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L'etica della comunicazione


Karl Otto Apel con Enzo Moreno

 

Questa intervista è tratta dall’Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche, un’opera realizzata da Rai-educational in collaborazione con l’Istituto italiano per gli studi filosofici e con il patrocinio dell’Unesco, del Presidente della Repubblica Italiana, del Segretario Generale del Consiglio d’Europa.

L'obbiettivo è quello di diffondere nel mondo, tramite le nuove forme d’espressione e comunicazione sociale consentite oggi dalla tecnica, la conoscenza della filosofia nel suo svolgimento storico e nei termini vivi della cultura contemporanea.

Per ulteriori informazioni potete visitare il sito Internet: www.emsf.rai.it

Professor Apel, che cos'è l'etica della comunicazione di cui lei è considerato il fondatore?

Per poter spiegare che cosa sia l'etica della comunicazione, ritengo che occorra ritornare a un mio saggio sull'etica, scritto negli anni Sessanta, pubblicato nel libro del 1973 Transformation der Philosophie. Allora il tema era quello della fondazione razionale dell'etica nell'epoca della scienza. Dal mio punto di vista, il problema fondamentale consiste nel fatto che, da un lato, l'epoca della scienza e della tecnica aveva accresciuto smisuratamente la responsabilità degli uomini e messo, per così dire, a portata di mano la necessità di una nuova etica; dall'altro, però, la scienza stessa faceva sembrare impossibile una fondazione razionale dell'etica, poiché, in primo luogo, la scienza viene considerata come avalutativa, e, in secondo luogo, la razionalità è determinata dalla scienza - quest'ultima ha cioè "colonizzato" il concetto di "razionalità".

Questa è stata per me la sfida paradossale, che mi ha spinto a fondare un'etica della comunicazione. L’idea decisiva che mi ha guidato è stata la seguente: è certamente corretto affermare che la scienza, in rapporto alla cosa, nella relazione soggetto-oggetto, è necessariamente avalutativa – in questo senso almeno le scienze della natura sono necessariamente avalutative. Ma è falso pensare che gli scienziati, nei loro rapporti reciproci - in quanto soggetti della scienza in relazione ad altri soggetti della conoscenza scientifica - abbiano a loro volta necessariamente un atteggiamento avalutativo. Ciò è del tutto sbagliato; al contrario, una condizione della possibilità della scienza è che vi sia almeno per la comunità degli scienziati un'etica minima, fondamentale. Con questo non è naturalmente ancora fornita la base per un'etica della comunicazione umana, anche se è possibile generalizzare questa impostazione, che muove dal modello della comunità della comunicazione tra gli scienziati, riflettendo sul fatto che la cosa ultima, ciò che nella filosofia non possiamo eludere, è il pensiero, o l'argomentare.

Se si considera il pensiero non come pensiero solitario, ma come argomentare – e questa mi sembra la concezione che se ne ha nel nostro secolo –, si vede che chiunque pensi seriamente fa già parte di una comunità dell'argomentazione. Più in particolare, partecipa sia di una comunità di comunicazione, reale, sia di una comunità ideale. Se egli argomenta seriamente, deve rivolgersi continuamente ad una comunità ideale della comunicazione in grado di controllare la validità dei suoi argomenti e di fornire il consenso alle sue pretese di validità. Sotto questo profilo, sul piano di questa comunità dell'argomentazione, dobbiamo già avere riconosciuto un'etica, l'esistenza cioè di determinate norme fondamentali che garantiscano la parità e la corresponsabilità di tutti i membri di tale comunità. Questo fu il modo in cui io allora trovai, nel concetto della comunicazione o della comunità della comunicazione, la via per uscire dal paradosso, dall'apparente impossibilità di fondare razionalmente l'etica nell'epoca della scienza.

