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Attualita'



Non c’è prosperità senza senso civico


Marco Vitale


Quello che segue è il testo di una relazione sull'argomento "Un approccio economico al senso civico ed alla cooperazione sociale", tenuta in occasione del convegno "La solidarietà tra etica e diritto", organizzato a Roma in dicembre per il cinquantesimo anniversario dell’Unione giuristi cattolici italiani.

"Voi pensate: i tempi sono cattivi, i tempi sono pesanti, i tempi sono difficili. Vivete bene e muterete i tempi!"

S. Ambrogio

"Gli studiosi della storia sono stati colpiti dal fatto che sistemi economici, che possono essere paragonati per altri aspetti, progrediscono a velocità diverse. Un paese produce e distribuisce di più, e il suo reddito annuale aumenta più rapidamente di un paese vicino che è più o meno simile per quanto riguarda il materiale umano e le risorse naturali. Ancor più notevole è il fatto che sotto certi stimoli un paese procederà più rapidamente di quanto abbia fatto alcuni anni prima, o di quanto, venuti a cessare gli stimoli, farà alcuni anni più tardi. In tutti i casi studiati da chi scrive, pare che la differenza risieda nell’effettivo sistema di valori che dirige i desideri e gli scopi (e con essi le azioni) della maggior parte dei suoi abitanti... Il sistema di valori, non misurato e forse non misurabile nei suoi effetti, è una caratteristica visibile, e la più impressionante, di qualsiasi paese e collettività...

"Il sistema politico economico americano continuò a fondarsi sull’impresa privata, eccettuate alcune parti, e continuò a basare le sue operazioni sui profitti delle imprese come remunerazione degli individui. Ma di questo flusso totale di reddito esso separò tre grandi elementi e li destinò a scopi impersonali. Uno di questi elementi, e il maggiore, fu costituito dalle imposte federali statali e locali. Un secondo elemento fu costituito dall’insieme dei contributi volontari e involontari ai fondi di sicurezza sociale, ai fondi per pensione e ad altri istituti simili. Il terzo elemento fu e continua a essere costituito dalle donazioni volontarie e per servizi sociali : esso continua a crescere sia in valore assoluto sia in proporzione al reddito nazionale. Tutti e tre gli elementi accelerarono la formazione del capitale e tutti e tre mantennero un processo distributivo parzialmente, se non del tutto, indipendente dai motivi del profitto e dello scambio e non influenzato dalle loro fluttuazioni. Essi si sono mostrati un sostegno essenziale per le operazioni commerciali basate sul puro interesse egoistico, e che, due generazioni prima, si supponeva costituissero l’intera trama del sistema politico ed economico. Se il sistema economico dipendesse solo dal profitto, tale sistema tenderebbe a stagnare".

Questa pagina del 1962 è di Adolf Berle, americano eminente, economista, studioso delle istituzioni sociali, consulente del governo federale ("La Repubblica Americana"). Berle appartiene a quel gruppo, non numeroso invero, di studiosi dei fatti economici che non hanno mai dimenticato, nella lettura ed analisi dello sviluppo o desviluppo delle società umane, la complessità delle scelte umane e l’interazione continua fra fatti economici e fatti morali, culturali, antropologici, sociali, politici. Sono da collocare in questo filone, in primo luogo, i pensatori italiani del ‘700, da Galiani a Genovesi, Filangeri, Ortes, a quelli della scuola lombarda del ‘700 (quella che Voltaire chiamò "l’école de Milan") e dell’800, da Verri a Beccaria a Romagnosi al grandissimo Carlo Cattaneo di "Del pensiero come principio d’economia pubblica" (che anticipa, con concetti molto simili, esattamente di un secolo, il Berle, essendo il suo saggio del 1861). Ma è da includere in questo filone anche un gruppo di eminenti, anche se minoritari, studiosi moderni di economia, da Einaudi a von Mises, Hayek,Coase, Sylos Labini, Amartya Sen, Hirschman, Galbraith, Gunnar Myrdal (che nella sua lezione per il premio Nobel per l’economia del 1974 affermava: "Quando i politici e gli esperti non sono in grado di attribuire il peso dovuto alle motivazioni di ordine morale, essi mancano di realismo") sino a valorosi giovani economisti italiani, come Stefano Zamagni, che a questi temi ha dedicato contributi di grande rigore anche teorico.

A sostegno della tesi di Berle esistono letteralmente montagne di evidenze storiche ed empiriche di tutti i luoghi e di tutti i tempi. Eppure per un lungo periodo la teoria economica dominante ha ignorato tutto ciò, ha rifiutato la complessità, ha posto alla base della sua riflessione assunti astratti ed irrealistici. La ragione di ciò è spiegata, tra gli altri, molto bene da von Hayek, nella sua lezione per il premio Nobel del 1974, dal titolo "La presunzione del sapere" :

 

