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Cos’è il costituzionalismo progressista liberaldemocratico?


Frank Michelman


Questo saggio appare sul numero 1 della Nuova Serie della rivista Filosofia e Questioni Pubbliche. Per ulteriori informazioni potete contattare Luiss Edizioni all'indirizzo e-mail edizioni@luiss.it

Introduzione

Lo scopo. Che cosa è il costituzionalismo progressista liberaldemocratico (Cpld)? L’impressione è che si tratti di una dottrina politica. In questo saggio, mi propongo di definire quale possa essere il contenuto di tale dottrina.

Vi immagino mentre vi date da fare per essere certi che l’ordine politico, in qualsiasi paese, possa essere tutte e quattro queste belle cose insieme, ovvero: 1) un ordine progressista, 2) un ordine liberale, 3) un ordine democratico e 4) un ordine costituzionale. Ma perché impegnarvi in questo esercizio mentale? Credo che lo facciate perché in ognuno di questi quattro termini scorgete un riferimento a uno specifico valore o bene politico, o una condizione necessaria perché un ordine politico sia una combinazione interessante, che voi vorreste conservare come una concezione intelligibile di una pratica politica, per la cui realizzazione potrebbe effettivamente valer la pena impegnarsi. È adesso mia intenzione chiarire come dovreste costruire, mettendole reciprocamente in rapporto, le condizioni necessarie rispettivamente indicate da ognuno dei quattro termini, al fine di dar vita a un unico insieme minimamente coerente.

Dobbiamo pertanto porci un problema concettuale, la cui soluzione prevede poche e semplici regole:

a) ogni termine deve aggiungere qualcosa di nuovo; b) nessuno di questi termini può essere del tutto separato dal suo normale ventaglio di associazioni semantiche, e c) non deve esserci troppa tensione fra le coppia di termini. Si noti che queste regole non ci obbligano mai a esprimere una nostra opinione su cosa «veramente» o «oggettivamente» significhi ciascuna di queste quattro cose. L’ipotesi che il nostro esercizio vuole verificare è molto più debole di quanto vorrebbe un qualsivoglia discorso essenzialista (o «realista» o «oggettivista»). Molto semplicemente, c’è un modo di mettere, e tenere, insieme tutti e quattro questi bei termini in una concezione sufficientemente coerente di un assetto immaginabile di accordi politici, senza che ci sia bisogno di distorcere alcuno di essi, al di là dei suoi limiti ordinari di significato.

Ora proporrò una maniera possibile per realizzare questo progetto. Quando vedrete di che si tratta – quando vedrete quali sfumature di significato in ognuno dei quattro termini chiave, siano necessarie per inquadrarli in una concezione politica coerente – forse il risultato non vi piacerà. Il liberalismo e la democrazia, in special modo, appariranno in forme che vi potranno sembrare svuotate del loro significato originario. Sia i liberali convinti che i democratici convinti potrebbero dunque rimanere insoddisfatti dal disegno di società bene ordinata che risulta da questo esercizio. Oppure altri lettori, di qualsiasi inclinazione politica, potrebbero semplicemente constatare che il mio tentativo di costruire un insieme di rapporti mutualmente compatibili fra liberalismo, progressismo, democrazia e costituzionalismo impone di uno, o più, di questi termini una versione grottescamente distorta, oppure troppo distante dal significato ad esso comunemente attribuito. In tal caso, non avrò argomenti a mia difesa se non la situazione di emergenza: ogni porto è buono nella tempesta.

Naturalmente, anche in questa follia c’è del metodo. Immagino che almeno alcuni fra i miei lettori abbiano già abbracciato definitivamente tutti e quattro i nostri criteri per la giustizia e la bontà di un ordine politico, e che pertanto siano già definitivamente convinti che sia effettivamente possibile che un ordine politico sia al tempo stesso progressista, liberale, democratico e costituzionale. E dato che non mi sono prefisso lo scopo di dimostrare altro, non voglio assolutamente che la causa del costituzionalismo progressista e liberaldemocratico scompaia dalla faccia della terra. Sono pertanto disposto a correre il rischio di sottoporvi alla prova del fuoco (mi rivolgo adesso a voi, partigiani dichiarati del Cpld). Se per una qualsiasi ragione rifiutate la mia proposta di Cpld, allora dovrete trovare un altro modo per tenere insieme tutto ciò che ritenete essere particolarmente desiderabile in ciascuno dei quattro bei termini, oppure dovrete riconsiderare la vostra posizione.

 

La sfida. Il Cpld è un ideale di ordine politico nel quale ognuno dei quattro elementi (costituzionalismo, progressismo, liberalismo, democrazia) ha un carattere aggiuntivo e non contraddittorio. Sembra improbabile? Non stiamo forse considerando due coppie di elementi che spesso, nel nostro linguaggio politico abituale, appaiono come opposti l’uno dell’altro, il progressismo contrapposto al liberalismo, il costituzionalismo alla democrazia? Per quanto riguarda la prima coppia, basta ricordarsi di come il professor Robert Lipkin ha inaugurato il recente «Widener Symposium» sul costituzionalismo progressista. Ha cominciato con l’avvertire coloro i quali, fra il pubblico, si definivano liberali (raggruppandoli in questo caso con i conservatori) di non aspettarsi di aver lo stesso tempo a disposizione, in quanto si sarebbe trattato di una conversazione fra progressisti. Per lui era evidente, in questi commenti, che il liberalismo costituzionale e il costituzionalismo progressista fossero due cause politiche in competizione, e pertanto incompatibili.

Prendiamo adesso in esame la coppia democrazia-costituzionalismo. Non intendiamo forse per «costituzionalismo» un modo per limitare la politica, anche quella popolare, per mezzo di una legge superiore che sta al di sopra della sfera politica che deve limitare? Non si intende forse per costituzione una legge che serva a guidare la politica, e pertanto una legge che sta necessariamente a monte e al di sopra della politica? Eppure, non intendiamo forse per democrazia (se la prendiamo sul serio) un popolo che decide da solo del contenuto di tutte le leggi cui sono interessati, in quanto individui o gruppi, per buone ragioni politiche o morali? Se è così, allora la democrazia sembra veramente in un conflitto profondo e incolmabile con il costituzionalismo. Infatti, fra le questioni che si possono decidere politicamente, cui la gente ha buone ragioni morali o pratiche per interessarsi, e sulle quali ha il potere di decidere, dovrebbero essere necessariamente comprese, in forza del principio democratico, quelle leggi che stabiliscono i termini fondamentali per la loro società politica, quelle stesse leggi per la conduzione della politica che per il costituzionalismo devono stabilire limiti e confini all’autorità politica.

