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Sei pomeriggi con Arthur Penn

Federico Pacifici


Federico Pacifici, attore di cinema e di teatro, è stato uno dei 25 attori selezionati per partecipare al seminario di recitazione "The work" condotto recentemente dal regista americano Arthur Penn presso il Teatro di Roma. Quello che segue è la prima puntata del resoconto della sua esperienza.

Breve cronaca del più istruttivo dei miei tanti fallimenti.

Queste mie considerazioni potrebbero interrompersi subito dopo aver consigliato la lettura di tre libri:

- "Respect for acting" by Uta Hagen with Haskel Frankel, 1973, consigliato da Penn stesso come fondamentale.

- "Acting, the first six lessons", by Boleslavsky, 1933, considerato da Harvey Keitel la sua bibbia.

- "Strasberg at the Actors Studio" (recorded sections),1966, fondamentale per tutti.

A questi tre libri in inglese, tutti rintracciabili via Internet tramite Amazon (www.amazon.com), si possono naturalmente aggiungere "Il lavoro dell’attore" di Stanislavskij, con il quale Strasberg ha elaborato il suo "Metodo" a mio avviso molto pragmatico così come lo è gran parte della cultura americana, ma anche "Il teatro e il suo doppio" di Artaud, i libri di Peter Brook, i saggi su Luca Ronconi, quelli su Carmelo Bene, su Grotowski, su Barba, ma anche "Teoria del dramma moderno" di Szondi, "Paradosso dell’attore" di Diderot, il "Wilhelm Meister" di Goethe e mille, forse milioni di altri libri, tutti utilissimi per avere una visione più completa sugli argomenti recitazione, attori, costruzione del personaggio, rapporto tra attore e regista, o tra attore e autore.

Arthur Penn, celeberrimo regista americano di capolavori cinematografici come Furia selvaggia (1958), Gangster story (‘67) e Il piccolo grande uomo (‘70), è anche attivissimo in teatro dove ha realizzato più di diciotto regie. E’ attualmente direttore dell’Actors’ Studio e ha fondato due anni fa l’Actors’ Studio Free Theatre a New York, dove per essere liberi di fare quel che preferiscono gli insegnanti non sono pagati e gli spettatori non pagano. Anche il seminario di cui sto per parlare, Penn l’ha fatto gratis.

Nato a Filadelfia nel 1922, Arthur Penn si trasferisce prima a New York, poi nel New Hampshire, dove prende lezioni di recitazione e si esibisce nei teatri di quartiere e alla radio. Nel ‘46 si diploma in recitazione al Black Mountain College. Nel 1950 segue corsi di pittura a Perugia. Nel 1951 a New York comincia a lavorare per le grandi reti televisive americane. La sua indipendenza di pensiero e la sua continua ricerca espressiva, la sua lunga carriera ne fanno uno dei registi più importanti del nostro secolo.

I seguenti appunti riguardano solo alcune mie impressioni riguardo quel che ho visto e fatto durante i sei incontri pomeridiani con Arthur Penn: sono quindi parziali, non obiettivi e personalissimi.

Annunciato presso il Teatro di Roma il seminario di Arthur Penn dal titolo "The work", 25 fortunatissimi attori sono stati selezionati sulla base dei curriculum e della conoscenza più o meno buona della lingua inglese da Gianni Amelio, Caterina D’Amico e Mario Martone, che con il Teatro che dirige promuove una straordinaria campagna di avvicinamento dei professionisti italiani alle più diverse esperienze artistiche di rilevanza internazionale. Sono stati selezionati anche un folto gruppo di allievi o ex allievi di recitazione e regia della Scuola Nazionale di Cinema (ex CSC) come spettatori già avviati alla professione.

 

Alla domanda ‘di fronte a che cosa ci saremmo trovati’, ha risposto in piccolissima parte la richiesta ricevuta da tutti gli attori ,insieme alla notizia di essere stati selezionati, di preparare due pezzi di teatro uno in inglese e uno in italiano della durata di venti minuti il primo e una decina il secondo.

Paura è poco, panico è termine più appropriato. Non provavo un così grande buco nello stomaco dalle mie prime esperienze teatrali. Presentare un pezzo di teatro davanti a un così grande regista, un pezzo a mia scelta e in inglese, lingua che parlo bene o male a seconda del livello d'ansia che mi prende al momento di usarla, mi terrorizzava. C'era tutta la difficoltà di far passare la mia recitazione non attraverso il dominio delle parole, ma attraverso un "sentire reale, vero". Impedito nella possibilità di modulare termini, significati, nuance, ritmo... il buco nello stomaco si allargava.

L’unica cosa che effettivamente tutti capivamo è che ci saremmo trovati di fronte al "Metodo",quello ampiamente elaborato da Strasberg e sempre discusso e continuamente rielaborato presso l’Actors’ Studio e che non è una scuola, ma un’associazione di attori e registi, alla quale si accede per presentazione e audizione, dove si discutono, si elaborano, si provano le tecniche della recitazione di tanti attori che del "Metodo" hanno fatto la propria guida e il proprio sostegno, la fonte inesauribile di consigli per migliorarsi nella propria arte, i cui strumenti sono solo il proprio corpo ed il proprio "sentire". Lo "studio" è anche e soprattutto il luogo dove attori professionisti si mettono in discussione e ricevono consigli da altri attori professionisti che a loro volta si mettono in discussione. Un’associazione in cui il livello di mutuo soccorso è altissimo e indissolubilmente legato al rispetto degli uni per gli altri.

