o non fare) questo o quello. [...] Le persone hanno così la libertà di fare una cosa, quando sono libere da certi vincoli che riguardano il farla o non farla, e quando il farla o non farla è protetto contro l’interferenza di altre persone.

L’assunzione da parte di Rawls di questa idea della libertà come assenza di interferenza ha tre conseguenze, relative a) al nesso tra libertà e eguaglianza; b) al nesso tra libertà e eguale valore della libertà e c) al nesso tra libertà civili e libertà politiche, libertà e bene comune. Si tratta cioè di tre punti costitutivi l’idea repubblicana di libertà dal dominio/dipendenza.

a) Quanto al primo punto, Rawls può separare logicamente la domanda intorno al perché vogliamo essere liberi da quella sul perché vogliamo eguali libertà. La risposta alla prima domanda, perché vogliamo essere liberi, consiste nel fatto che la libertà ci consente di perseguire e realizzare i fini che riteniamo parte della nostra idea di vita buona. La risposta alla seconda domanda viene invece dal fatto che ai singoli soggetti in posizione originaria conviene scegliere dei principi egualitari, e quindi anche una eguale distribuzione della libertà, poiché diversamente non potrebbero sapere se a fare le spese di una distribuzione ineguale non sarebbero proprio loro. Quindi, se è chiaro che il nesso tra libertà ed eguaglianza è fortemente affermato, tuttavia è altrettanto evidente che logicamente le due domande possono essere distinte. Il punto cioè è che è possibile immaginare la libertà senza una sua eguale distribuzione, e che se il valore dell’eguaglianza si va ad accostare a quello della libertà ciò avviene per ragioni strumentali, e non perché essi siano costitutivamente correlati, come nel caso di libertà dalla dipendenza/dominio. Concettualmente può esistere una libertà ineguale, mentre nel caso della libertà dal dominio ciò comporta la distruzione della libertà anche per chi sembra goderne una porzione maggiore. Se Rawls può immaginare le due domande indipendentemente l’una dall’altra è perché guarda alla libertà, come sopra definita, come ad una sorta di potere del soggetto, come ad un suo possesso, e non come ad uno status di eguaglianza espresso dalla cittadinanza, che rende autocontraddittoria l’idea di una ineguale libertà. L’ineguaglianza della libertà è per Rawls ovviamente un problema morale e politico, mentre dal punto di vista repubblicano è un problema di coerenza interna del concetto di libertà.

b) Lo stesso dicasi per la plausibilità che Rawls attribuisce ad uno stato di ineguale distribuzione del valore della libertà, nei casi in cui comunque questo ineguale valore soddisfi il principio di differenza. Ancora nel paragrafo 32 Rawls scrive che

la libertà in quanto eguale libertà è la stessa per tutti; non si può dare nulla in cambio di una libertà minore di quella eguale. Ma il valore della libertà non è lo stesso per tutti. Alcuni hanno maggiore autorità e ricchezza, e quindi maggiori mezzi per raggiungere i loro scopi. Tuttavia, si può dare qualcosa in cambio di un minore valore della libertà, poiché la capacità che i membri meno fortunati della società hanno di raggiungere i propri fini sarebbe ancora minore se essi non accettassero le ineguaglianze esistenti, in tutti i casi in cui sia soddisfatto il principio di differenza.

Ancora una volta l’argomento è perfettamente corretto se lo si guarda dal punto di vista di una libertà equiparata alle opportunità di azione del soggetto, ma non lo è più se il punto di vista diventa quello di una libertà sinonimo di eguale potere tra concittadini, di status paritario di cittadinanza. La maggiore autorità e ricchezza di alcuni, che accresce il valore della loro libertà, incrina uno status di eguaglianza e oltre certe soglie rimette in circolo logiche di dipendenza, al di là delle interferenze realmente esercitate a danno dei meno fortunati.

c) Da ultimo, rivelatore del senso logicamente diverso del concetto di libertà rawlsiano rispetto alla libertà dal dominio è il nesso tra libertà civili e libertà politiche. Nel paragrafo 37 Rawls discute le limitazioni al principio di partecipazione. Esse possono riguardare due casi, senza violare la giustizia: quando si stabiliscono dei meccanismi costituzionali che limitano la regola di maggioranza, la quale lasciata a se stessa può arrivare a mettere a rischio le libertà personali; e quando si attribuisce maggiore valore alla libertà politica di persone «dotate di maggiore saggezza e giudizio», meglio in grado di stabilire la rotta della nave dello Stato. Nel primo come nel secondo caso si tratta di limitare le libertà politiche in quanto questa limitazione rappresenta una forma di tutela migliore delle libertà personali. Anche in questo caso emerge chiaramente come nell’idea di libertà rawlsiana le libertà personali vengano concettualmente prima di quelle politiche. La conseguenza è che la cura del bene comune diventa strumentale alla difesa delle libertà personali, e non un tutt’uno con esse come nel caso in cui si ritenga che solo lo status dell’eguale cittadinanza fondi la libertà negativa dei singoli. Ciò spiega la peculiarità del vocabolario repubblicano, fatto di virtù civica, patriottismo, integrità dei costumi, doveri verso la collettività, il repubblicanesimo inteso insomma come etica politica, come ethos democratico, come modo di sentire e praticare la democrazia (secondo una definizione di Rusconi), che ha la sua giustificazione e ragion d’essere nell’idea di libertà dalla dipendenza/dominio.