Un esempio eclatante è il nodo di problemi che riguardano il rapporto tra soldi e politica, che il professor J.N. Balkin ha discusso in questo simposio. Fra le questioni da regolare prima di mettere in atto la democrazia politica, questa non può certo mancare. Il problema è: che cosa i governi possono esigere o permettere in materia di denaro? Lasciare che questo problema venga regolato dalla discussione politica democratica è altrettanto sensato che lasciare che il punteggio in una partita di calcio (immaginate che alcuni partecipanti pretendano che ogni calcio d’angolo assegnato conti per un punto e ogni calcio segnato a dovere nella rete avversaria conti per tre) venga lasciato al capriccio della squadra che vince la partita. Eppure ogni vero democratico dovrà riconoscere che è questo il tipo di questioni che un popolo che si autogoverna deve poter decidere da solo, democraticamente. In modo tale che quando, ad esempio, la Corte suprema degli Stati Uniti stabilisce per il suo paese una qualche soluzione del problema soldi-e-politica, nel nome della Costituzione degli Stati Uniti, molti potrebbero protestare in nome della democrazia.

In questo convegno, abbiamo parlato di «costituzionalismo progressista» come qualcosa che potrebbe esser morto e sepolto, qualcosa che potrebbe esser stato verosimilmente in vita ad un momento dato. Come se sapessimo di cosa stiamo parlando quando nominiamo il costituzionalismo progressista. Ma è così? «Costituzionalismo progressista» è una nozione coerente? Certo, niente di quanto ho detto sinora ha contrapposto costituzionalismo al progressismo, ma solo al liberalismo; e niente di quanto ho detto sinora ha messo il costituzionalismo in opposizione al progressismo, solo alla democrazia. Ma nella nostra retorica politica abituale, il liberalismo non viene forse associato al costituzionalismo, in una concezione di governo rappresentativo fortemente mediato e sottoposto ad un forte controllo giudiziario? E non si associa specularmente l’esser di sinistra con la democrazia, in una concezione di governo popolare abbastanza diretto e scevro da costrizioni? E chi si definisce come democratico progressista, non accusa la coppia liberalismo-costituzionalismo – senza far distinzione fra le due componenti – di fare un feticcio delle libertà individuali, ostacolando le misure per alleviare la sofferenza, abolire le caste, e far vincere la giustizia? E d’altro canto, forse che chi si definisce costituzionalista liberale non accusa talvolta la coppia sinistra-democrazia – senza far distinzione fra le due componenti – di esser fin troppo incline a sacrificare l’individualità, la libertà, e lo Stato di diritto (rule of law) sull’altare dell’uguaglianza? In questo contesto retorico, l’idea di un costituzionalismo progressista viene in ogni caso definita come una provocazione.

Ritengo pertanto che si debba partire dal fatto che nel nostro discorso politico abituale vi sia almeno una certa inclinazione a concepire come incompatibile non solo il rapporto fra progressismo e liberalismo, ma anche fra progressismo e costituzionalismo; lo stesso dicasi per i rapporti del costituzionalismo non solo con la democrazia, ma anche col progressismo. Il nostro compito consiste dunque nel valutare che cosa possa comportare la costruzione di un rapporto fra i quattro termini, rendendoli compatibili.

Genealogia

Un modo per rendere compatibile un quartetto di termini normativi consiste nel costruire i loro rapporti in termini genealogici. Si inizia con l’affermare uno di questi termini, e si passa poi a mostrare come questa affermazione porti ad affermare il secondo, il che a sua volta porta a affermare il terzo, che a sua volta implica il quarto. È mia intenzione adesso compiere una ricostruzione di questo tipo, proponendo un movimento di pensiero che a partire dal liberalismo proceda verso il costituzionalismo e poi verso la democrazia e verso il progressismo. Secondo il mio suggerimento, il pensiero liberale si trova di fronte il problema di giustificare l’uso politico della forza o della coercizione, problema per il quale l’idea molto astratta di Costituzione politica può rappresentare una soluzione. In seguito, la soluzione del costituzionalismo astratto per il problema del liberalismo trova a sua volta degli ostacoli, per i quali la democrazia si propone come soluzione. In seguito, la democrazia così concepita (come rimedio alle difficoltà affrontate dal costituzionalismo, inteso come soluzione per il problema della giustificazione del liberalismo) sembra imporre un contenuto specificamente progressista alla Costituzione; ovvero, a ogni Costituzione che si fondi sulla democrazia per permetterle di risolvere il problema del liberalismo.

 

La mossa fondamentale: una concezione pre-programmatica del liberalismo. Se progressismo e liberalismo sono due visioni politiche opposte e avversarie, come il professor Lipkin sembrava dare per scontato, il nostro progetto è sin dall’inizio votato al fallimento. Pertanto, ci conviene cercare di capire perché egli veda le cose sotto tale luce. E senza dubbio, parte della risposta sta nella sua visione del liberalismo come dottrina programmatica, come dottrina di istituzioni e assetti politici – più specificamente, una dottrina che vuole difendere una serie di diritti giuridici degli individui contro lo Stato e, in senso più ampio, una sfera privata di vita sociale sottratta al potere dello Stato.