Detto questo, continuavamo a non sapere di fronte a cosa ci saremmo trovati, io meno di chiunque altro perché assolutamente un principiante rispetto al "Metodo", del quale avevo letto, sentito e discusso, ma che non avevo mai sperimentato direttamente. Oltre all’inglese, dunque, avevo anche questa nuova lingua da apprendere, e il più in fretta possibile.

Paura. Questa l’unica devastante sensazione. Bene! ne ho proprio bisogno, ora nell’esercizio stanco della professione che si dipana tra frettolosità ed incompetenza sempre più dilaganti. Bene, ne ho proprio bisogno! sono le uniche parole di auto conforto che sono riuscito a trovare.

 

La scelta:

Cosa portare come pezzi di teatro?

- L’adorato Pirandello di "Non si sa come", una mia lunga riduzione: impossibile trovarlo in inglese, in tempi brevi almeno. Tradurlo io? Non mi azzardo, il mio inglese non mi sembra sufficiente a tradurre la lingua di Pirandello, difficile e colta anche per chi parla l’italiano.

- Un pezzo di quel capolavoro tra i capolavori di Dostoevskij, "La Mite", mia riduzione e adattissimo al caso, ma anche questa volta risulta impossibile trovarlo in inglese, stesso argomento riguardo il tradurlo da me.

- Una brevissima novella di Cechov "Estasi" (Rapture, in inglese): perché no? La preparo.

- Le proposte di una splendida attrice che subito mi entusiasmano: "L’Orso" o "La Proposta di Matrimonio" di Cechov, perfetti, e di nuovo impossibile trovarli in inglese in tempi brevi.

- Le due proposte di un altro attore: "Uno sguardo dal ponte" di Arthur Miller e un altro testo americano contemporaneo, "Detective story" di Sidney Kingsley. Al primo non mi sento adatto, il secondo non mi piace per la sua dimensione da film d’azione, io non sarò mai chiamato a interpretare un personaggio americano e nemmeno un italoamericano (il cinema internazionale e quello americano in particolare tengono in massimo conto l’origine dell’attore a meno che non sia una star).

- Una scena da "Zio Vanja" di Cechov tra Astrov e Elèna, dal terzo atto. Difficilissima perché Astrov vi espone i propri studi e disegni sulla condizione della regione da loro abitata a una Elèna disinteressata, presa com’è da un altro pensiero, quello di trovare il coraggio di chiedere ad Astrov se ha qualche interesse per Sonja, figlia di primo letto del suo anziano e malato marito. Lei stessa avrebbe qualche interesse verso il medico, è solo in parte consapevolmente e in parte inconsapevolmente lusingata dalle attenzioni che lo stesso Astrov le manifesta. Per Astrov rivelare la sua intima passione per quegli studi è forse un modo di entrare in intimità con Elèna, svelarsi nella sua passione privata, nel tentativo non riuscito e non nascosto di affascinarla. La scena ha mille implicazioni, è difficilissima ed effettivamente rischia di annoiare, come dice Astrov stesso ad Elèna alla fine del suo monologo. Naturalente, è proprio questa la scena che scelgo.

Non ho una partner per cui preparo tutta la scena, ma presto particolare attenzione al monologo, che già da solo riserva infiniti ostacoli oltre a quelli già detti della lingua inglese. Capisco che la sto affrontando più come proposto da "Vanja sulla 42° strada" che come proposto da Cechov, ma le due cose sono intimamente legate. La preparazione si fa molto interessante.

Contemporaneamente ricevo da una giovane collega la proposta di lavorare insieme sulla prima scena di "Tradimenti" di Pinter. Mi entusiasmo subito.

Continuo a lavorare sul monologo di Cechov da solo e sulla scena di Pinter insieme a lei.

La mia partner è più esperta del "Metodo", ha frequentato diversi corsi e quindi mi informa su molti elementi che io proprio non conosco, ma dice di non aver alcuna esperienza di teatro, che non ha mai praticato.

 

Primo pomeriggio, dalle 15 alle 21.

La paura si fa terrore. Non sono preparato ne’ sul monologo ne’ sul dialogo, almeno non come lo sarei se li avessi studiati in italiano. L’idea di preparare un pezzo nella mia lingua è stata abbandonata da me come da tutti gli altri partecipanti al corso a eccezione di uno che non parla inglese. Ciò è consolatorio, ma non basta.

Appuntamento alle tre alla Sala Uno Teatro. Fin dalle due siamo quasi tutti lì fuori, tremanti ed emozionati come bambini al primo giorno di scuola elementare.

Entra Arthur Penn.

Devo descriverlo? Un uomo piccolo di statura, ma dal fascino immenso: cortesia, sensibilità ed esperienza sprizzano da ogni dove. Ciò riscalda l’anima, ma la paura non passa.

Introduce il seminario: lavorerà con noi così come fa con i suoi attori e all’Actors’ Studio, sui pezzi che noi abbiamo preparato, e il suo ruolo sarà di "Moderatore". I più tremano. Alcuni temerari si offrono volontari.Tutti siamo terrorizzati dalla presenza di spettatori che dovrebbero anch’essi essere del mestiere, ma ci sembrano spettatori e basta, tutt’al più guardoni.

Il Moderatore spiega subito che non si tratta e non si tratterà di prodursi in esibizioni o dimostrazioni di bravura, ma di procedere ad affrontare il nostro lavoro secondo la metodologia da lui affinata. Lui emana tranquillità e disponibilità, niente di ciò che ho visto e anche brevissimamente sperimentato in altre occasioni: tensione e fermenti mistici, pianti e psicoanalisi di gruppo, cose che aborro in genere, figuriamoci in teatro. La psicoanalisi, nei luoghi deputati, mi piace molto e l’ho frequentata un po’. I fermenti mistici invece, anche se relegati nelle sole chiese di qualunque genere esse siano, li evito, non sono per me. Per qualcuno il teatro è una chiesa, per me è luogo e attività eminentemente profani e desidero lo resti.