Nel frattempo ho generalizzato questa impostazione, la quale ha dato in seguito buoni frutti - e si può dire addirittura che oggi essa è ancora più attuale di allora. Il fatto che c’è bisogno di una nuova etica universalmente valida, planetaria, che valga per tutta l'umanità, soprattutto se si guarda alle conseguenze delle nostre attività collettive, è oggi assai più chiaro di allora - basti pensare alla crisi ecologica. In questo senso credo che l'impostazione di un'etica del discorso e della comunicazione abbia dato i suoi frutti e che si sia rivelata applicabile. Vorrei anche sottolineare il fatto che su questo terreno ho sempre lavorato insieme a Jürgen Habermas, che è, come me, un rappresentante dell'"etica del discorso".

 

Quali prospettive scorge per un'applicazione dell'etica della comunicazione?

Ho appena finito di sottolineare l'attualità della tesi da me sostenuta negli anni Sessanta: intendo riferirmi, più in particolare, all'idea secondo cui viviamo in un'epoca nella quale, da un lato, la scienza rende necessaria una nuova etica, mentre, dall'altro, proprio la scienza fa apparire impossibile la fondazione di questa nuova etica - e sono convinto che questa situazione sia più attuale oggi di allora. Nel frattempo, infatti, la cosiddetta crisi ecologica è entrata nella coscienza di tutti; si tratta in realtà di riconoscere per la prima volta che tutti noi uomini stiamo nella stessa barca. Indipendentemente dalla differenza tra le culture e a prescindere dalle differenti tradizioni, è importante capire che bisogna vivere tutti insieme.

Per prima cosa le diverse culture devono riuscire a convivere da un punto di vista giuridico e morale; in secondo luogo si deve anche poter lavorare insieme, cooperando per affrontare i nuovi problemi dell'umanità: mi riferisco innanzitutto ai problemi della responsabilità o corresponsabilità per le conseguenze delle nostre attività collettive, che è ormai evidente dopo la crisi ecologica. Per "attività collettive" intendo ad esempio le conseguenze della tecnica, della scienza e della sua applicazione alla tecnologia, ma anche le conseguenze delle attività economiche. Queste ultime sono particolarmente anonime: le relazioni commerciali che, per esempio, il "Primo mondo" intrattiene con il "Terzo mondo" sono costituite in modo tale che gli uomini non hanno più la possibilità di guardarsi in faccia; non vi sono quindi relazioni di carattere emotivo tra i soggetti di queste transazioni. Ma nondimeno ritengo che il "Primo mondo", oggi in modo particolare, debba assumersi la responsabilità delle conseguenze delle sue transazioni economiche in relazione al "Terzo mondo". Basti pensare alla banca mondiale, al problema dell'indebitamento e simili.

Penso inoltre alle conseguenze delle attività politiche; in tutti questi casi si tratta di attività e di conseguenze di attività - di effetti derivanti da esse - delle quali un solo uomo non può assumersi la responsabilità. Una persona si domanda: come posso io essere responsabile della morte del Mar Mediterraneo, della salvezza del Mare del Nord o dell'atmosfera, di quel che accade con il buco dell'ozono o con la crescita costante della popolazione e con la sua interazione con l'inquinamento del pianeta, con l'erosione dei boschi, e così via? Tutti questi sono problemi risolvibili solo cooperando e dividendo la responsabilità con gli altri uomini, ed è su questo punto che l'impostazione dell'etica della comunicazione, negli ultimi anni, è diventata ancora più attuale. E se la situazione è oggi un po' differente rispetto a trent'anni fa, in generale i termini del problema sono rimasti gli stessi.

 

Professor Apel, qual è oggi la sua posizione sui mezzi di comunicazione in generale?