Ma si consideri la seguente definizione del liberalismo politico, articolata in sette punti: 1) impegno ad abbattere le caste in qualunque momento; 2) una politica che sia disposta a lasciarsi convincere da opinioni dissenzienti, d’opposizione e marginali; 3) (connesso con 1 e 2) una società ospitale e rispettosa della multiculturalità; 4) una concezione dell’uguaglianza materiale e non solo formale, che comprenda: 5) la certezza di un livello minimo di benessere e di buon funzionamento di ogni membro della società; 6) il rifiuto di distinguere categoricamente fra il potenziale oppressivo o subordinante dello Stato e il potenziale oppressivo o subordinante delle varie formazioni di poteri privati o fondati sul mercato; e di conseguenza, 7) un atteggiamento sempre pronto a considerare l’applicazione attiva del potere dello Stato ovunque necessario nella società per la realizzazione dei punti 1-5. Questi sette punti sembrano definire una posizione opposta a quella che vede i diritti giuridici individuali definiti in astratto e arroccati in una posizione strettamente difensiva contro lo Stato e, più in generale, opposta all’esclusione di ogni sorta di intervento governativo da qualsiasi sfera predefinita di vita sociale. Se sin dall’inizio il liberalismo deve essere definito come affermazione proprio di quest’ultimo tipo di programma istituzionale, allora veramente l’inimicizia e l’incompatibilità di prospettive fra il progressismo e il liberalismo sembrano mali congeniti e incurabili.

Sembra pertanto che le sole speranze di costruire effettivamente un Cpld stiano nella sostituzione di una certa concezione programmatica del liberalismo con un’altra. Non possiamo iniziare con una nozione di liberalismo politico che contenga dal principio, come suo proprio nucleo ed essenza, una lunga lista di libertà negative individuali in difesa dai poteri dello Stato, o l’idea di un regno privato al di fuori della portata dello Stato. Al contrario, avremo bisogno di una nozione di liberalismo che pure potrebbe colpire alcuni lettori come priva di significato. Per servire ai nostri scopi, il liberalismo dovrà essere una dottrina del valore che non sia ancora una dottrina istituzionale.

Inteso come dottrina pre-programmatica dei valori, il liberalismo si presenterà come quella dottrina che a) ritiene che qualsiasi valore, compreso qualsiasi tipo di ordine politico o insieme di assetti politici, consista soprattutto nella loro capacità di cambiare in positivo la qualità della vita umana; b) concepisce la vita umana come formata effettivamente da esperienze di vita realizzate da individui (per quanto possa essere vero, e profondamente, che gli individui conducano insieme una vita migliore di quanto non possano fare da soli, o persino che individui solitari non possano vivere in modo veramente umano); c) considera condizione essenziale perché le vite umane individuali abbiano valore la loro capacità di essere orientate a uno scopo e al raggiungimento di esso, e d) sostiene che fra individui possa esistere nella società un «pluralismo ragionevole» di scopi.

Per chiarire l’ultimo punto, i liberali fanno notare che le persone, nella nostra società, ricercano cose molto diverse e si impegnano in progetti molto diversi, e che questa diversità è sempre a rischio di scatenare seri conflitti, in parte perché gli individui che si impegnano per questa pluralità di progetti sono profondamente divisi nelle loro idee riguardo a ciò che è giusto o a ciò che è buono e degno, conflitti che non possono sperare di risolvere in tempo politico reale. Inoltre, i liberali sono convinti che molte delle idee e dei progetti potenzialmente in conflitto, se non tutti, possano esser considerati ragionevoli, nel senso che non ci sono ragioni migliori per l’impiego della forza pubblica contro una di queste idee o progetti piuttosto che contro qualsiasi altra. (Ciò che veramente è «irragionevole» in questa prospettiva è l’incapacità o il rifiuto di riconoscere quando progetti o idee che sono in conflitto con le vostre sono, ciononostante, tali da poter essere fatte proprie da agenti morali, agenti dai quali non potreste pretendere la rinuncia ai loro principi e progetti più di quanto loro non potrebbero pretenderla da voi). Pertanto il liberalismo è anche e) contrario a far paragoni o a misurare il valore o il potenziale valore della vita di chiunque contro quella di chiunque altro una posizione che a volte viene esplicitata col dire che ogni persona si rapporta all’altra come «libera ed eguale».

Nella mia ricostruzione, questo è tutto quanto c’è da dire sull’idea del liberalismo in politica. Pertanto, il liberalismo politico quale io l’ho ricostruito, non inizia la propria vita come una dottrina istituzionale, o costituzionale, che si occupa di diritti e governo limitato, ma semplicemente come dottrina del valore, e soprattutto come una dottrina specificamente umanista, individualista del valore, riferito al diritto della persona a perseguire i propri scopi. E se questa può essere una concezione lievemente eterodossa del liberalismo politico, ho cercato di dimostrare con le mie citazioni come essa non sia del tutto senza precedenti.

 

Dal liberalismo al costituzionalismo. Il liberalismo, inteso come dottrina del valore, non contiene già concettualmente l’idea della Costituzione o della carta dei diritti. Queste idee però ne discendono prontamente quando si aggiunga ad esso il pluralismo ragionevole. Per chiunque si riconosca in una dottrina del valore umanista, individualista, che permetta a chiunque di scegliere i propri obiettivi, in condizioni dichiarate di pluralismo ragionevole, non c’è alternativa al governo politico come esercizio della forza – messo in pratica o minacciato – da parte di certe persone contro altre. In una prospettiva liberale in tal modo definita e situata, la sfera del governo è – o è sempre sul punto di diventare – un potere esterno all’individuo, un estraneo pronto a limitare la libertà altrui.

Inoltre, quanto consegue dalle premesse di valore liberali non è solo che un regime politico ha costantemente bisogno di giustificarsi, ma che deve essere giustificato in termini universalistici, ovvero in riferimento a un qualche ordine di ragioni preponderante che noi (accettando la giustificazione) siamo pronti ad attribuire non solo a noi stessi, rispettivamente, ma anche reciprocamente, e anche a chiunque si trovi nel raggio d’azione del regime in questione. Nel dibattito liberale e protoliberale era assolutamente de rigueur riuscire ad esprimere questo bisogno di fondamenti della giustificazione potenzialmente universalistici. Ciò che venne fatto in termini di giudizi su quali assetti fossero più adatti alle potenzialità, agli interessi e ai diritti innati e naturali dell’umanità, oppure, di ciò su cui sarebbe stato possibile raggiungere un accordo universale, in un dialogo appropriatamente condotto fra persone che si riconoscono reciprocamente come libere ed eguali, oppure ancora, di un overlapping consensus fra prospettive etiche generali ragionevoli, o proposte di principi per l’ordinamento sociale che non potrebbero essere ragionevolmente rifiutate da chiunque si sia impegnato a trovare simili principi. Per comodità, userò quest’ultima formula per illustrare la discussione che in seguito svolgerò, e talvolta userò i termini «ragionevolmente non rifiutabile» e «non ragionevolmente rifiutabile» al posto di «non ragionevolmente rifiutabile da chiunque si sia impegnato a trovare simili principi di ordinamento sociale che nessuno che si sia assunto lo stesso impegno potrebbe ragionevolmente rifiutare».