Le tensioni, come vedremo in seguito, sono la mia specialità. Le esplosioni di pianto (come di riso) appartengono al mio privato, e fanno anche parte dei miei strumenti di lavoro: non ho quindi preconcetti.

Comunque qui l’atmosfera è serena, si respira una grande intensità d’interesse. Penn discute con noi, con la platea e con gli attori in prova, gli elementi principali ai quali dobbiamo fare attenzione nel nostro lavoro: le circostanze e le azioni fornite dalle scene in esame.

Grossolanamente, il significato dei termini è:

Circostanze: tutto ciò che fa di quella scena, quella e non un’altra.

Azioni: ciò che il personaggio compie nella scena data (non necessariamente fisicamente), da dove viene, dove va e perché. Per definire un’azione è rigorosamente vietato usare un aggettivo, ma solo verbi. In Italia le chiameremmo intenzioni o motivazioni dei personaggi.

Dalle labbra del Moderatore sgorgano parole semplici e concetti chiari, che messi in pratica danno immediatamente risultati che emozionano: scene timide e "maldestramente" recitate acquistano improvvisamente fascino e tensione artistica mirata a "esprimere", ma sarebbe meglio dire a provare, sperimentare, "sentire" sulla propria pelle, sentimenti reali, qui ed ora. Impressionante!

Alcuni dubbi mi accompagneranno però per tutta la durata degli incontri:

Come si può riprodurre in palcoscenico quel sentimento sincero e reale sperimentato nello studio? Lo spettatore prova quello che prova l’attore o solo ciò che il bravo attore è in grado di fargli provare? L’attore professionista deve sottoporsi tutte le sere a quell’incredibile stress psicologico?

Arriveranno direttamente o indirettamente le risposte del Maestro.

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Prima parola magica "l’ostacolo".

Ci si deve sempre dare degli "ostacoli", perché l’azione possa essere mirata e precisa.

Amleto, per esempio: Certo, per una tragedia, rivelare all’inizio il delitto e i colpevoli dovrebbe voler dire arrivare immediatamente alla fine; invece seguono cinque lunghi atti durante i quali la personalità problematica di Amleto gli impone quanti più ostacoli possibile. All’Actors’ studio, ricorda Penn, dicono spesso che se Macbeth fosse nelle condizioni di Amleto, il tutto durerebbe giusto il tempo di uno scarno atto unico. Anche Macbeth ha i suoi ostacoli di natura tutta diversa, ma questo non è l’argomento del giorno.

Darsi un ostacolo aiuta a dare concretezza (to make it real) allo sforzo di superarlo. Altra cosa è quella di darsi un compito quotidiano sempre diverso, durante i lunghi mesi di repliche di uno stesso spettacolo, per tenerlo fresco e vivo. Ostacolo e compito sono due cose molto diverse che coincidono un poco nello scopo e nei modi.

Dalle prove coraggiosissime di alcuni attori emergono elementi e difficoltà comuni: la poca o appena sufficiente chiarezza del compito che si sono attribuiti nell’affrontare l’esercizio, l’assenza o la poca chiarezza dell’ostacolo, la poca chiarezza delle circostanze e delle azioni della scena e dei personaggi.

Per affrontare e superare questi problemi Penn invita alcuni attori a ripetere la scena senza parlare, lasciando che il corpo "senta" quello che precedentemente si delegava solo alle parole. Non si tratta di un esercizio di mimo, ma di liberare la capacità del corpo di "sentire". Ed effettivamente ciò accade.

Alcuni attori anche molto valenti e coraggiosi, forse anche proprio per queste loro intime qualità, dopo l’esercizio scoppiano in lacrime. Credo ci siano almeno due motivi tra i tanti:

1) l’esaurimento della tensione per la prova fatta.

2) il raggiungimento tardivo ma importantissimo del livello di quel "sentire" "realmente" che accompagnerà tutto il corso.

Bastano poche parole di Penn, ben mirate, a dimostrare a tutti come la realtà della vita e "il sentimento reale", nonostante gli sforzi, fossero fino a quel momento rimasti fuori dall’esercizio, o fossero stati solo avvicinati.

Gli altri allievi invitati a parlare, a esprimere la propria opinione e i propri consigli a quelli che si sono sottoposti alla prova, danno punti di vista personali anche molto interessanti.

Scopriamo (a me lo spiega la mia partner) che è vietato usare le ‘categorie’, molto in uso qui da noi, del "mi piace, non mi piace". Sempre si deve lodare quanto si è visto e considerarlo comunque un punto di partenza per migliorarsi. Si può e si deve analizzare e consigliare su come raggiungere il miglioramento.

Appare ai più semplicemente straordinario l’esercizio di un attore che poi viene molto lodato e che del pezzo presentato conosce il titolo dell’opera da cui l’ha tratto, ma poi non risponde a nessuna delle domande su circostanze e azioni: dice di non averci pensato. Penn conclude: qualche volta accade che si verifichi la "magia" inspiegabile del Teatro.

Per una scena piuttosto interessante (come tutte le altre) di due attori avvezzi al "Metodo", la discussione verte anche sull’importanza di farsi sentire dai presenti e di non tenere un volume di voce esclusivamente privato. C'è dunque, da parte di Penn, anche una certa attenzione al fatto che sebbene si sia in una fase di studio è pur sempre uno studio indirizzato verso il teatro, che tenga conto degli spettatori.

Anche questo mi sarà più chiaro in seguito e riguarderà la capacità di sentirsi soli in pubblico, soli, ma per il pubblico, che se no uno se ne starebbe a casa.