Per rispondere a questa domanda devo allargare ancora un po' il discorso. Ho già detto che spesso oggi può sembrare che il singolo sia impotente rispetto ai nuovi problemi della responsabilità dell'umanità. In fondo il singolo si orienta, ancora oggi, secondo l'etica tradizionale che, si tratti di un'etica religiosa o kantiana, resta di tipo individuale. Ciò pone il singolo in uno stato di impotenza rispetto alla responsabilità delle conseguenze di attività collettive. All'etica del discorso viene così affidato il compito di render cosciente la corresponsabilità di tutti gli uomini e forse anche, in un certo modo, di organizzarla. A questo punto i mass-media diventano importanti e lo diventano anche le riunioni e le discussioni, i dialoghi che di continuo conduciamo, e quindi naturalmente anche i mezzi con cui comunichiamo. Io sono solito sottolineare come oggi abbiano luogo ogni giorno mille discussioni, a tutti i livelli: discussioni molto esoteriche a livello filosofico, come quella che stiamo conducendo ora, o anche ad altri livelli, per esempio a livello politico, economico, tecnico o scientifico; ma anche discussioni in cui sono in gioco decisioni, nuove regole, leggi - discussioni cioè in cui viene incanalata ed organizzata la corresponsabilità e la cooperazione degli uomini, dei membri tanto delle differenti nazioni, quanto dei diversi settori e istituzioni dell'umanità.

In relazione ai problemi che oggi vengono definiti dell'umanità – e che quindi non riguardano la questione di una giusta vita individuale e nemmeno quella delle forme di vita di singoli popoli e delle loro tradizioni –, si ripropone ogni giorno la necessità di condurre mille discussioni sui temi che si sono indicati. A questo proposito l'etica del discorso, con la sua impostazione, può essere particolarmente feconda, anche se ad essa non interessano le norme concrete che servono per la soluzione di problemi particolari, come, ad esempio, se sia permesso creare discariche per i rifiuti dell'industria nucleare, o che cosa si debba pensare dell'aborto, della bioetica, delle nuove scoperte della scienza e della tecnica. Per trovare le opportune soluzioni morali e legali a tali problemi, non è più possibile, né sufficiente, derivare, o dedurre filosoficamente, in un'etica filosofica, le norme concrete a partire da un principio fondamentale. È necessario piuttosto inserirvi i discorsi pratici: e proprio questo è il concetto fondamentale di un'etica del discorso.

 

Può dirci quale ritiene siano oggi lo status e la funzione dei discorsi pratici?

È necessario delegare quante più funzioni possibili a quei discorsi pratici, ai quali partecipano gli stessi interessati o i loro rappresentanti: si pensi per esempio ai bambini o alle prossime generazioni, i cui interessi vanno tutelati in forme legali. Si tratta, da una parte, di tutelare e di far sentire in questi discorsi pratici l'interesse del maggior numero dei partecipanti, e, dall'altra, di servirsi - questa è un'altra dimensione importante - delle conoscenze scientifiche più nuove e migliori. C'è quindi bisogno degli esperti, bisogna potersene servire in modo controllato e prudente, in modo tale cioè da sfruttare la loro conoscenza al meglio per raggiungere soluzioni concrete, per essere corresponsabili delle conseguenze delle nostre attività collettive. Tutto ciò deve dunque essere organizzato in discorsi pratici, e a questo scopo i discorsi devono ancora essere istituiti, istituzionalizzati: già questo, oggi, è un compito importante.

Già il principio morale secondo cui tutte le difficoltà, tutti i conflitti, ad esempio le divergenze di opinione, devono essere risolti per mezzo dei discorsi tra gli interessati o tra i loro rappresentanti, attraverso autentici discorsi argomentativi, e non mediante la violenza o le contrattazioni, è una norma fondamentale che la filosofia può ancora anticipare. Come poi però, sulla base di tale norma, vengano ricavate nei discorsi pratici le norme riferite a situazioni particolari, concrete, questo è un problema che deve essere risolto sul piano di quegli stessi discorsi pratici che devono ancora essere istituiti. Come si è già visto, queste mille discussioni quotidiane si svolgono già; si fanno riunioni sull'inquinamento del Mare del Nord, sull'estinzione delle foreste, sul diboscamento del territorio dell'Amazzonia, sulla crescita della popolazione nel Terzo mondo, sull'Antartide, sui mutamenti del clima, e su argomenti simili. Queste discussioni potrebbero forse essere viste come una realizzazione approssimativa dell'idea dei discorsi pratici, ma comunque avanzano la pretesa, di fronte all'opinione pubblica e tramite i media, di essere quei discorsi in cui vengono tutelati gli interessi di tutte le persone coinvolte e nei quali viene messo a profitto il sapere di tutti gli esperti in modo da conseguire soluzioni adeguate alle diverse situazioni. È proprio a questo punto che i mezzi di comunicazione diventano importanti.