Provate a immaginarvi mentre state cercando di spiegare a voi stessi, in termini liberali, quale sia la giustificazione morale di ogni vostro atto quotidiano di acquiescienza e collaborazione con un regime esistente. Come procedereste? Prendereste in esame le vostre azioni politiche nell’ordine in cui hanno luogo, ritenendovi soddisfatti se ogni singolo atto legislativo o altra attività governativa si può definire non rifiutabile? Certo che no. Non potreste agire così, se conservaste un minimo di rispetto liberale per l’individualità libera ed eguale di persone variamente motivate da diversi scopi, progetti, e concezioni del giusto e del bene inevitabilmente confliggenti, quali sono quelle che popolano una società moderna.

A questo punto, noi liberali introdurremmo piuttosto l’idea, del tutto astratta, della Costituzione politica, avendo in mente l’idea che il sistema politico dato dalla Costituzione, ovvero quell’insieme di leggi che organizzano la politica e l’azione legislativa, possa essere giustificato di fronte a chiunque in quanto abbastanza equa, o non ragionevolmente rifiutabile da chiunque ricerchi sinceramente termini equi di coesistenza sociale, in una situazione di inevitabile conflitto fra gli interessi di persone che si presumono libere, eguali e ragionevoli. Partiamo dal presupposto che un sistema politico abbia molte più possibilità di superare questa prova di quanta ne abbiano i singoli atti politici che dal sistema derivano, e inoltre dal presupposto che chiunque sia ragionevolmente tenuto ad accettare il sistema sia anche tenuto ad accettare i risultati che derivano dal funzionamento del sistema stesso (e cos’altro mai può significare accettare il sistema?). In effetti, una ragione preponderante, ed esplicita, che ha portato un teorico quale John Rawls a spostare il fulcro della giustificazione politica dal livello delle azioni politiche di ogni giorno a quello più astratto e sistemico della Costituzione («struttura fondamentale» della società), è proprio il fatto che al primo livello vi sia poca speranza di trovare un accordo, anche fra i «ragionevoli», mantenendo al tempo stesso una parvenza di rispetto liberale per la diversità di opinioni e di convinzioni riguardo al giusto e al bene.

Dando motivo di sperare in un accordo ragionevole sul sistema politico, anche quando viene a mancare la speranza per un accordo ragionevole su ogni atto specifico prodotto dal sistema, l’idea astratta della Costituzione soddisfa un bisogno profondo di giustificazione politica. E voglio sottolineare che lo soddisfa in modo tale da non implicare in alcun modo che una Costituzione debba necessariamente fornire speciali protezioni giuridiche ai diritti o alle rivendicazioni di nessuno, e neppure che respinga necessariamente la sfera dello Stato al di fuori di quella privata. Né un governo limitato né una carta dei diritti giuridicamente garantiti sono parti necessarie, logicamente o concettualmente, di un piano o sistema completo e praticabile di governo politico. E nemmeno, queste nozioni sono già concettualmente contenute nell’idea di (non) rifiutabilità ragionevole, quale è applicata a piani di governo politico. La domanda ovvia, date premesse liberali, è se sia mai possibile aspettarsi che l’elettorato di un paese, anche se limitato al novero dei «ragionevoli», possa arrivare ad un consenso abbastanza stabile su una proposta ragionevolmente non rifiutabile di Costituzione, che porti a un ordine politico completo e praticabile.

Non bisogna mai dimenticare che nel mondo del liberalismo politico ci sono infinite differenze di opinioni etiche e normative, dovute in parte a differenze di concezioni e di sensibilità legate a fattori quali il background etnico e la condizione sociale. L’esperienza americana ci suggerisce con forza che l’unico modo di appianare queste differenze e disaccordi per un testo costituzionale è di esprimersi, su qualsiasi insieme di questioni fondamentali, ad un livello di astrazione tanto alto da lasciare non risolte questioni che dovrebbero essere risolte (e che presto o tardi verranno risolte da ciò che chiamiamo interpretazione costituzionale), in modo da poter definire e specificare un ordine politico realizzabile in pratica.

Ad esempio, non c’è alcun dubbio che chiunque sia ragionevole (da un punto di vista liberale) possa convenire sin dall’inizio che nessun insieme di accordi politici può essere non rifiutabile ragionevolmente e universalmente se non è anche orientato a trattare ogni persona con uguale rispetto e interesse. Si può cercare di soddisfare questo criterio (anche se certo non è questo l’unico modo pensabile) scrivendo nella Costituzione una garanzia giuridica esplicita di uguaglianza di fronte alla legge e di libertà da qualsiasi trattamento iniquo e discriminante. Forse tutte le persone ragionevoli possono trovare che una tale proposta di testo costituzionale sia non ragionevolmente rifiutabile. Tuttavia, non ci sono molte possibilità che tutte le persone ragionevoli riescano a trovare un accordo in tempo politico reale (o quantomeno, non negli Stati Uniti e in questo momento della nostra storia) su quanto spazio d’azione debba essere lasciato allo Stato per limitare la pubblicazione di materiale pornografico, o per regolare i rapporti fra soldi e politica, o per adottare politiche e decisioni orientate specificamente a questioni razziali o che le tengano in considerazione. In altre parole, la clausola «uguale protezione della legge» può essere ragionevolmente non rifiutabile, ma «non vedere i colori» certo non lo è, né lo sono quelle implicite in Booksellers vs Hadnut o Buckley vs Valeo.

Noi abbiamo convinzioni profondamente diverse e conflittuali su questi problemi, sicuramente a causa delle nostre differenti esperienze di vita e situazioni sociali, o forse anche per la diversa formazione personale. Fino a quando questi problemi non sono risolti, l’ordine politico non è specificato in termini abbastanza chiari da poter effettivamente essere operativo. (Una volta formulato, il ricorso di un votante bianco contro una ridefinizione del proprio distretto elettorale, per assicurare un minimo di rappresentanza ai neri in un parlamento statale, deve inevitabilmente ricevere una risposta, non consensuale, da una qualche autorità sociale. Se la Corte suprema non dà una risposta, allora toccherà allo stesso parlamento statale). Come può il costituzionalismo liberale sperare di gestire un tale problema?