 

Le forme della dipendenza/dominio. Il secondo punto a partire dal quale a mio giudizio le potenzialità dell’idea repubblicana di libertà dal dominio possono essere meglio illustrate riguarda la luce che essa può gettare sulle moderne forme della dipendenza/dominio, che l’idea di libertà dall’interferenza non consente invece di cogliere. Brevemente, una mappa di queste forme della dipendenza/dominio copre, purtroppo, tutte le sfere sociali: da quella politica (in cui libertà continua a significare autogoverno, democrazia dualista nei termini di Ackerman) a quella economica (democrazia economica), a quella della giustizia distributiva (in cui la libertà dal dominio è stata pensata da Walzer nei termini della giustizia complessa). Inoltre, se si pensa a quanto detto sopra a proposito della libertà come concetto di status e della sua sensibilità nei confronti del rapporto tra libertà e cultura, è chiaro che una delle sfere verso cui questa idea è più sensibile è quella culturale e dell’eguale rispetto e riconoscimento tra culture. Il vasto e complesso continente del multiculturalismo mi sembra un naturale terreno di prova per l’idea repubblicana di libertà. Se si leggono le pagine di Kymlicka a partire dall’idea repubblicana di libertà come eguale status di cittadinanza, la strategia difensiva che quest’ultimo è costretto a mettere in campo per dimostrare la compatibilità del liberalismo con una libertà rispettosa del particolarismo delle culture non ha più ragion d’essere, nel senso che il repubblicanesimo e la sua idea di libertà offrono una via d’accesso molto più diretta e meno tortuosa all’emancipazione ed all’eguale rispetto delle minoranze culturali, nel senso non solo etnico (e restrittivo) in cui le intende Kymlicka, ma nel senso più ampio degli stili di vita.

La critica repubblicana alla dipendenza/dominio, sebbene assegni alla politica un posto assolutamente centrale, non si esaurisce in quella sola dimensione. Pettit ad esempio ascrive tra le cause repubblicane questioni che vanno dalla democrazia economica al riconoscimento paritario delle differenze culturali, dalle questioni ambientali ai diritti degli animali. Per quanto l’elenco sia forse un po’ eccessivo, una ragione profonda di questo ampliamento del raggio d’applicazione del concetto di libertà dal dominio/dipendenza sta nella stessa storia del repubblicanesimo, che non ha mai concepito la priorità della politica come cecità nei confronti delle altre forme di dominio e ineguaglianza non politica. A questo punto però è necessario un profondo ripensamento sociologico delle categorie che usiamo. Dominio, nel senso weberiano, è riferito al solo potere politico, alla capacità di ottenere obbedienza ad un comando.

Il concetto di potere invece è più ampio, e notoriamente triadico: si riferisce non alla sola dimensione politica, ma anche a quella economica e culturale. Ricchezza, forza e possibilità di negare il riconoscimento al valore della vita altrui, l’identità in buona sostanza, sono tre risorse attivabili dal potere che, come Gianfranco Poggi ha recentemente mostrato, vanno a fare presa su corrispettive forme di vulnerabilità dei sottoposti. Se al repubblicanesimo si guarda come a quella teoria che fa della libertà dal potere il suo argomento centrale, le differenze rispetto al liberalismo si accentuano ulteriormente. È un fatto di economia concettuale. All’idea della libertà dall’interferenza, a cui si appoggia ancora Rawls come si è visto, sfugge tutta una dimensione di rapporti verticali che riguardano la sfera politica, economica e culturale in senso lato, che è invece colta dall’idea repubblicana di libertà. Come se non bastasse, la tenuta logica di questa idea di libertà dal potere ha caratteristiche tali per cui è inscindibile dall’idea di eguaglianza e di bene comune. Non si tratta di concetti, e valori, estranei al liberalismo, e tanto meno a quello di Rawls e degli altri liberali di sinistra dell’ultima generazione, ma di valori che questi ultimi devono rincorrere nel tentativo di renderli coerenti, sulla spinta degli stimoli critici, con la propria idea della libertà. Idea che di per sé, intrinsecamente, non richiede un nesso con l’eguaglianza e il bene comune, e non serve da lanterna per rischiarare i rapporti di dipendenza e dominio all’interno delle diverse sfere sociali.