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Durante i due giorni che seguono, la mia partner ed io continuiamo a studiare insieme nella casa dove abito e che la mia compagna lascia scientemente libera per noi (da artista, capisce benissimo il bisogno di solitudine e silenzio e rispetta il tempo della ricerca e studio). Proviamo alcuni esercizi per analizzare il testo dicendocelo, leggendocelo, studiandolo a memoria, e anche cercando di spiegarcelo, ma questa ultima fase non è prevista dal "Metodo"; mi sembra strano, ma mi adeguo.

Emergono le prime difficoltà: cosa fare, dove sederci come e dove indirizzare le battute ed il loro senso. Ci scopriamo già molto diversi e abbastanza incompatibili. Io scelgo di assecondare la mia partner in tutte le sue esigenze sia "artistiche" che "alimentari" che vanno dal farmi preparare numerosi tè che poi non beve, al preparare degli spaghetti che poi lascia nel piatto, al fare degli esercizi di memoria che in passato avevo sempre fatto senza sapere che fossero esercizi del metodo, come quello di dirsi le battute velocissimi senza recitarle mentre con le mani si svolge una qualche attività di destrezza, ad esempio facendo dei nodi su di una corda (è così che ho imparato tutti i nodi da marinaio oltre ai testi dei miei passati spettacoli).

Comincio a esprimere il mio disappunto perché tra lei e me non sgorga una goccia di niente, nemmeno per una frazione di secondo. Addirittura la prima lettura è stata la migliore, forse perché eravamo tutti e due entusiasti di cominciare, ma in seguito non riusciamo a percorrere neanche un centimetro in avanti nonostante gli sforzi. Lei, saggia (ma in quel momento non lo capisco), mi invita a mantenere la calma e a essere positivo nei confronti di ciò che stiamo affrontando. Io mi sforzo, ma dentro di me comincio a scalpitare. Mi ero riproposto di affidarmi completamente alle cure di un attore o attrice più esperti di me anche del Metodo e invece cerco una scintilla di comunicazione tra me e la mia partner che non scocca.

Cosa fareste se di una intera scatola di fiammiferi non riusciste ad accenderne nemmeno uno? se di un intero accendino consumaste tutto il gas senza riuscire a far scattare la scintilla? Forse smettereste di fumare. Comincio a pensarci anch'io, sono preoccupatissimo. Adotto tecniche che conosco, che non amo, ma che credo di aver orecchiato dal "Metodo": cerco riferimenti concreti della scena in esame con la nostra vita privata e personale. Cerco, tento, di lusingare la mia partner dicendole che mi è sempre piaciuta, che mi è sempre sembrata bellissima, che ipoteticamente avremmo potuto essere amanti, almeno per quanto mi riguarda, come i nostri due personaggi....

Evidentemente non c’è nulla di lusinghiero nel piacere a me, perché appena ho smesso di parlare e abbiamo ricominciato a provare ci siamo ritrovati di nuovo fermi al punto di partenza, forse anche un po’ indietro. Non riuscivo a trovare un appiglio. Eppure c’era l’appiglio. Era lì davanti a me ma io non lo vedevo. La collera montava dentro di me, nulla succedeva.

Paura infernale.

Unica consolazione, il giorno della prova si sarebbe trattato di un esercizio e non di uno spettacolo, sicuramente Penn ci avrebbe aiutato.

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2° pomeriggio.

Sappiamo che prima o poi toccherà a noi. Io spero di recitare prima il mio monologo di Astrov, ma Penn preferisce i dialoghi perché determinano un necessario contatto tra i due attori.

Mentre altri compiono il loro esercizio, si rinnovano le analisi dei problemi: alcuni attori (ma valgono per tutti) appaiono come prigionieri delle parole del testo.

Comincia a delinearsi il gruppo di attori che più degli altri parteciperanno esprimendo le loro opinioni. Io taccio e guardo ammirato.

Il Maestro dice che lui comincia le prove dei suoi spettacoli lasciando che gli attori improvvisino sui personaggi e sulle scene prima di conoscere il testo, proprio per liberarli dalla prigione delle parole. Se il corpo capisce, poi verranno le parole, non si deve rimanere costretti dal testo che l’autore ha scritto, con lui bisogna collaborare, il testo è una cosa, lo spettacolo un’altra.

La considerazione precedente è una delle tante involontarie e straordinarie similitudine con il metodo che io ho studiato, amo e applico, quello "Mimesico" Di Orazio Costa Giovangigli, scomparso pochi giorni fa a 88 anni. Non posso fare a meno di rivolgergli il pensiero affettuoso e la riconoscenza che da anni speravo di esprimergli pubblicamente in occasione di un mio anche piccolo successo: è accaduto solo in America, ma a lui ne non sarà arrivato neanche l’eco.

Insieme agli esercizi ritorna l’esigenza di trasformare quel che si fa in qualcosa di più "reale", si devono rispettare le circostanze e le azioni delle quali bisogna essere ben consapevoli. Si evidenzia l’identità tra l’attore e il personaggio. L’attore è il personaggio, non il contrario, e fra i due non c’è differenza il sentire dell’uno è quello dell’altro.

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Nella mia mente, che voglio tenere disponibile all’apprendimento, preme la principale delle mie certezze. Io sono io, il personaggio è il personaggio, magari posso fondare o scoprire qualcosa del mio personaggio attraverso delle esperienze comuni, ma per me il personaggio viene molto prima di me ed indipendentemente da me, tutto il suo sentire ed essere deve essere a mio avviso desunto dal testo, qualsiasi altra cosa è illecita.