So che quando dico questo serpeggia dello scetticismo, basato soprattutto sull'opinione che le discussioni restino per lo più senza risultato o tutelino solo interessi di parte, trattandosi solitamente di casi di contrattazioni in cui vengono espresse posizioni di potere. Se non bisogna sottovalutare queste osservazioni scettiche, non le si devono però neanche sopravvalutare: esse infatti non tengono conto del fatto che le mille discussioni di cui si è parlato sollevano già la pretesa di essere discorsi pratici in cui vengono rappresentati gli interessi di tutte le persone coinvolte e nei quali viene organizzata la corresponsabilità per le conseguenze delle attività collettive. Ritengo che non possiamo fare a meno di questa pluralità di discussioni le quali, per quanto possano essere imperfette, devono essere considerate come tramiti dell'organizzazione della corresponsabilità. In tal senso i mezzi di comunicazione assumono oggi un enorme significato, ed hanno anche una responsabilità enorme. Proprio parlare dei "media" è importante in questo contesto, nella misura in cui sono essi che sottopongono continuamente tali problemi alla critica dell'opinione pubblica.

 

Come si potrebbe definire l'"opinione pubblica", e qual è la sua importanza oggi?

È stato Kant a coniare l'espressione "opinione critica pubblica". Ai suoi tempi, la critica dell'opinione pubblica era limitata ad una cerchia assai ristretta di dotti, mentre oggi bisogna fare i conti col fatto che essa ha assunto dimensioni mondiali e viene continuamente attivata dalle mille riunioni nelle quali si organizzano i problemi collettivi della responsabilità. Esattamente questo è il punto di partenza del discorso. Bisogna controllare se i discorsi pratici risolvano poi anche effettivamente il compito che pretendono di risolvere, o se non si tratti in realtà di chiacchiere retoriche o di contrattazioni in cui si incontrano solo posizioni di potere. Ritengo che, laddove l'opinione pubblica mondiale critica e attenta viene a confronto con gli interessi dei potenti e con il sapere degli esperti, i mezzi di comunicazione debbano svolgere il loro compito.

In questo contesto si dovrebbe aggiungere un'altra osservazione, relativa non alla comunicazione, alle riunioni, alle discussioni o ai dialoghi, ma ai media, ai mezzi tecnici di comunicazione. Non c'è dubbio che oggi, in questo campo, sussistono possibilità completamente nuove, sia nel bene che nel male. Si è già accennato al fatto che proprio i media facilitano la presenza di un'opinione pubblica mondiale e, in particolare, di un'opinione pubblica critica. Con ciò si mostra anche qual è il compito dei media: se essi eseguono bene il loro compito - se non vi è cioè alcuna manipolazione, deformazione o blocco di informazioni a causa di interessi di parte -, sussiste oggi la possibilità, assolutamente inedita, di tenere continuamente informata su ciò che accade un'opinione pubblica mondiale che si interroga criticamente. Si può dire insomma che in rapporto a tutti i problemi su scala planetaria - si tratti della guerra, di problemi ecologici, del papa che gira in tutto il mondo vietando la regolamentazione delle nascite (divieto che secondo me è irresponsabile e infondato persino sul piano teologico) - c'è oggi la possibilità che l'opinione pubblica mondiale prenda una posizione critica, e ciò è reso possibile - è bene che sia così - proprio dai mezzi tecnici di comunicazione.