 

Dal costituzionalismo liberale alla democrazia. Torniamo a quella che considero la fonte del pensiero politico liberale, ovvero il problema della forza e del potere. In una prospettiva liberale e pluralista, qualsiasi ordine politico stabilito prima o poi minaccia di usare la forza contro gli individui che sono nel suo raggio d’autorità, e questa forza può essere giustificata solo nella misura in cui il sistema politico dal quale essa è guidata non sia ragionevolmente rifiutabile da chiunque sia ad esso soggetto. Questo significa che la giustificazione politica, concepita da un punto di vista liberale, stabilisce uno standard oggettivo per la legge costituzionale, almeno in linea di principio pubblicamente verificabile. In altre parole, questo significa che l’unica alternativa che i liberali politici hanno – rispetto al concludere che nessun esercizio politico della forza potrà mai essere giustificato – sta nel ritenere che la questione della ragionevole non rifiutabilità universale di qualsiasi proposta di Costituzione, o interpretazione o applicazione di parte di una Costituzione, potrebbe effettivamente trovare – se solo ci fosse tempo sufficiente per stabilirla – una soluzione giusta e pubblicamente raggiungibile.

Ma ovviamente il tempo non basta. È proprio questo il punto che i liberali politici fanno notare rispetto al «dato di fatto» del pluralismo ragionevole, applicato come i liberali politici lo devono coerentemente applicare al processo decisionale sul livello operativo di una «interpretazione costituzionale». È vero che il pluralismo ragionevole non rende filosoficamente non disponibile la verità sulla ragionevole non rifiutabilità dell’una o l’altra parte della Costituzione, per come è interpretata o applicata, né la pone al di là di ogni discussione ragionevole, né la rende solo questione di opinione o di desideri o di potere. La rende solo politicamente non disponibile fra persone che, coscienti della fragilità umana e rispettose delle umane differenze, forse condividendo l’idea che vi sia effettivamente una verità, non possono, in tempo politico reale, trovare un accordo su quale sia questa verità, né liquidare come irragionevoli tutte le posizioni contrarie alla propria. Questo tuttavia basta a chiarire come i liberali politici che sostengono il pluralismo ragionevole si trovino di fronte alla possibilità che non vi sia alcuna risposta alla domanda su cosa sia giusto fare per me o per voi, in questo momento, su questa questione della forza; in altri termini, che si trovino di fronte alla possibilità che niente di quanto voi o io possiamo fare possa essere giusto (o sbagliato, peraltro), che tutto sia in fin dei conti una questione di potere.

Se vogliamo evitare di giungere a tale conclusione, abbiamo solo questa alternativa: dovremo sostenere che il problema decisivo della moralità politica che il cittadino di convinzioni liberali si trova di fronte sia diverso dal problema, sotto ogni aspetto e scopo non decidibile, della universale e ragionevole non rifiutabilità della Costituzione, per come è applicata. Il nostro problema, pertanto, consiste nel trovare qualche altro modo di formulare la questione decisiva, un modo che non la leghi fatalmente al problema irrisolvibile della non rifiutabilità ragionevole e universale della Costituzione, per come viene applicata.

Ma come possiamo formulare allora la domanda decisiva? Sembra che in un modo o in un altro, la formulazione dovrà specificare una qualche caratteristica risolutiva capace di superare, in un insieme attualmente prevalente di garanzie, le difficoltà poste da un regime in cui prevarrebbero le ragioni contro la possibilità di far valere in maniera giustificata la forza.

Ma ora sappiamo cosa non può essere questa caratteristica: non può essere la conoscenza pubblica e certa, «oggettiva», della ragionevole non rifiutabilità di tali garanzie. Ma vi sono altre possibilità?

Il carattere risolutivo in queste garanzie dovrà rispondere in qualche modo alla preoccupazione principale, quella riguardante l’uso politico della forza, che sin dall’inizio spinge a cercare giustificazioni. Questo significa che il carattere risolutivo dovrà esser tale da mettere in grado chiunque sia soggetto al regime costituito, per come è applicato, di rispettare le sue decisioni legislative per una motivazione che non sia soltanto il desiderio di evitare le dolorose misure di applicazione della forza. Nei termini di Jürgen Habermas, dovrà essere una caratteristica che permetta di assoggettarsi al funzionamento del sistema, almeno in parte – in una proporzione che basti come motivazione – in forza di un «rispetto per» il sistema stesso e il suo funzionamento.

Ma quale può essere l’attributo capace di suscitare tale rispetto in un regime politico, se non quello che un’applicazione coerente del pluralismo ragionevole ci ha portato ad escludere, ovvero la conoscenza pubblica e certa di una sua vera e universale non rifiutabilità?

Potrebbe essere una risposta la continua e credibile apertura delle garanzie dell’attività legislativa del sistema (specialmente quelle connesse con la riforma del sistema stesso) alle critiche rigorose e alle influenze possibili della democrazia politica? Potrebbe essere questo un fattore che fa sì che chi si deve assoggettare al regime lo faccia, del tutto o in modo determinante, per rispetto?

In mancanza di vera e propria anarchia, non c’è alternativa alla necessità di autorizzare i funzionari, individui o organi, a decidere di volta in volta, per interpretazione se non per approvazione, il contenuto applicato delle leggi fondamentali di un paese. Dato che di solito non ci si può aspettare l’unanimità su tali questioni, la decisione deve essere di tipo maggioritario-collettivo (anche la Corte suprema, sotto questo aspetto, è una istituzione maggioritaria convenzionale. Per vincere bisogna essere cinque contro quattro). Ma il fatto che ci dobbiamo inchinare a tali necessità pratiche non significa che non riteniamo il giudizio di un singolo funzionario una guida particolarmente degna di rispetto su cosa qui ed ora sia giusto aspettarsi dall’insieme delle leggi fondamentali di un paese. Tuttavia, si può ritenere che i giudizi più degni di rispetto verranno, in generale, da organi ufficiali i cui membri si trovano ad essere costantemente in contatto con l’esplosione di tutte le opinioni su tali questioni, prodotte liberamente e senza inibizioni dai membri della società a partire dalle loro diverse esperienze, posizioni e riflessioni.