"Ciò mi porta ad affrontare il punto cruciale. A differenza di quanto avviene nelle scienze naturali, in economia e in altre discipline che debbono trattare fenomeni per loro natura complessi, sono pochi gli aspetti degli eventi fondamentali sui quali disponiamo di informazioni quantitative e non vi è nessuna garanzia che si tratti davvero degli aspetti più importanti... Tale impostazione viene spinta fino a richiedere che le nostre teorie debbano essere formulate in termini riferibili esclusivamente a grandezze misurabili... Questo punto di vista, che viene spesso accettato ingenuamente come se fosse un corollario dell’approccio scientifico alla realtà, presenta alcune conseguenze piuttosto paradossali. Del mercato e di altre strutture sociali analoghe conosciamo tutta una serie di aspetti che non siamo in grado di misurare, sui quali disponiamo solo di informazioni molto imprecise e generali. Dal momento che gli effetti di questi aspetti non possono essere confermati sempre, in ogni specifica circostanza, dall’evidenza quantitativa, essi sono semplicemente trascurati da coloro che hanno giurato di ammettere solamente quelli che considerano fatti scientificamente provabili: da questo momento in poi costoro procedono allegramente sulla base della finzione che i fattori misurabili siano gli unici rilevanti".

Si tratta di una autentica "superstizione" (von Hayek) che ha portato la teoria economica in un vicolo cieco; a diventare un filone di pensiero intelligente, elegante, persino - talora - divertente, ma assolutamente irrilevante per il bene vivere degli uomini. Tuttavia, da circa trent’anni, la teoria economica ha compiuto molti passi avanti, per togliersi da questo vicolo cielo, per riaccostarsi alla complessità reale delle scelte umane. Non è certo il caso di approfondire, in questa sede, tali sviluppi. Ma è importante almeno ricordarli e prenderne atto, perché un più solido fondamento, anche teorico, è essenziale per la tematica che oggi siamo chiamati a discutere. Ed allora è bene prendere atto che i principi cardine dell’utilitarismo (che così a lungo hanno dominato la teoria economica) sono stati, dal pensiero più recente, sottoposti a profonde critiche, confutazioni, interpretazioni, riformulazioni, evoluzioni. Ciò vale in particolare per il principio cosiddetto "welfarism", secondo il quale l’unica base corretta per la valutazione delle scelte umane è il benessere individuale che esse procurano al singolo; e per il principio cosiddetto "sum-ranking" , secondo il quale il benessere collettivo è determinabile solo attraverso la somma delle utilità individuali, come sopra definite.

Vari sono i filoni di pensiero che hanno portato ad un vero e proprio scardinamento di questi principi tradizionali dell’utilitarismo che, come capita spesso con i principi antichi e superati ma da lungo tempo interiorizzati, continuano ad avere un’influenza non più giustificata alla luce dell’evoluzione del pensiero economico contemporaneo. Le teorie più recenti, per vie e con approcci spesso diversi, sono abbastanza convergenti sul fatto che: "il bisogno di norme e di comportamenti etici che integrino e, all’occasione, sostituiscano l’interesse personale appare oggi come uno dei risultati più interessanti della ricerca teorica degli ultimi vent’anni sui fondamenti della dottrina del libero mercato"... (L’osservazione delle divergenze tra risultati attesi e risultati effettivi delle scelte individuali, indica che): "i principi dell’interesse personale della moralità mercantile risultano insufficienti come strumenti di organizzazione sociale quando sono massicciamente presenti fenomeni di interazione sociale, come è appunto il caso delle moderne economie ad avanzato grado di industrializzazione. In situazioni del genere, il perseguimento del "self - interest" se non è sostenuto e, in un certo senso, corretto da istanze etiche più forti di quelle di onestà e fiducia, cessa di assicurare il raggiungimento dell’obiettivo dell’efficienza, quanto a dire che il meccanismo di mercato, da solo, non assicura più un risultato che è Pareto - ottimale" (S. Zamagni).

Vale la pena di ricordare i principali di tali filoni, non per inutile esibizione teorica, ma perché molti degli argomenti teorici dibattuti, nell’ambito degli stessi, sono anche quelli con i quali ci imbattiamo nel nostro faticoso travaglio quotidiano.

Possiamo brevemente ricordare :

- il filone che, pur rimanendo rigidamente ancorato alla teoria dell’utilitarismo, arricchisce l’analisi delle scelte individuali, introducendo la distinzione tra "preferenze etiche" e "preferenze personali" (John Harsanyi, "Rational Behaviour and Bargaining Equilibrium", 1977) ;

 

- il filone che pone le fondamenta della teoria economica delle scelte sociali (Arrow, "Social Choice and Individual Values", 1951);

 

- il filone che introduce l’analisi sui fallimenti del mercato, sugli effetti esterni, sulle asimmetrie informative, sulla distinzione tra costo privato e costo sociale, sulla nozione di beni pubblici e sui fenomeni particolari che si verificano in relazione agli stessi (come il fenomeno dei "free - rider" ed il fenomeno paradossale che in presenza di beni pubblici i soggetti razionali sono condotti a scegliere l’alternativa e il corso di azione che non massimizza il loro benessere);

 