D'altra parte bisogna anche ricordare che vi possono essere possibilità e conseguenze assai negative di questi mezzi tecnici di comunicazione: tempo fa partecipai ad una conferenza dell'Unesco su questo tema, circostanza in cui ascoltai le amare proteste dei rappresentanti del Terzo mondo sul modo in cui i mezzi di comunicazione diffondono nei loro Paesi determinati interessi delle potenze industriali, dell'industria americana, e come vi propaghino anche le relative forme di vita.

 

Dunque i media hanno anche effetti negativi: quali sono questi effetti?

Si sa che il troppo porta a una reazione, ed è ciò che è accaduto in Oriente, nell'Islam; è possibile che la gioventù del Terzo mondo sia particolarmente esposta ad un'esaltazione della criminalità, per non parlare di altri aspetti della forma di vita occidentale che per questi Paesi è effettivamente pericolosa e minaccia di dissolvere i costumi esistenti. A ciò si aggiungano anche altre possibilità di manipolazione dettate da interesse. Naturalmente, insomma, vi sono innumerevoli possibilità d'influenza anche negativa dei media, e se si facesse una discussione su questo tema probabilmente le opinioni al riguardo sarebbero assai contrastanti: alcuni sosterrebbero che a prevalere sono gli effetti negativi dei media, altri quelli positivi. Mi sembra che uno dei compiti dell'etica del discorso sia anche quello di tener sempre presente questa situazione e di analizzarla, osservando criticamente le diverse forme dell'informazione tramite i media, con particolare riferimento al Terzo mondo.

Si può però affermare, in generale, che noi oggi, senza i mezzi tecnici di comunicazione, non saremmo più in grado di risolvere i problemi, poiché abbiamo bisogno delle mille discussioni quotidiane sui problemi dell'umanità ed anche della presenza di un'opinione pubblica mondiale che eserciti la critica e che consenta la partecipazione continua degli uomini a tali problemi. È necessario oggi organizzare la responsabilità per le conseguenze delle nostre attività collettive nella scienza, nella tecnica, nella politica e nell'economia. Questo è almeno l'obiettivo che si deve cercare, ogni giorno, di raggiungere, per quanto vi possano essere ancora tante strumentalizzazioni e tante deformazioni negative, perché questa è l'unica via che abbiamo – dal punto di vista dell'etica del discorso – per risolvere i problemi di una macroetica planetaria.

Questo era lo stesso problema che lei si trovò ad affrontare quando elaborò per la prima volta la sua etica della comunicazione?

Forse è bene soffermarsi ancora sulla differenza tra la situazione di allora, di quando cioè io cominciai ad elaborare un'etica, e la situazione attuale: in particolare è bene soffermarsi sul giudizio dell'etica accademico-filosofica su tale situazione. Come ho già avuto modo di accennare, la difficoltà allora era costituita dal fatto che un gran numero di filosofi subiva l'influenza del positivismo logico, o più in generale di un certo scientismo, che induceva a sostenere il carattere avalutativo della razionalità, secondo il metodo delle scienze della natura: in base a tale presupposto, non vi può essere alcuna fondazione razionale dell'etica, perché la morale deve essere un fatto privato. Tutto quel che può essere pubblico deve essere avalutativo: da ciò risultò, proprio tra gli esponenti del liberalismo, una sorta di scissione secondo cui, all'interno della pubblica opinione, dovrebbe darsi solo una razionalità avalutativa, mentre tutto ciò che concerne la morale dovrebbe essere solo un fatto privato e quindi esistenziale.