Questo convincimento potrebbe essere fondato su di un coerente intreccio di considerazioni radicate nel buon senso e nella dignità. Perché mai non dovremmo conservare il nostro rispetto per ambienti ufficiali che si sforzino credibilmente di impegnarsi a rendersi sempre più aperti all’influenza di deliberazioni e dibattiti pubblici che siano pienamente ed equamente ricettivi del modo di percepire le situazioni e degli interessi di ognuno, e conseguentemente, delle opinioni di ognuno sulla giustizia, incluse quindi le opinioni su quale tipo di assetti rendano davvero equamente ricettive di tutti i punti di vista le deliberazioni pubbliche, rendendo veramente gli organi ufficiali aperti all’influenza di tali vedute?

 

Democrazia e diritti. Così si è fatta strada l’idea che sia proprio la democrazia il possibile attributo di un ordine politico che possa aiutare a recuperare la sua «rispettabilità» universale, nonostante il fatto che la ragionevole e universale non rifiutabilità dell’ordine stesso dovrà rimanere per sempre una questione non decidibile in pratica. Si suggerisce dunque che la democrazia possa in tal modo aiutare a soddisfare il bisogno liberale di giustificare la collaborazione nell’applicazione della forza politica. Ma se è così, è evidente come «democrazia», intesa in questo senso, debba consistere in qualcosa di più che una regolamentazione del voto in vista di una serie di decisioni che devono essere prese da tanta gente insieme. Le procedure dei processi decisionali legislativi fondamentali, e i relativi processi di formazione dell’opinione pubblica, non saranno democratici in misura significativa se gli abitanti di un paese non hanno accesso ad essi a partire da una posizione di uguaglianza, indipendenza, libertà, e sicurezza, l’uno verso l’altro e di fronte alla collettività politica e ai suoi poteri. La democrazia comporta pertanto garanzie ex ante della libertà e dell’indipendenza individuali. Comporta il porre freni e limiti su ciò che possa legittimamente esser compiuto (o, come avremo presto modo di notare, su ciò che può legittimamente esser lasciato incompiuto) dalla pura forza di una volontà politica dominante. In breve, non ci può essere democrazia (significativa) senza ciò che sotto ogni punto di vista si deve considerare una carta dei diritti.

Come avremo presto modo di vedere, questo significa anche una carta dei titoli validi (entitlements); la «democrazia», per i nostri scopi, deve contenere anche la democrazia sociale. Ma prima di passare a questa fase della discussione, voglio ribadire che questa è la prima volta che una qualche idea di costituzionalizzare le rivendicazioni individuali di qualsiasi tipo è apparsa nella nostra costruzione genealogica. Come ci siamo sforzati di osservare sopra, nel momento in cui la speranza liberale in un consenso ragionevole e universale in politica richiede che si avanzi l’idea astratta di Costituzione – uno schema o sistema politico che possa essere universalmente e ragionevolmente non rifiutabile, anche se spesso, o sempre, gli specifici atti politici che autorizza non sono tali – tale idea astratta non contiene ancora alcun impegno a fornire una speciale protezione legale per i diritti individuali o i titoli validi di chiunque, oppure a escludere lo Stato dalla sfera privata. Questo tipo di impegni entrano nel nostro scenario solo quando al costituzionalismo viene ad aggiungersi la democrazia, nella speranza di rendere degna di rispetto una Costituzione di cui non è possibile accertare la giustizia obiettiva, recuperando in tal modo la possibilità di una giustificazione di stampo liberale della collaborazione politica.

 

Dal costituzionalismo liberaldemocratico al progressismo. Questo titolo è significativo. Suggerisce che, nel quadro di Costituzioni liberali (quali le abbiamo genealogicamente costruite) le rivendicazioni rivolte da alcune persone nei confronti di attori, governativi e non, perché vengano garantiti certi atti e certe esenzioni, possono svolgere una funzione di spinta. Questo perché «costituzionalismo liberale e democratico» deve essere il nome di una forma di vita sociale oltre che di una serie di procedure che regolino i processi decisionali politici. Questa espressione indica una forma di vita sociale che rispetta profondamente ogni persona e che si prende cura delle capacità di ognuno in quanto portatore di un’opinione politica degna di rispetto. Al tempo stesso, designa un insieme di accordi giuridici intesi sia a sostenere tale forma di vita sociale sia a fornire a tutti gli interessati delle buone ragioni per ritenersi autori, o potenzialmente tali, delle leggi fondamentali del paese in misura non minore di altri. Per leggi fondamentali intendo quelle leggi che istituiscono i termini e le condizioni nelle quali viene espletata la maggior parte delle funzioni di governo da parte di istituzioni più o meno rappresentative. Dato che si deve dare per scontato che in ogni momento si possano verificare fenomeni di esclusione, emarginazione, subordinazione, o che in ogni momento qualcuno potrebbe esser messo a tacere, sarà necessario impegnarsi per un processo decisionale sociale che cerchi costantemente di liberarsi da questi mali, in parte mantenendosi sempre aperto ai punti di vista e alle opinioni di chi ha meno potere o di chi non si trova in una posizione di preminenza; e questo vale, inter alia, per le condizioni necessarie per l’emancipazione di questi ultimi.

Ma qualsiasi processo decisionale sociale è inevitabilmente e sempre un processo istituito in termini sociali e giuridici, e ciò che lo costituisce sotto il punto di vista giuridico è molto più che un insieme di leggi riguardanti le elezioni e la rappresentanza nella sfera statuale e governativa. Adesso stiamo parlando di leggi che contribuiscono a dar forma alla società civile, quali, ma non solo, le leggi concernenti la famiglia, il commercio e le professioni, il lavoro e le sue condizioni, la scuola, la casa, la proprietà, la libertà di espressione, i mezzi di comunicazione e così via. Se la democrazia riesce a esistere e a prevalere in un dato paese o in un dato momento, ciò dipende in buona parte dal fatto se quel dato paese, in quel dato momento è riuscito a darsi le leggi «giuste».