- il filone, rappresentato soprattutto dal Premio Nobel per l’economia Ronald H. Coase ("The Problem of Social Cost", in "Journal of Law and Economics", 1960), che sostiene che le conseguenze indesiderabili di esternalità, asimmetrie informative, beni pubblici possono essere corrette per mezzo del meccanismo di mercato stesso, senza alcun bisogno di ricorrere ad altri principi di organizzazione. Filone, questo, a mio avviso, ancora di grande interesse, soprattutto da noi dove la maggior parte delle disfunzioni economiche e sociali che inquadriamo come fallimenti del mercato sono, in realtà, fallimenti delle istituzioni;

 

- il filone che affronta una critica radicale all’utilitarismo, per la sua visione ristretta ed insufficiente della persona umana, per il ruolo fondamentale nel processo delle scelte sociali, ed invece ignorato dall’utilitarismo, dei diritti (soprattutto Amartyan K. Sen "Collective Choice and Social Welfare", 1970);

 

- il filone che introduce l’analisi delle interrelazioni e tensioni tra efficienza e giustizia, con la scoperta che i due valori non possono a lungo restare dissociati, perché una divergenza troppo profonda e troppo lunga tra democrazia economica e democrazia politica rode, alla radice, i fondamenti stessi di una economia di mercato; con i conseguenti sforzi di dar vita ad un quadro di riferimento entro il quale poter trattare, ad un tempo, questioni di efficienza e questioni di giustizia, superando così la tradizionale dicotomia (qui i nomi sono parecchi ed importanti, ma, forse, i più importanti sono : Okun, Rawls, Sen). E’ stato giustamente osservato che tali teorie "offrono un ventaglio variegato di possibili accezioni della nozione di giustizia distributiva e quindi di modi diversi di avviare a soluzione il problema del "trade-off" tra efficienza e giustizia. Tale pluralità di posizioni è il risultato della presa d’atto di questa verità: che la dimensione politica del discorso economico pone problemi seri, che l’economista non può eludere, quale che sia la soluzione che ritiene di dover proporre. Si è assistito così ad un progressivo abbandono della celebrata tesi della neutralità della scienza economica" (Zamagni);

 

- il filone del neo-istituzionalismo americano, segnato dalla fondazione del "Journal of Law and Economics" che sancì, nel 1958, la nascita di una fruttuosa collaborazione fra le facoltà di diritto e di economia dell’Università di Chicago; anche questo è un filone di grande fertilità sia nella corrente evoluzionista (von Hayek : le istituzioni sono il "risultato dell’azione umana ma non del progetto umano"), sia in quella contrattualistica. Grazie a quest’ultimo filone, che valorizza il metodo contrattualistico come modo di organizzare complessi fenomeni sociali, in relazione ai quali si sono registrati fallimenti del mercato, sono ritornate sull’agenda dell’economista questioni abbandonate in passato ad altre discipline, come: il ruolo economico delle regole di convivenza, il valore dei contratti di lungo periodo, i rapporti di autorità, il valore economico della reputazione;

 

- vi sono poi individualità di grande rilievo, tutte rilevanti per il nostro tema. Possiamo mettere qui: Nicholas Georgescu - Roegen, soprattutto per la sua critica allo sterile meccanicismo della teoria economica tradizionale e per la sua proposta di una nuova alleanza fra economia e ambiente; John Kenneth Galbraith, soprattutto per la sua teoria dei "countervailing power" e per aver messo a fuoco il valore che, in uno sviluppo equilibrato, ha quella componente che chiamiamo economia pubblica; Albert Hirschman (laureatosi a Trieste ed inizialmente dedicato agli studi di statistica demografica e di economia italiana) per la continua evidenziazione che nello sviluppo economico dei popoli gli aspetti sociali e politici hanno un grande peso; lo sviluppo deriva - dice Hirschman - principalmente dalla capacità di chiamare a raccolta e mettere a profitto risorse e capacità "nascoste, disperse, male utilizzate" ed in questa prospettiva i fattori non economici giocano un ruolo fondamentale; da qui l’appello di Hirschman, come economista, rivolto soprattutto agli economisti, a prendere sul serio, per capire le vicende della vita economica, le azioni ed il comportamento umani non riconducibili al tradizionale concetto di interesse: "le azioni motivate dall’altruismo, dall’attaccamento ai valori etici, dalla preoccupazione per l’interesse pubblico o di gruppo" ("Essays in Trespassing : Economics to Politics and Beyond", 1981).

Accanto alla teoria economica è necessario un accenno anche alla teoria d’impresa. Qui il discorso è più facile. La migliore teoria d’impresa è sempre stata più vicina alla reale complessità dell’agire economico; ha, da gran tempo, posto al centro della sua attenzione il ruolo centrale della persona; ha, da gran tempo, collocato l’agire dell’impresa - con le sue tensioni, i suoi conflitti, le sue convergenze, il ruolo centrale dei valori individuali e collettivi - nell’ambito della società civile e del quadro istituzionale, come uno dei soggetti che dalla società civile e dalle istituzioni sono profondamente influenzati e che, a loro volta, li influenzano profondamente. L’uomo d’impresa, per la migliore teoria d’impresa, non è mai stato l’"homo economicus" della teoria economica, ma l’"homo faber" (così bene illustrato da George Gilder in "Lo spirito d’impresa"; Longanesi), con tutte le sue complessità, con tutte le sue contraddizioni, con tutto il suo grande bisogno di punti di riferimento che non siano, che non possono essere autoreferenziati.