Anche per il Metodo, pur se esposto in modo opposto, sembra essere così, l’identità tra i due elementi personaggio/attore porta, attraverso l’analisi delle circostanze e delle azioni, a un identico risultato. Le circostanze e le azioni sono quelle date, cambia l’attore e quindi cambia il personaggio, ma il senso di una scena, di un dramma, la sua collocazione fisica e temporale, i motivi e le intenzioni non si possono modificare.

Non avevo mai pensato che cambiando l’attore potesse cambiare il personaggio, ma solo la sua interpretazione. Ed effettivamente mi sembra di capire che neanche il Metodo dica una cosa diversa, ma lo dice in modo diverso dal m io, tramite il rifiuto della diversità tra attore e personaggio.

Quelle volte che ho incontrato attori (sedicenti o veri) del Metodo, li ho visti lavorare su cose personalissime che spesso nulla avevano a che fare con quel che la scena sembrava essere. In quelle occasioni ho sempre domandato che cosa li autorizzasse a farsi quel loro romanzo. Alla risposta "io sono il personaggio", o peggio "così si fa", la guerra scoppiava immediata. Se il testo è degno della definizione di dramma teatrale, tutto si deve trovare al suo interno, il prima, il durante e il dopo, non lo si può inventare. Dirò di più: il prima e il dopo non esistono, c’è solo quel che il testo indica, nelle battute, tra le battute, nelle note, nelle pause, sia pure anche nella vita dell’autore stesso o delle sue opere precedenti: ma inventarselo, no.

Questa la mia opinione sempre manifestata e perseguita. Nonostante ciò, vedremo cosa succederà... ancora un poco di pazienza. Per adesso posso anticipare solo che sono convinto o che almeno credo fermamente di aver intrapreso la carriera di attore non per mostrare quanto mi ritenessi bello o bravo, ma per annullarmi in un altro personaggio, per nascondermi dietro la maschera di un personaggio. Tant’è vero che i personaggi che mi sono riusciti "meglio" (sigh!) sono quelli che spero siano più lontani da me, quelli per i quali non mi sarei mai proposto, i mostri, gli abietti, i vili... Ciò non significa che mi abbiano lasciato indifferente, anzi, proprio tramite quei personaggi ho capito qualcosa di me. Forse.

Questa dimensione di identità mi darà tanto filo da torcere, genererà in me molta confusione. Capisco che i risultati del metodo da me fin qui utilizzato per recitare e per affrontare i testi è diversissimo dal "Metodo", ma porta agli stessi risultati. Ma in me la confusione si è avviata e sta prendendo velocità vorticosa. Questa confusione genererà molti lutti, la morte di tanti miei piccoli sperimentati convincimenti. Decido di abbandonarmi al Metodo fin qui appena orecchiato cadendo nelle contraddizioni più elementari e in tutti i tranelli, anche quelli da me con più consapevolezza aborriti.

L’identità tra personaggio e attore e la libertà a cui mi inviterà Penn, mi faranno deragliare sul binario morto del "posso fare quel che mi pare", tanto se il personaggio sono io, quel che mi viene da dire e pensare non può in nessun caso essere sbagliato. Non solo il concetto appena esposto è totalmente contrario ai miei principi, ma l’ho anche aspramente criticato tutte le volte che l’ho incontrato ed è profondamente contrario al Metodo: io ancora non lo so e lo capirò solo troppo tardi. Tant’è che, con grande fatica, senso di sacrificio, determinazione a mettermi in discussione, mi ci abbandono. Ahimè!

MA.

C’è un ‘ma’ grosso come una casa. Capirò troppo tardi che avevo lasciato fuori dal ragionamento due tra le cose più importanti: circostanze date ed azioni. Ostacoli me ne ero dati a bizzeffe.

Non ci siamo ancora ‘esibiti’ nemmeno una volta la mia partner ed io, e ci vorranno altre due settimane perché io capisca qualcosa di più e di meglio, ma sarà troppo tardi.

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I fatti: La mia partner ed io sappiamo benissimo che non siamo pronti a niente, che non abbiamo raggiunto neanche il livello zero di contatto e che in queste condizioni anche la memoria ci difetta.

Scopriamo che Penn detesta Pinter, bel problema! Dice che stiracchia i sentimenti, ripete ossessivamente, cosa vogliono dire tutte quelle pause, che vuol dire mettersi seduti lì a tavolino... Tutte cose che non avevamo preso in nessuna considerazione. In un moto compresso tra orgoglio e necessità, ci facciamo avanti, tanto sappiamo che faremo un casino, ma lui ci aiuterà.

Disposti come due imbecilli (o almeno uno di sicuro, io) ai due lati di un tavolo collocato verticalmente al palcoscenico in una posizione che più banale non si può, spavaldi cominciamo a dirci le battute come peggio non potremmo. Vengo istintivamente e irresistibilmente preso da un nervosismo che credo e continuerò a credere sincero e quindi utile alla scena che stiamo disperatamente cercando di tenere in piedi. Per fortuna Penn ci ferma e ci rivolge le domande fondamentali: circostanze e azioni, compiti, intenzioni, ostacoli. Su questo alla bene e meglio ci siamo preparati quindi rispondiamo con competenza.

Penn ci fa immediatamente notare che di tutto quello che abbiamo detto non si vede nulla. Sgomento. A dire il vero parlo solo io, arcigno, fiero, disperato, comico, fragile, molto fragile, capisco poco di quanto mi dice, ma credo di aver capito. Fondamentalmente critica tutto e ci invita a cinque precise considerazioni da tener presenti per studiare e progredire, cinque considerazioni che saranno la mia maledizione,

1) dimenticare Pinter,

2) dimenticare il testo,

3) raccontare la nostra storia cioè quella di Federico e F. (non la nomino come non nomino tutti gli altri perché sono il solo responsabile dei disastri che vi verrò raccontando),

4) rompere le regole,

5) essere anarchici.