Certo, abbiamo sostenuto poco fa che, sotto tale forma, non si potrà mai dare una risposta completa a chi domandi la giustificazione del nostro sostegno a un dato regime corrente di dispensations di provvedimenti legali e costituzionali quali vengono applicate. La risposta parla di un processo che sia «pienamente ed equamente» aperto ad accogliere i punti di vista di chiunque, uno standard che non si estende solo al terreno formale della legislazione e del giudizio ma, con uguale importanza, anche alla società civile in generale. Ma, naturalmente, la domanda se gli atti legislativi pertinenti possano quindi essere «giusti» non è esente dalla legge ferrea liberale del pluralismo ragionevole. Se i pertinenti atti legislativi contribuiscano a soddisfare i corretti prerequisiti costitutivi della democrazia sociale per la «rispettabilità» universale della politica, è una domanda destinata ad essere molto spesso materia di disaccordo vivace anche se ragionevole.

La domanda (e io la intendo veramente come tale) è se il problema liberale della giustificazione politica è stato adesso formulato in modo tale da rendere immaginabili certe condizioni, condizioni di apparente quasi-democrazia, politica e sociale, nelle quali i cittadini possano ragionevolmente e reciprocamente dichiararsi d’accordo sul fatto che il paese stia portando avanti, in buona fede e dignitosamente, un progetto politico forse mancante di uno scopo finale, ma che tuttavia presenta un’idea regolativa intelligibile. La ricerca democratica della democrazia sarebbe tale progetto, e il suo primo e costante requisito sarebbe questo: le decisioni che, di tanto in tanto, devono essere prese su alcune questioni politiche fondamentali, qualora non possano essere raggiunte per consenso, dovranno essere comunque prese da istituzioni che sono sempre effettivamente sottoposte alle pressioni di una pubblica opinione in fieri, che si dedica a democratizzare se stessa e le condizioni sociali e legali che ne assicurano la formazione.

Nella misura in cui questa è la questione giusta per i liberali politici, oppure, in altri termini, nella misura in cui la nostra genealogia è riuscita a dispiegare un costituzionalismo profondamente e socialmente democratico a partire dalla dottrina liberale del valore, sembra allora che un piccolo germe di progressismo si sia annidato nel cuore stesso del costituzionalismo liberale. Consideriamo ancora la nostra definizione di progressismo politico in sette punti: 1) impegno ad abbattere le caste (o «discriminazione sociale») in qualunque momento si manifestino; 2) una politica che sia disposta a lasciarsi convincere da opinioni dissenzienti, d’opposizione e marginali; 3) (connesso con 1 e 2) una società ospitale e rispettosa della multiculturalità; 4) una concezione dell’uguaglianza materiale e non solo formale, che comprenda 5) la certezza di un livello minimo di benessere e di buon funzionamento di ogni membro della società, 6) il rifiuto di distinguere categoricamente fra il potenziale oppressivo o subordinante dello Stato e il potenziale oppressivo o subordinante della varie formazioni di poteri privati o fondati sul mercato; e di conseguenza, 7) un atteggiamento sempre pronto a considerare l’applicazione attiva del potere dello stato ovunque necessario nella società per la realizzazione dei punti 1-5. Ognuno di questi elementi di una dottrina o «posizione» costituzionale è implicato dalla specifica nozione di democrazia che si pone come risposta al bisogno liberale di un garante della rispettabilità universale dell’ordine politico, la cui universale non rifiutabilità resta oggettivamente indecidibile.

Che cosa resta

Adesso è il momento di accertarsi se siamo davvero riusciti a costruire un «costituzionalismo progressista e liberaldemocratico», nel quale, per ricordare due regole del primo esercizio che ci eravamo assegnati «b) nessuno di questi termini può essere del tutto separato dal suo normale ventaglio di associazioni semantiche e c) non devono esserci eccessive tensioni fra ciascuna coppia di termini». Occupiamoci per prima cosa della regola (b). In almeno tre delle quattro costruzioni terminologiche che risultano, alcuni lettori possono trovare un’ovvia ragione per protestare: come avevo predetto, ci siamo affidati a versioni di second’ordine del liberalismo e della democrazia e in certa misura anche del progressismo.

Abbiamo costruito il liberalismo non come un programma per questioni istituzionali, quali libertà giuridicamente garantite o un governo limitato dalla legge, ma puramente come dottrina etica e morale, una dottrina del valore umanista e individualista, legata a una dottrina morale di tolleranza e di ragionevolezza. Abbiamo costruito il progressismo come una teoria procedurale, una elaborazione della democrazia sociale, guidata non dall’avversione alla sofferenza e al dominio ma da un’ansia di legittimazione. Abbiamo costruito la democrazia non come il diritto sovrano di un popolo, o della maggioranza di esso, a decidere come debba essere governato il paese stesso, ma come una dottrina di strutture sociali e di processi politici che dia all’opinione pubblica influenza sulle decisioni di chi si trova al potere. Ancora una volta: non ho mai sostenuto che alcuna di queste sia la migliore costruzione del liberalismo, della democrazia, o del progressismo. Sto semplicemente suggerendo che queste costruzioni sono il risultato possibile di un serio lavoro per il costituzionalismo progressista liberaldemocratico.

Ma il gioco vale la candela? Se scoprissimo di non esser riusciti a soddisfare la regola (c), sembrerebbe proprio di no. Chiediamoci dunque: abbiamo effettivamente fatto combaciare il progressismo con il liberalismo o con il costituzionalismo liberale?

 

Liberalismo e progressismo come concezione sociale. Dobbiamo chiederci ancora una volta, con buona pace del professor Lipkin: se il «liberalismo» e il «progressismo» vengono considerati semplicemente come termini per idee sociali generali, per concezioni o posizioni concernenti le condizioni moralmente preferibili per la società, sono davvero così profondamente incompatibili? «Liberalismo progressista» è veramente un ossimoro? In questo saggio, non posso che rispondere no, se riteniamo che il liberalismo consista in una dottrina pre-programmatica del valore, specificamente in(I) una richiesta di accordi sociali che mostrino un grande rispetto per il valore dell’azione individuale o per il progetto di vita (accettando la diversità e la rivalità in una società moderna, di interessi e scopi fra diverse persone, e delle più generali visioni etiche da cui esse traggono ispirazione), unita a (II) l’aspirazione a una forma universalista di giustificazione per accordi politici fondamentali, il che significa l’impegno a far sì che questi accordi siano coerenti con un equilibrio di ragioni, che saremmo pronti a rendere valide per chiunque sia in condizione di esserne influenzato, supponendo che tutti siano coscienti di sé e degli altri come persone «libere ed eguali» e anche «ragionevoli», in circostanze di diversità e rivalità etica già nominate.