Ma questo straordinario e complesso soggetto del nostro tempo, l’impresa, organismo sociale dove la maggior parte delle persone passa la maggior parte delle ore della propria vita, non è stato ignorato solo dai religiosi, dai filosofi e dai letterati. Esso è stato lungamente ignorato anche dalla teoria economica. Se si eccettua la grande scuola austriaca (con i suoi vertici, von Mises, von Hayek, Schumpeter) e, nei secoli scorsi, la grande scuola italiana dei Verri, Gioia, Romagnosi, Cattaneo (autentici vertici del pensiero mondiale dello sviluppo, penalizzati dalla limitata diffusione della lingua italiana. Basti pensare che l’americano Becker ha, pochi anni fa, ottenuto il premio Nobel per l’economia, dicendo essenzialmente cose che Carlo Cattaneo aveva già scritto, con maggior vivacità, centocinquant’anni fa), ben poca attenzione la teoria economica ha rivolto all’impresa, alle sue caratteristiche, alla sua funzione, ai suoi problemi, ai suoi risultati, ai suoi rapporti con la società civile. E ciò si spiega molto bene. L’impresa e lo spirito imprenditoriale sono esattamente il contrario dell’araba fenice della quale gran parte della teoria economica si era messa alla ricerca.

La teoria economica cercava un sistema compiuto e stabile. E l’impresa è, per definizione, creatrice, ribaltatrice di equilibri esistenti, fondatrice di nuovi, sempre precari e temporanei, equilibri. La teoria economica voleva misurare le relazioni di un’economia statica, da laboratorio. E l’impresa, un insieme di continui flussi che scorrono secondo relazioni in continua mutazione, immette continuamente, nel sistema, poderose dosi di dinamica economica e sociale, mutando al contempo i contenuti e le relazioni stesse. La teoria economica ricercava un mondo meccanico, rigorosamente privo di valori. E l’impresa, società di uomini, viveva o cadeva, invece, essenzialmente sul suo sistema di valori o disvalori. La teoria economica ignorava l’uomo, l’uomo reale, concreto, sociale. E l’impresa, come è di ogni organismo sociale, continuava, invece, a spingere alla ribalta l’uomo e le relazioni fra gli uomini come fattore centrale.

Come dicevo sempre ai miei allievi, quando parlavo loro di questi temi, noi siamo tutti viandanti che, pur provenendo da punti di partenza diversi, convergono verso un unico crocevia. Il crocevia è dove la società, nel suo insieme, la società degli uomini del lavoro quotidiano e quella degli studiosi delle più varie discipline, cercano di rispondere ad una domanda cruciale : quale sviluppo vogliamo noi, come comunità? Nessuno può rispondere da solo a questa domanda. Non l’economista, non il religioso, non il filosofo, non il politico, non l’imprenditore. A questo crocevia ognuno giunge con la sua bisaccia nella quale porta i suoi doni, scarica la sua bisaccia e mostra i suoi doni agli altri. E’ dalla qualità di questi doni e dalla sincerità e generosità dello scambio che dipende se il tragitto successivo sarà o meno proficuo. Gli uomini d’impresa portano alcuni doni importanti, anche se gli altri viandanti li hanno, sino ad ora, vistosamente ignorati, quasi che questi doni non facessero parte del paradigma culturale del principale luogo di lavoro (l’impresa) dove la maggior parte delle persone passa la maggior parte della vita e spende le sue migliori energie. Ma gli uomini d’impresa hanno bisogno di un pensiero autentico che li aiuti a comprendere e collocare il loro "fare", i loro "doni" in una posizione meno fragile e superficiale di quella alla quale li ha condannati la futilità della maggior parte delle dottrine manageriali. Hanno insomma bisogno di un pensiero autentico. E questo lo possono trovare fuori da se stessi, con l’aiuto di doni degli altri viandanti che si ritrovano al crocicchio.

 

Ecco allora che arriviamo al convergere di tre filoni di pensiero che tendono tutti verso conclusioni simili. La migliore e più recente teoria economica, la migliore teoria dello sviluppo e del desviluppo con relative testimonianze storiche, la migliore teoria d’impresa, tutte ci dicono che non c’è sviluppo economico serio, duraturo e stabile, né per la singola impresa, né per l’insieme della collettività, senza una proficua e fertile interrelazione fra valori individuali e valori comuni, tra obiettivi individuali ed obiettivi comuni, tra bene individuale e bene comune. Ci dicono quello che Zamagni ha sintetizzato magistralmente nelle seguenti parole :

"Dare senza perdere e prendere senza togliere può sembrare la quadratura del cerchio, qualcosa di contrario alla ragione. Eppure, l’idea che esista un conflitto irriducibile tra proclamazione dei valori e difesa degli interessi, tra solidarietà e sussidiarietà, tra economia privata ed economia civile, pure che si possa realizzare una società di umani senza una cultura della reciprocità e un modello di sviluppo sostenibile, senza una polis, è un aspetto ingenuo ed anacronistico di una certa nostra eredità culturale. Occorre, dunque, ricercare le vie per il superamento di queste false e dannose dicotomie. Di qui può nascere una speranza nuova per un cambiamento possibile" ("Economia, democrazia, istituzioni in una società in trasformazione", a cura di Stefano Zamagni", Il Mulino, 1997).