La discussione è durata moltissimo, io sono disfatto ed umiliato, mi allontano mormorando: ma come qui c’è Pinter e io devo raccontare la mia storia!?!?!?

Ci ha fatto a pezzi, ma non meritavamo di meglio. Ora abbiamo una base "certa" su cui lavorare.

Continuano le esercitazioni degli altri e sempre Penn trova il modo più semplice e diretto per farli avanzare, aiutandoli a capire e a chiarirsi le circostanze e le azioni e a trasformare il "sentire" in qualcosa di reale.

Il dialogo che segue la prova della scena, proprio perché a quel punto si abbandona qualsiasi convenzione teatrale, appare, anzi è decisamente reale, sentito realmente. Al paragone con questa realtà tutto quello che si è fatto, che ho fatto, durante il tentativo di ‘recitazione’ scompare come un’illusione. Anche la regista che segue e riprende con la telecamera il seminario me lo fa notare. Io rispondo che il pubblico se mai venisse a teatro non verrebbe a vedere me, ma il personaggio. Sento, ma non so se capisco, Penn che mi dice che questo non ha niente a che fare con la sincerità del sentimento espresso o provato in scena, che se è reale passa il palcoscenico, se è finto non rivela altro che finzione, menzogna. Il problema che non risolvo è come mettere quella sincerità nel mio personaggio.

Il dialogo continua con tutti i presenti su altri esercizi e prove: Penn racconta di quando, dovendo mettere in scena un testo dal titolo "Un funerale in famiglia", si accorse all’inizio delle prove di come tutti, dagli attori allo scenografo al costumista, avessero interpretato o stessero interpretando la conclusione, in una tristezza infinita, come se tutti fossero già fin dall’inizio alla conclusione del dramma invece di arrivarci raccontando la dinamicità degli avvenimenti. Spesso gli attori condizionati dal titolo del testo che affrontano o dalla conoscenza degli sviluppi del testo, interpretano la fine del dramma fin dall’inizio. Come tutte le altre scoperte è tanto banale quanto infinitamente vera. Non smetteremo di cadere in questo tranello.

Si parla di emozioni sensoriali, di ricostruzione e uso dell’oggetto, assente o presente che sia. Come fare passi in avanti di livello in livello.

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Gli spettatori mi sembrano guardoni di quello che io ritengo essere, in questa fase, più un peep shop che un teatro (sì, perché siamo nudi, non possiamo far ricorso a nessun trucco, stiamo studiando, dobbiamo rivelare i nostri problemi, i nostri dubbi. In questo, io sono maestro, anche se nessuno se ne accorge o per complicità o per disinteresse. Mi faccio del male tagliando la carne viva dei miei errori per da lì ripartire mondato, cerco di svelare coprendola tutta la mia inadeguatezza. Un regista presente in sala mi si avvicina e fa alcune considerazioni riguardo quanto ha visto, delle quali gli sono assai grato:

A) Non ti arrabbiare! (Vero! Durante la conversazione devo essere stato molto aggressivo, ma non me ne ero accorto).

B) Non dare la colpa alla tua partner! (Vero! Non era una mia intenzione cosciente, ma evidentemente si era palesata).

C) Pinter ha bisogno di una precisissima cadenza di battute, azioni, pause... tutto parla. In voi non esprimevano niente neanche le battute: stiracchiate, mal dette e inaudibili, forse anche mal pronunciate. (Vero e basta!)

Alla mia domanda "che devo fare?", gli ho strappato la seguente risposta che non so se lui realmente approvi, io sì, è sempre l’ultima soluzione in casi simili:

D) Fatevi (la mia partner ed io) una bella litigata. (Vero! Ci ho provato, ma con lei mi è sembrato troppo pericoloso, non mi sono voluto prendere questa responsabilità, non sono ne’ uno psichiatra, ne’ uno psicanalista, ma solo un attore che non sapeva più dove sbattere la testa)

L’appiglio era lì, lei me lo offriva chiaramente, ma io stavo perdendo qualsiasi possibilità di vederlo.

I giorni seguenti abbiamo a disposizione il teatro per provare da soli: occasione meravigliosa. Io e la mia partner ci diamo appuntamento lì per il lunedì seguente.

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Improvvisazioni:

Condenso il racconto degli accadimenti di tre giorni di lavoro, noi da soli in teatro, 12 ore di improvvisazioni in ogni direzione (sigh!).

Modifichiamo una delle circostanze: così come suggerito dal testo avremmo dovuto essere in un pub, seduti uno di fronte all’altro. Penn ci aveva detto di non sederci, di muoverci. Così, siccome ci sembra un po’ improbabile muoversi tanto liberamente in un pub, scegliamo di agire nella stanza privata di un pub, una di quelle stanze dove può avvenire di tutto, da un convegno di affari a un pranzo a un incontro amoroso o a pagamento. 1° errore.

Cominciamo a muoverci nello spazio dato, dicendoci le battute. Risulta essere più che altro una prova di memoria.

Riproviamo come prima ma aggiungendo battute improvvisate, raccontandoci storie, passato e presente, domande e risposte. Credo che questo sia l’esercizio dello "speaking out". 2° errore. Ci si dovrebbe attenere alle circostanze e azioni date, io invece divago pur credendo di rimanere in tema. Succede ben poco. Mi monta un po’ di agitazione, ma la controllo benissimo (?). Mostro ancora molta disponibilità, credo di essere ancora molto disponibile.

Proviamo la scena muti. Effettivamente qualcosa accade, c’è più comunicazione fra noi, contatto e senso, i corpi procedono dove le parole non sapevano portarci.