Se «liberalismo» e «progressismo» possono essere equamente definiti nei termini dell’elenco dei sette punti poco sopra suggerito, allora non sembrerebbe esservi un’obiezione troppo forte all’idea di liberalismo progressista. Questa sarebbe un’interpretazione o una versione del liberalismo altrettanto coerente in ogni sua minima parte quanto lo sono altre interpretazioni, più radicalmente libertarie, più legate al mercato, più risolutamente antistataliste con le quali si trova in competizione. È vero, naturalmente, che un liberalismo progressista implica un gran numero di richieste conflittuali riguardo agli accordi sociali fondamentali, una confusione che qualsiasi sistema funzionante deve riuscire a tradurre in una pratica politica gestibile, intelligibile, e soprattutto normativamente difendibile, che la sola logica non è in grado di indicare. Questo è però vero di ogni versione del liberalismo che possa essere praticamente applicabile in qualsiasi paese, in condizioni sociali e industriali moderne; e di questo si sta occupando buona parte della nostra legge costituzionale.

 

Cosa dire sul costituzionalismo liberalprogressista? In questo caso non stiamo parlando solo di una visione ideale generale di una società bene ordinata, ma più specificamente di costituzionalismo. Una concezione costituzionale non è interamente descritta, o piuttosto il contenuto giuridico di questa o quella Costituzione può non essere del tutto descritto, dalla dottrina liberale del valore, e nemmeno da una visione liberalprogressista più concreta. Ogni Costituzione deve anche prender posizione sugli accordi istituzionali in base ai quali qualsiasi norma essa voglia imporre sulla vita politica possa essere verificata, interpretata ed applicata a casi specifici, ad esempio da un potere giudiziario indipendente che abbia in ogni situazione l’ultima parola, oppure da organi parlamentari che rispondano all’elettorato, oppure dalla democrazia diretta. Nonostante tutti i miei sforzi per definire il liberalismo come antecedente al costituzionalismo, per rendere il costituzionalismo una conseguenza dell’idea liberale piuttosto che una parte della sua essenza stessa, è veramente difficile mettere le due parole insieme nella stessa frase, «costituzionalismo liberale», senza evocare una carta dei diritti e il controllo giudiziario. Per questo un «costituzionalismo liberalprogressista» può sembrare un ossimoro, anche se un «liberalismo progressista» non lo è.

La difficoltà sembra stare in buona parte nell’idea di diritti sociali ed economici «positivi». Sembra che qualsiasi costituzionalismo progressista degno di questo nome dovrebbe imporre al governo l’obbligo esplicito di soddisfare certe necessità degli abitanti del paese. Per esempio, le sezioni 26 e 27 della costituzione del Sudafrica del 1996 garantiscono a chiunque il diritto ad una casa dignitosa, al cibo, all’acqua, alle cure mediche e alla previdenza sociale, e impongono allo Stato il dovere di soddisfare questi diritti per mezzo di misure progressive nel quadro delle risorse disponibili, mentre la sezione 29 dello stesso strumento conferisce ad ognuno il diritto all’educazione di base. Eppure, è stato sostenuto con forza che l’inclusione di tali diritti in uno strumento costituzionale è preclusa dall’idea stessa di costituzionalismo liberale. Se il progressismo richiede, mentre il costituzionalismo proibisce, che i diritti positivi sociali ed economici facciano parte della legge costituzionale di un paese, allora il costituzionalismo liberalprogressista è veramente impossibile.

Ma perché mai il costituzionalismo liberale dovrebbe opporsi all’inclusione di diritti positivi in una costituzione? È ben vero che i tribunali, per ragioni comprensibili (fra le quali vi è anche il rispetto per la democrazia) tendono ad evitare di «applicare» in senso ampio e diretto tali obblighi, cercando di non anticipare decisioni politiche su un ampio ventaglio di questioni amministrative e di bilancio. La questione, piuttosto, è di capire perché il fatto che un certo «diritto» non sia applicabile in senso pieno (nel migliore dei casi) da parte del potere giudiziario debba essere considerato condizione sufficiente per escluderlo dalla Costituzione. La risposta che si riceve di solito è che, da un lato, l’inclusione di un tale «diritto» è estremamente pericolosa, poiché un diritto che non trovi un tribunale pronto ad applicarlo non è altro che una finzione, una falsa promessa, segno di una vittoria politica che deve essere ancora vinta nei fatti; dall’altro, l’inclusione in una Costituzione di diritti non applicabili ha l’effetto di svalutare i diritti costituzionali in generale. Se un gruppo di attori politici si rende conto di non aver niente da temere dal diritto A, o che il diritto A non lo vincola «veramente», senza dubbio comincerà a pensare allo stesso modo anche al diritto B, C e D.

Ma tutto questo è inevitabile? Forse che una Costituzione non potrebbe essere intesa come una legge vincolante per gli attori politici oltre che per il potere giudiziario, a prescindere dal fatto che quest’ultimo sia o meno in condizione di «applicarla»? Perché mai si dovrà considerare come gesto privo di senso l’imposizione costituzionale di obblighi su attori non giudiziari, anche se nessun tribunale potrà costringere al loro adempimento? Senza dubbio la risposta sarà che tutto ciò è possibile in alcune culture politiche e impossibile in altre. Potrebbe darsi il caso che la cultura americana si trovi ora in condizioni tali da non poter prendere sul serio l’idea che esista un vero obbligo politico a meno che, e fino a quando, un ordine giudiziario si faccia avanti per riempirlo di verità. Ma deve essere per forza così? Esiste una qualche ragione per preferire che sia così?

La risposta, infine, potrebbe essere che il costituzionalismo progressista e liberaldemocratico è possibile a seconda delle contingenze culturali. Nella qual cosa non vi è certo nulla di sorprendente.

 

(traduzione di Debora Spini)

 

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