 

Questo è l’approccio corretto: "ricercare le vie per il superamento di queste false e dannose dicotomie". Non dobbiamo metterci alla ricerca di un mitico "bene comune", sovraordinato, sovragestito, generale, immutabile. Perché la storia umana gronda sangue e dolori da parte di chi si è, in passato, arrogato il titolo di depositario esclusivo del bene comune. I processi alle streghe, le torture dell’Inquisizione, i genocidi di Hitler, i massacri di Stalin sono sempre stati condotti all’insegna del bene comune. Oggi siamo, giustamente, molto diffidenti verso chi ci vuole elargire il bene comune. Il bene comune vogliamo costruircelo insieme, giorno per giorno, in un continuo processo di "try and correct", garantito dal metodo democratico, in una società complessa e poliarchica, con un approccio, insieme, diffidente e capace di alimentare la speranza. Il bene comune deve essere concreto, specifico, verificabile, confutabile. Il bene comune deve crescere in noi e non essere un dato fuori di noi. Come ha scritto, con grande efficacia, Peter Drucker :

" Il problema fondamentale di ogni pluralismo è sempre stato quello di stabilire a chi spetti occuparsi del bene comune. La soluzione tradizionale, che risale a centinaia di anni fa, è in realtà un’illusione : il bene comune nascerà dal conflitto degli interessi contrastanti. Ma ciò al massimo genera una situazione di stallo. E’ necessario, invece, che le istituzioni pluraliste contemplino nella loro visione, nel loro comportamento, e nei loro valori, l’interesse e la responsabilità nei confronti del bene comune. In altre parole, occorre che esse si assumano la loro quota di responsabilità politica.

E’ importante sottolineare che a queste conclusioni e convergenze giungono dei filoni di pensiero che non hanno preso le mosse da una ricerca morale o filosofica o politologica, ma che si erano messe alla ricerca, da diversi punti di vista, esclusivamente dell’efficienza economica, del come vivere economicamente bene. La conclusione è : non potremo vivere economicamente bene se non scopriremo la strada del vivere civilmente bene. E’ da molto tempo, che non vi era più una così larga convergenza di pensiero su questi temi. Dunque la teoria è, ora, solidamente fondata, pluralista e promettente.

Ma la pratica? Qui il discorso, almeno da noi, si complica molto. Decenni di abbandono, di trascuratezza, di economicismo, di assistenzialismo, di sindacalismo esasperato ed irresponsabile, hanno trasformato il nostro giardino in una giungla, che non è facile bonificare.

Il nostro Paese è diventato veramente bruttino, come dice l’amico Sylos Labini, che ama sdrammatizzare le situazioni. Ma, come scrisse S. Agostino : "Voi pensate : i tempi sono cattivi, i tempi sono pesanti, i tempi sono difficili. Vivete bene e muterete i tempi!". Per fare ciò dobbiamo, però, unirci in un sistema di reti intercomunicanti. Dispersi siamo sicuramente perduti, anche perché il nostro Paese e la nostra città sono occupati da mafie micidiali, formate da persone molto unite tra loro, nel fare il male. Per unirci dobbiamo identificare alcune, poche cose essenziali, intorno alle quali poter lavorare insieme. A me sembra che i prerequisiti essenziali per dare una prospettiva concreta al tema che stiamo dibattendo, siano quattro.

1. Bisogno di diritto

Una volta chiesi ad un pescatore siciliano, che aveva notevole esperienza di lavoro negli USA: "Ma, alla fine, qual è la cosa di cui voi, pescatori siciliani, avreste più bisogno per svilupparvi?". Dopo un attimo di riflessione mi rispose, in modo sorprendente ma sicuro : "Avremmo bisogno di più diritto".

Parlo intenzionalmente di diritto e non di giustizia, che è un bene troppo grande, lontano, irraggiungibile. Noi abbiamo un grande deficit di diritto, nella sua forma più semplice ed elementare, di accettabili regole di convivenza, rispettate e che, all’occorrenza, sia possibile far rispettare da una magistratura seria, efficiente e indipendente. Parlo di diritto nel senso usato dalla Nota pastorale della Commissione ecclesiale Giustizia e Pace, dedicata all’educazione alla legalità, che ha usato parole molto appropriate:

"Senza chiare e legittime regole di convivenza, oppure se queste non sono applicate, la forza tende a prevalere sulla giustizia e l’arbitrio sul diritto, con la conseguenza di mettere a rischio - ed anzi di non consentire - l’esistenza di una società libera e giusta".

Esattamente come è il nostro caso. Da noi il diritto è pressoché sparito, sia quello civile che quello penale (stranamente un po’ di diritto sopravvive proprio nel campo amministrativo) e sino a quando non sarà, almeno in parte, ripristinato, parlare di "polis", di valori comuni, di società civile, di convergenza tra scelte economiche e scelte civili, rischia di suonare velleitario. Riconquistare un po’ di diritto è, dunque, prerequisito elementare.