Riproviamo con le parole: non succede nulla. Immediatamente prigionieri delle parole, della memoria.

Noto che la mia compagna procede in tutti gli esercizi con lo stesso "sentire" anche denso, ma che a me appare univoco, non modulato, noioso, compie sempre le stesse azioni di avvicinamento e contatto fisico, reagisco con un po’ di fastidio, non le dico niente, cerco di mantenermi fisicamente e intellettualmente disponibile alle sue proposte, ma forse involontariamente, più probabilmente volontariamente, comincio a provocarla durante le improvvisazioni con battute e azioni più o meno inserite nel contesto, rifiuti, fastidio manifesto, sempre più allontanandomi dalle circostanze date. E’ cominciata la discesa ripida verso il disastro. La mia disponibilità nei confronti della mia partner comincia a cedere. 3° errore.

Un’attrice abbastanza esperta del Metodo che assiste alla prova, mi fa delicatamente notare che ci dovremmo attenere alle circostanze date. Le ricordo le cinque indicazioni di Penn: Dimenticare Pinter, dimenticare il testo, raccontare la nostra storia, rompere le regole ed essere anarchici. Lei non replica e forse si convince. 4° Errore.

Non riesco a scuotere la mia partner che continua un suo percorso di avvicinamento che mi infastidisce sempre di più, mi appare sempre uguale, comincio a stufarmi di improvvisare senza che nulla accada. 5° errore.

Le propongo di scambiarci i ruoli e improvvisare senza o con poche parole, non so se sia previsto dal Metodo, ma la proposta viene accettata. Procediamo (io ‘faccio’ lei, Emma, lei ‘fa’ lui, Jerry): non so cosa succeda al mio corpo, mi sento brutta, stanca, avvilita, non cedo all’idea facile di "travestirmi" che pure mi passa per la mente, comunque mi abbandono a tutta la mia fragilità, la fragilità di un personaggio che ha passato una notte infame a parlare con il marito dal quale ha ricevuto la rivelazione che lui l’ha sempre tradita ed al quale lei stessa rivela il proprio tradimento con il migliore amico (del marito) storia durata sette anni e finita da due.

Ora Emma è in procinto di incontrare l’ex amante che non vede da due anni, dal quale cerca forse conforto, forse l’affetto di allora, al quale forse sa di aver combinato un casino avendo rivelato tutto al marito. Le circostanze sono esattamente quelle proposte dal testo. Bene. Aspetto che lei/lui (ci siamo scambiati le parti) entri, aspetto, lui entra, lo guardo, lo riconosco, ma è diverso da come lo ricordavo, non reggo, mi commuovo, lo abbraccio, mi abbraccia, scoppio in lacrime, mi consola con il suo abbraccio, mi riprendo e sempre umido di lacrime continuiamo la scena.

Bene, mi sembra, molto bene. E’ accaduto moltissimo. Ho appreso molte cose, prima fra tutte la fragilità di quella condizione per il personaggio di lei. C’è stato contatto, molto emozionante. Non realizzo lo smarrimento della mia partner. 6° errore.

Torniamo alle battute. Di nuovo non succede niente di quello che mi aspettavo, solo i soliti inseguimenti, credo. Eppure gli appigli che la mia partner mi manda sono lì. Non li vedo e non voglio vederli. Sento il bisogno di una maggiore reattività e la provoco allontanandomi sempre più dalle circostanze e dalle azioni date. 7° errore.

Continuiamo così tra rabbia e fastidio per due giorni, ripetendo improvvisazioni di tutti i tipi e credendo di stare sulla scena data, invece io me ne allontano sempre più, ma non me ne accorgo, mi sento autorizzato ad andare dove mi porta il caso perché ormai accetto istintivamente l’idea che se io sono il personaggio io posso fare quello che voglio. 8° enorme errore.

Se non stessi cercando di praticare il Metodo, mi sederei a tavolino con la mia partner e discuterei battuta per battuta, senso, significati, direzioni, circostanze e azioni anche se non le chiamerei così, ma la mal comprensione dell’esercizio mi allontana dal mio metodo per assumere quelle regole che credo, sbagliando, siano proprie del Metodo: io sono il personaggio e sono autorizzato a fare qualsiasi cosa senta, perché quel sentire mi appartiene e quindi è vero.

Non solo non c’è niente di più sbagliato per il Metodo, ma anche per le mie intime convinzioni, ma ormai credo che sia giusto abbandonarmi anche a quella ricerca e sperimentare ciò che non conosco. Purtroppo sbaglio completamente direzione. La mia partner continua, solo un po’ turbata dalla mia rabbia che si fa evidente, la sua strada di "sentire realmente", ma io non la vedo proprio più, per cui continuo a manifestarle solo il mio fastidio e a provocarla durante le improvvisazioni che diventano sempre più tese.

Non sono più disponibile fisicamente a cedere ai suoi avvicinamenti, desidero solo vedere una fiamma sia pure di rabbia da parte sua nei miei confronti, ma la sua intima delicatezza la tiene su modi gentili e riservati che mi irritano ancora di più. Sempre erroneamente convinto che essendo la mia irritazione reale sia opportuna alla scena, quella metto in campo e non riesco più a fare altro.

Ultime due ore di improvvisazione:

Il giorno prima siamo arrivati a qualche momento di contatto sia pure rabbioso, ma mi appare ancora molto poco, troppo poco.

La prima improvvisazione non è niente di più di una prova di memoria.

La seconda è meno di niente.

La rabbia monta e lo dico.