Il positivismo e lo scientismo da un lato, e l'esistenzialismo dall'altro, si ripartivano in un certo senso i compiti: quest'ultimo poteva fornire soltanto fondazioni irrazionali dell'etica, sempre ammesso che si possa parlare in questo caso di fondazioni. Loro modello era per esempio l'affermazione di Max Weber per cui "Ciascuno deve, in fondo, scegliere i propri dèi", oppure quella di Jean-Paul Sartre per cui "Ognuno deve scegliere se stesso".

Sul piano dell'etica accademica, la situazione è oggi mutata: sono sorte di nuovo molte concezioni etiche e assistiamo, per così dire, a un boom dell'etica, come affermano alcuni. È però interessante notare che c'è una nuova difficoltà per la fondazione razionale di un'etica universalmente valida qual è quella di cui oggi abbiamo bisogno, di una macroetica per l'umanità intera. L'argomento principale non è più quello che sostiene che la scienza ha, per così dire, invaso la razionalità, e che quindi un'etica è impossibile; piuttosto, oggi si dice che si può avere una morale solo nel senso di determinate tradizioni in cui viviamo, di particolari forme di vita alle quali apparteniamo. I pensatori più diversi - da Richard Rorty per il neopragmatismo a François Lyotard per il pensiero postmoderno, da Michel Foucault ad un filosofo conservatore come Alasdair MacIntyre - concordano sull'impossibilità, o indesiderabilità, di un'etica universalmente valida, valida cioè per tutte le forme di vita; tutti concordano nel ritenere che la morale sia possibile solo riallacciandosi a tradizioni particolari, contingenti e storiche, ma non in quanto etica universale. Per tutto questo esiste comunque una soluzione, che l'etica della comunicazione è in grado di fornire.

Se certamente da una parte vi sono le tradizioni morali delle singole forme di vita alle quali bisogna sempre rifarsi, proprio in quanto etica del discorso, l'etica della comunicazione può, dall’altra, in ogni momento indicare come oggi sia per la prima volta possibile che tutte le forme di vita sul nostro pianeta vivano e lavorino insieme. Perché ciò sia possibile si devono poter sviluppare e fondare razionalmente determinate norme fondamentali valide per tutti. Questo però non significa che si dovrebbero prescrivere agli individui o ai singoli gruppi, ai singoli popoli o alle singole tradizioni, determinate forme di vita. Su questo punto si può lasciare grande libertà, e si deve insistere piuttosto sul fatto che le tradizioni particolari della morale devono venire limitate e devono, nello stesso tempo, comprendersi reciprocamente, cosicché vivere e lavorare insieme attorno ai problemi dell'umanità diventi possibile.

Per dare una fondazione a questo è sufficiente riallacciarsi a ciò che tutti hanno già riconosciuto quando si confrontano su questo problema. È interessante constatare, come ho potuto fare personalmente in una tavola rotonda alla quale partecipavano Rorty, MacIntyre ed altri rappresentanti del particolarismo e dello storicismo, come tutti, in queste occasioni, riconoscano di fatto sempre determinate norme, che sono appunto quelle del discorso argomentativo, e in base alle quali si è tutti ugualmente responsabili della soluzione dei problemi. Dal punto di vista dell'etica del discorso, dell'etica della comunicazione, si può affermare che questo è assolutamente sufficiente per una fondazione razionale della macroetica: noi infatti non vogliamo dedurre le norme concrete e determinate, ma intendiamo fondare filosoficamente solo quelle norme che rendono possibile la risoluzione, mediante i discorsi pratici, delle divergenze di opinione, dei conflitti e dei problemi della comunità umana. In questi discorsi pratici vengono rappresentate tutte le persone coinvolte, i partecipanti possono tutti argomentare con gli stessi diritti, e sono tutti corresponsabili allo stesso modo per la soluzione dei problemi. Se è possibile fondare e fornire ai discorsi pratici queste norme procedurali, si avrà allora la possibilità di un'etica planetaria dell'umanità, in modo del tutto compatibile con la particolarità delle tradizioni specifiche, con le loro forme particolari di morale.

 

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