2. Bisogno di cittadinanza

Una società aperta trova la sua forza, anche economica, nella capacità di allargare continuamente la sfera di cittadinanza dei suoi membri e nell’attrarre alla propria cittadinanza persone attive provenienti da ogni parte del mondo.

Questa è sempre stata una delle caratteristiche fondamentali di Milano. Pietro Verri, nel suo bellissimo saggio sulla "Economia pubblica dello Stato di Milano" (1763), ci ricorda che, al culmine della sua forza e prosperità, nel XV secolo, gli antichi statuti di Milano contenevano due norme fondamentali.

 

La prima stabiliva che chiunque (milanese o non milanese, uomo o donna) volesse svolgere un lavoro lecito, poteva insediarsi nel ducato e dar vita alla sua attività senza chiedere permesso a nessuno.

La seconda stabiliva, per usare le parole del Verri, che "Le università, ossia paratici, cioè quei corpi delle arti e dei mestieri che al dì d’oggi sono tanti quante le arti e i mestieri possibili ad esercitarsi dall’umana industria, erano dagli statuti espressamente proibiti, ed annullate e cassate preventivamente le leggi o statuti che in avvenire essi corpi pretendessero mai di arrogarsi".

Queste due norme aiutano a comprendere il radicale conflitto tra il principio di cittadinanza (secondo un unico, unitario Statuto) ed il principio di appartenenza od affiliazione (secondo tanti Statuti di parte, occulti o palesi). La nostra società, la nostra città ha bisogno di vincere qualche mano vera a favore del principio di cittadinanza e contro il principio di affiliazione (di partito, di ordine professionale, di massoneria in tutte le sue varianti più o meno degeneri, di associazione, di categoria, di sindacato, di cosca).

Sergio Romano ci ha spiegato molto bene, nel suo acutissimo "Le Italie parallele", che l’Italia non riesce a diventare un paese moderno proprio perché, nelle svolte critiche, il principio di affiliazione finisce per prevalere sia sul principio di cittadinanza che sul principio di professionalità. Nelle mie esperienze nel pubblico, e soprattutto nel mio periodo come assessore al Comune, avevo imparato a riconoscere dagli sguardi, dalle parole, dai gesti, dal modo di ragionare quei funzionari che erano pagati dal Comune ma che erano in realtà mandatari, affiliati, "dipendenti" da organismi partitici o di altra natura, estranei al Comune e che perseguivano obiettivi diversi e talora contrastanti con quelli del Comune. Sono questi la metastasi della città.

Il fenomeno non è nuovo, se già Bonvesin de la Riva (1288) dopo aver tessuto l’elogio di Milano per i suoi abitanti, commenta: "A questo punto qualcuno mi obietterà : ‘Perché colmi di tante lodi Milano per i costumi dei suoi abitanti? Non sono forse noti a tutti i loro odi e tradimenti reciproci, le loro discordie civili, le loro crudeli distruzioni? Dunque tu non parli a proposito’...Magari un altro obietterà ancora : ‘Perché, se hanno le qualità che tu decanti, la loro bontà non mette un freno a tanta malvagità?’ Rispondo: ‘Perché la potenza temporale tocca più spesso ai corrotti, e i figli delle tenebre, nelle loro iniquità, operano spesso con più passione e cautela che i figli della luce nelle loro opere’".

Ma è evidente che, se non vinciamo qualche mano seria a questa partita, il senso civico continuerà a declinare e l’appello allo stesso diventerà sempre più declamatorio ed esortativo. Con la conseguente perdita economica collettiva, dovuta al non poter "usare" le enormi energie che dal senso civico, rispettato, valorizzato, finalizzato, possono nascere, come le fasi migliori della stessa storia di Milano stanno a dimostrare. Anche questo, dunque, il bisogno di cittadinanza, è un prerequisito elementare.

3. Bisogno di autorevolezza

Talora mi hanno chiesto che sindaco sognerei per Milano. Ho sempre risposto : Radetzky. Non voleva essere una provocazione ma l’indicazione, attraverso il personaggio, di due requisiti essenziali. In questo straordinario personaggio ritrovo le caratteristiche più importanti che un sindaco oggi deve avere. Radetzky, in primo luogo, amava profondamente Milano, tanto che, nelle Cinque Giornate, non usò i cannoni contro la "sua " città. Radetzky, in secondo luogo, non aveva solamente la forza del suo esercito, ma aveva una enorme autorevolezza personale. Perché era un grande professionista, un uomo giusto, un uomo privo di spirito di parte.

Quando si devono affrontare grandi problemi, grandi cambiamenti, grandi scontri; quando si devono vincere grandi pigrizie; quando si devono superare interessi arroccati su posizioni molto partigiane, l’autorevolezza è essenziale. I titolari di quegli interessi di parte, magari capiscono che il loro agire è contrario all’interesse della città, ma chi, e come li può smuovere dalle loro posizioni di comodo? Nell’industria privata operante sul mercato, questi processi finiscono, alla lunga, per venire giocati sul filone della sopravvivenza o meno dell’impresa. Ma nel pubblico, come si può agire?