 

Libertà positiva e autenticità. La seconda direttrice lungo la quale approfondire rispetto a Skinner e Pettit l’idea repubblicana di libertà consiste, a mio giudizio, nel ripensamento del ruolo della dimensione positiva della libertà e nella natura stessa di quest’ultima. Come si è detto, tanto Skinner quanto Pettit fanno dell’interpretazione della libertà dal dominio/dipendenza quale forma di libertà negativa, una sorta di Fort Alamo del repubblicanesimo, pena la ricaduta, così sembra di capire, nella tradizionale equiparazione di repubblicanesimo e libertà positiva. Tuttavia, è difficile aggirare il nodo della libertà positiva quando, come ripetutamente fa Skinner, si definisce la libertà dalla dipendenza come self-government, e come possibilità di rispondere solo alla propria volontà e alla propria legge. Skinner tenta di limitare gli spazi della componente non negativa della libertà con una interpretazione strumentale, come si è detto, della libertà di, della componente cioè partecipatoria. Tuttavia questa sembra una riduzione davvero difficilmente accettabile e, questo sì, un errore categoriale.

L’errore categoriale consiste nell’equiparazione di libertà positiva e libertà di. Secondo la lezione di Bobbio invece, la libertà di, propriamente intesa, non è che una forma di libertà negativa, rimanendo anch’essa, al pari delle libertà da, entro la sfera dell’azione. La libertà positiva invece, propriamente intesa, riguarda non la sfera dell’azione, quanto quella della volontà. Di conseguenza si può continuare a sostenere la natura strumentale della virtù politica della partecipazione alla res publica, contro la tradizione aristotelica che ne fa la forma di vita buona che realizza una pretesa natura umana, e non per questo aver chiuso i conti con l’idea di libertà positiva. Se questo può forse fugare il primo dei timori di Skinner, e cioè che si torni all’idea del repubblicanesimo come teoria aristotelica, il secondo dei timori di Skinner ha a che fare con una interpretazione essenzialista della libertà positiva, che espone alle ben note critiche di Berlin.

Interpretare l’idea di libertà dalla dipendenza, e cioè dell’autogoverno, come volontà di obbedire solo alla propria legge (libertà positiva nel senso di Bobbio) apre, schematicamente, il discorso sulla libertà repubblicana a due grandi questioni: il dibattito tra l’interpretazione di questa formula in termini di autonomia o autenticità, e, all’interno del versante eudaimonistico, tra una interpretazione comunitaria ed una postmetafisica del concetto stesso di eudaimonia. Inoltre, bisognerebbe distinguere tra approcci che fanno perno concettualmente su un’antropologia filosofica e approcci che invece rifuggono da questa strada. Non potendo entrare qui nel merito di queste questioni, vorrei limitarmi a segnalare come, a mio avviso, sia difficile sottrarre alla concezione repubblicana della libertà e della politica una dimensione espressiva, che se non ne esaurisce la natura pure costituisce un ulteriore elemento di differenziazione rispetto al liberalismo.

Conclusione

La competizione tra teorie politiche mira normalmente a cogliere sempre meglio alcuni aspetti dei valori politici che sono alla base della nostra vita democratica. In questo caso la competizione tra il liberalismo contemporaneo «di sinistra», il progressive liberalism, e il repubblicanesimo ha per oggetto l’interpretazione del valore della libertà, politica in primo luogo, pur all’interno di una prossimità molto maggiore tra queste due teorie di quanta ce ne sia tra liberal-repubblicanesimo ed altre prospettive, come il liberalismo pluralista (à la Dahl per intenderci) o il libertarianism. Nelle pagine precedenti ho provato a sostenere che la recente proposta di Skinner e Pettit di considerare la concezione della libertà dalla dipendenza/dominio come il fulcro della teoria politica repubblicana rappresenta un aspetto centrale, anche se non l’unico, di una strategia che mira alla comprensione di alcuni aspetti del valore politico della libertà che non vengono colti né dalla classica interpretazione della libertà dall’interferenza né dall’idea di libertà insita nelle teorie di un autore come Rawls. Tuttavia, perché l’idea di libertà dalla dipendenza/dominio possa dare i suoi frutti migliori, ho anche sostenuto che essa deve essere letta in modo parzialmente differente e contrario rispetto alle intenzioni di Skinner e Pettit, ossia da una parte approfondendo le valenze sociologiche di questa concezione della libertà come centrata sulla nozione di eguale status di cittadinanza (piuttosto che come inerente in primo luogo la dimensione dell’azione sociale) e, dall’altra, recuperando una nozione eudaimonistica in senso postmetafisico dell’idea di libertà positiva. Questa duplice «correzione» della strategia di Skinner e Pettit consentirebbe, a mio avviso, da una parte di cogliere meglio il nesso tra libertà negativa del singolo, eguaglianza e bene comune (nesso solo rincorso dal liberalismo ad esempio di Rawls) e di andare al cuore delle forme di dipendenza e dominio esistenti nelle società occidentali contemporanee, tanto negli ambiti strumentali quanto in quelli del mondo della vita e, dall’altra, di conferire alla nostra nozione di politica una valenza espressiva, in un contesto postmetafisico, senza la quale risulta desolatamente deperita.

 

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