Solo due fattori possono aiutare  a superare, ad esempio, i privilegi dei vigili urbani e ricondurli alla ragione economica ed amministrativa. La grandezza di un disegno nel quale inserire la vicenda: ad esempio il conflitto con i vigili non deve essere una semplice questione sindacale, ma un capitolo del grande progetto sul traffico che Milano deve darsi. La pressione di una opinione pubblica molto forte, bene informata e decisa nel sostenere chi si è assunto il difficile compito. E l’autorevolezza di chi conduce la battaglia, per conto della città. Autorevolezza vuol dire credibilità, rispettabilità, convinzione diffusa nei cittadini che chi agisce non agisce per ragioni di parte, ma veramente rappresenta la città, fermezza ma, al tempo stesso, disponibilità al compromesso democratico, alla ricerca di soluzioni ragionevoli, pratiche.

Senza l’autorevolezza dei leader non si va da nessuna parte. Ma l’autorevolezza richiede persone che si siano impegnate per il diritto e per il principio di cittadinanza contro il principio di affiliazione. Tutto, dunque, si tiene.

4. Bisogno di uguaglianza

Il termine di uguaglianza è stato usato in tanti significati. Io lo uso in un significato ed in una prospettiva non molto comune da noi : quello dell’uguaglianza tra il pubblico ed il privato. E’ indispensabile smontare dalla nostra cultura, dai nostri comportamenti, dalle nostre leggi, dalla nostra testa, quella generale ed infondata supremazia del pubblico sul privato, che ancora è così dominante da noi.

Chi svolge una funzione pubblica ha dei poteri di supremazia, fissati e regolati dalle leggi, che sono necessari perché tale funzione possa svolgersi. Ma chi esercita una funzione pubblica non ha, personalmente, alcuna posizione di supremazia. Né la sua funzione, solo perché pubblica, è, per ciò stesso, superiore ad altre.

Un’impresa pubblica non è, per il solo fatto di essere pubblica, migliore di una privata. Anzi, abbiamo visto quanto peggiori possano essere! Un direttore di un ufficio tecnico comunale, che deve dare dei nulla-osta dai quali dipendono dei lavori, non è, per ciò stesso, superiore ad un grande architetto che quei lavori ha progettato. Una macchina dei vigili urbani può fermare la mia macchina se commetto un’infrazione, ma non può, a sua volta, passare con il rosso. Un pretore od un assessore non può convocarmi come e quando vuole lui, senza quel preavviso che usiamo in tutte le relazioni civili e poi, magari, tenermi fermo ad attenderlo per ore

Ognuno deve rispondere per quello che fa e per come lo fa, pubblico o privato che sia. E’ necessario allargare al pubblico la grande, profonda moralità del mercato. Anche l’esercizio del potere amministrativo deve rispondere per quello che produce ; per la qualità di quello che produce ; per il costo di quello che produce.

Forse la moderna teoria contrattualistica e le analisi della scuola americana della "public choice", ma ancor più l’osservazione empirica della complessità della società, della difficoltà dei problemi che dobbiamo affrontare, della pari dignità di tutte le energie positive che devono essere mobilitate per la buona società, dovrebbero farci capire quanto è urgente ed indispensabile che noi comprendiamo, interiorizziamo, utilizziamo queste parole che uno dei più grandi economisti italiani, Francesco Ferrara, scriveva nel 1884:

" L’ufficio del governare (è) una fra le migliaia di occupazioni, una delle tante industrie, uno de’ tanti mestieri che, prendendoli nel loro insieme, danno l’idea dell’attività sociale. Tutti quanti siamo, ... produciamo, permutiamo, consumiamo utilità più o meno incarnate in una materia... Da ciò, una classe di produttori, addetti a procurare quella tale utilità, che si chiama giustizia, ordine, tutela, in una parola governo... Se governare... è produrre, le innate leggi della produzione devono inesorabilmente regnare sul mestiere de’ governanti, quanto e come regnano su chi coltiva la terra e ne porta i frutti al mercato. L’utilità sociale che il Governo produca non può, da lui medesimo o da lui solo, estimarsi ; chi può misurarla, gradirla o rifiutarla, attribuirle un valore, sarà colui che la compri e la consumi, la nazione. Sì, noi, nazione - governata, siamo i soli a cui spetti il decidere se ella meriti quel prezzo che il produttore - governo, per mezzo delle imposte di cui ci aggrava, o delle privazioni a cui ci condanna, pretenda di farcela costare... Tale è la portata dell’espressione che noi usiamo, libertà economica".

Coerentemente con questa concezione, Ferrara pensava ad una pubblica amministrazione finalmente spoglia da autorità non giustificata, se non strettamente legata alla funzione, un’amministrazione obbligata a mettere continuamente in discussione se stessa, come tutti; un’amministrazione pubblica "nella quale l’impiegato venda l’utilità del suo lavoro, e non viva da parassita ; sia apprezzato per quel che faccia, non riverito per il titolo che gli si affibbi ; duri quanto dura il bisogno del suo servigio, sia rivocabile senza appello, si abitui a trovare nella sua funzione un incarico temporaneo, ed affidi al mestiere, all’industria, alla potenza individuale di se medesimo la cura di non privarlo de’ mezzi opportuni alla vita ;... un sistema nel quale... il governo chieda, e l’individuo consenta, di prestare un servigio al pubblico".

Un’amministrazione così concepita sarà anche capace di comprendere e rispettare profondamente le arti e mestieri, di rendersi conto che è solo se le arti e mestieri funzionano bene, nell’ambito di un patto civile accettabile, se le unità elementari della società (la famiglia, l’impresa ) sono equilibrate, sane e produttive e non oppresse e sul piede di guerra, che la comunità più larga, la "Polis", lo Stato, saranno in condizioni decenti.

Tutto ciò è già chiarissimo in Aristotele che, all’inizio del libro primo del trattato sull’economia, scrive : "Lo Stato è un complesso di famiglie, di terre e di possedimenti sufficienti a vivere bene. Ed è evidente: che quando non riescono ad ottenere ciò, anche la comunità si sfascia. Inoltre è per questo scopo che gli uomini si associano... Di conseguenza è chiaro che l’amministrazione domestica è, per origine, anteriore alla politica... Bisogna dunque fare un’indagine sull’amministrazione domestica e qual è l’opera sua".

Dunque non può esserci comunità, associazione pubblica, stato, in buone condizioni, se in buone condizioni non sono le cellule elementari produttive. Ma la comunità trae da questo energia e per questo deve, a sua volta, proteggere, tenere ordinate, usare tali energie per scopi positivi e propri "allo scopo per cui gli uomini si associano".

Ma questo non si verifica se chi è titolare della funzione pubblica non conosce e non coltiva in sé un profondo rispetto per chi esercita le arti e mestieri. E’ questo un passaggio di grande importanza in un paese dove l’amministrazione pubblica, troppo spesso, sembra, sulla scorta di antiche culture nobiliari, odiare i "villani" o gli "idioti" che esercitano le volgari arti e mestieri

Sotto questo profilo mi ha recentemente molto colpito, al museo egizio di Berlino, un testo antico che apparteneva ad un manuale di esercitazioni per la preparazione dei funzionari pubblici. E’ evidente in questo testo l’obiettivo di far sì che il funzionario pubblico conosca e rispetti la fatica del contadino, del produttore. Vorrei condividere con voi questo bellissimo testo:

 

La giornata di lavoro del contadino
Ed ora vieni, che io ti mostri cosa ne è
del contadino, di questo così duro lavoro.
Quando l’acqua sale per l’annuale
inondazione del Nilo, egli viene tutto bagnato.
Se ne sta là ritto con i suoi attrezzi, tutto il giorno
affila come si deve gli arnesi per arare, la notte
arrotola corde. Persino l’ora del mezzogiorno
la trascorre lavorando e fa i suoi
preparativi, per andare nel campo.
Quando il campo si stende asciutto davanti a lui, egli se ne va,
per andare a prendere un tiro di buoi.
Per molti giorni va dietro il mandriano...
Viene al suo campo e trascorre un periodo
di otto ore e ara, mentre il verme
lo incalza.
E anche quando ha finito di seminare, passerà
molto tempo
prima che veda nascere verdi germogli.
(da un testo di esercizi per futuri funzionari statali, del 1150 circa a.C.)

 

Credo che la nostra amministrazione pubblica debba ricominciare esattamente da qui, dalla conoscenza e rispetto dei produttori.

Ho indicato in quattro necessità :

Bisogno di diritto;

Bisogno di cittadinanza;

Bisogno di autorevolezza;

Bisogno di uguaglianza;

i prerequisiti elementari ad un discorso serio su un approccio economico al senso civico ed ai vantaggi della cooperazione sociale. Se non si realizzano, almeno in parte, questi prerequisiti, il discorso su approccio economico - senso civico - cooperazione sociale, resta velleitario e senza prospettive. E, quindi, il declino economico, almeno relativamente allo sviluppo di società civilmente più coeve e capaci di valorizzare le loro energie positive, è pressoché certo.

E’ il declino della Milano spagnola dopo la grandezza del Ducato di Milano del Quattrocento e Cinquecento. E’ il declino della Sicilia e della Campania rispetto alla Lombardia dopo l’unificazione d’Italia. E’ il declino di Berlino Est rispetto a Berlino Ovest. Ma se avremo il coraggio di abbattere i tanti muri di Berlino che dividono il nostro Paese e la nostra città, e la lucidità di capire che lo schema di mercato (che da noi, intendiamoci bene, è da rafforzare, da espandere e da portare ovunque possibile, anche nella sfera pubblica) non esclude la dimensione civica in tutte le nostre personali attività ma anzi da uno sviluppo di tale dimensione ne verrà rafforzato, allora potremo riprendere la via di un serio sviluppo economico e civile.

Allora capiremo quale potentissima energia, ancora inespressa, si cala nelle viscere delle nostre città, un’energia capace di vincere e superare ogni difficoltà. Allora capiremo il significato profondo di quanto diceva un grande sindaco americano: l’unico modo possibile per sviluppare una città è "to make leverage on the city". Allora capiremo che la disoccupazione giovanile non è frutto di un avverso ciclo economico o della tecnologia ma è solo ed esclusivamente una invenzione dei nostri governanti e della nostra classe dirigente.

 

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