Riprendiamo. Deluso e preoccupatissimo, finalmente, non so perché, scelgo di andare sulle corde di lei, di accogliere e rispondere alla univocità (così mi appare) dei suoi sentimenti. Sono dolcissimo anch’io, finalmente smarrito nel vederla, ci commuoviamo entrambi, l’ascolto, le rispondo. Sentendo le "azioni" delle sue battute un po’ casuali e appiccicate sulle parole, senza perdere il personaggio che sto proponendo, la invito a pensare che forse quello che sta dicendo abbia un senso diverso da quello che lei propone. La mia partner tenta una giustificazione, ma prova a modificare le sue "azioni", ci riesce e l’improvvisazione continua come se nulla l’avesse interrotta.

Siamo dolci, disperati, preoccupati, vicini e poi di nuovo lontani. ‘E’ ciò che dovrebbe essere’ ci conforta una spettatrice. A me invece sembra poco più di niente, sbaglio, ma non lo capisco e invece capisco che mi sono abbandonato alle sue corde per dimostrarle subdolamente come quella dimensione fosse niente. 9° errore.

Ripetiamo la stessa improvvisazione, ma la mia insofferenza esplode. 10° clamoroso errore.

Altri due attori presenti in attesa di provare il loro lavoro mi gridano di mettere tutta la mia energia nella scena invece che nella discussione. Sono ormai cieco. Completamente. Rispondo che l’ho già fatto i giorni precedenti e che non è successo niente lo stesso. Ne sono convinto. Ed è vero, ma il 10° errore si ingigantisce, diventa mortale.

Nonostante lei mi inviti a continuare a improvvisare io mi sento sfinito, non avendo visto alcun avanzamento, sono stufo. Usciamo insieme e, fuori del teatro, ci limitiamo a una semplice prova di memoria seduti che sembra più interessante di tutto quello che abbiamo fatto finora. Ci lasciamo molto tesi.

~~~

3° pomeriggio:

Le nostre dodici ore d’improvvisazione sono state interrotte da un altro incontro di lavoro con Penn.

La cosa straordinaria di questo spirito felice dell’arte è la capacità di condurre l’attore verso il percorso di ricerca del "reale" con poche e semplici parole, irripetibili, perché quando le pronuncia sembrano addirittura ovvie, solo che vengono in mente solo a lui. Lo sappiamo tutti, la principale virtù dei grandi è la semplicità, e in lui è al massimo grado.

Penn si avvicina agli attori mentre provano i loro pezzi e sottovoce, senza interromperli, suggerisce un’azione o un sentimento e improvvisamente la scena monta. Si assiste alla replica delle scene già viste il primo ed il secondo giorno, agli avanzamenti che le scene hanno fatto seguendo le indicazioni ed i compiti assegnati da Penn. I cambiamenti sono ancora incerti, ma notevoli.

~~~

4° pomeriggio:

Si apre con la ripetizione di un lungo monologo di un attore studiato la sera del giorno precedente, per elaborare sensorialità e chiarezza, direzione delle azioni.

Già alla prima prova Penn è entusiasta, c’è un grande avanzamento. Comunque invita l’attore a ripetere il monologo in una lingua universale, una specie di Gramlot di Fo. L’attore è bravissimo e disponibile, il senso della scena e delle azioni si evidenziano. L’atmosfera è molto piacevole.

Tocca a noi. Siamo terrorizzati, addirittura la mia partner spera che Penn ci interrompa subito per lavorare con lui. Io, dopo le tensioni del giorno prima, mi sento molto più vicino a lei, la consolo, la tranquillizzo, ma sembra che tutto ciò non sortisca alcun effetto. Prevedo già che si agiterà tantissimo e che quindi io dovrò impormi di mantenere la calma ed eventualmente con battute improvvisate tranquillizzarla anche durante l’esercizio. Lei stessa me lo chiede. Ed io mi sento perfettamente in grado di farlo.

Una frase dell’introduzione di J. R. Isaacs ad "Acting" di Boleslavsky, mi conforta: "First know rightly what to do, and then to do it rightly". L’ho sempre fatto, ho sempre mantenuto la testa fredda, concentrandomi prima di entrare in palcoscenico, sapendo quello che dovevo fare. Purtroppo non ho considerato che quel "rightly" è la cosa che conta di più. Dimentico completamente il livello per me insoddisfacente degli ultimi esercizi fatti con la mia partner e trattandosi ancora di un’improvvisazione mi preparo a sorprenderla per, spero, riuscire a ottenere freschezza di reazioni e contatto con lei.

Ha inizio l’11° e più grave errore accompagnato dalla somma di tutti gli altri. Decido di entrare nella stanza che ci siamo dati come luogo e sorprenderla come non ho mai fatto prima, con uno stupido e, nelle mie intenzioni, tenero gioco che talvolta nella vita ho fatto. La sorprendo silenziosamente alle spalle ben sapendo che lei mi sta aspettando, le copro gli occhi per farle indovinare chi sia a coprirglieli, avviando così un processo anche intimo, di immediato contatto, che dovrebbe portarci a una emozione da sviluppare durante l’esercizio.

Niente di più sbagliato. Capirò troppo tardi che anche nell’improvvisazione non è lecito fare cose che l’altro non si aspetti e comunque mai è lecito abbandonare le circostanze e le azioni date. Ma io ormai sono cieco e convinto di essere autorizzato, in quanto io stesso il personaggio.

E’ un corpo a corpo in cui rapidamente ripercorro tutte le improvvisazioni fatte e senza accorgermene costruisco di attimo in attimo dei "punti fissi" che raggiungo. Credo di essere sulla scena, dentro le circostanze, credo di mantenere la calma perché immediatamente mi accorgo che lei non sa più dov’è, cerco ad arte di tranquillizzarla, ma la mia inconscia irritazione, violenza e aggressività emergono senza che io possa più controllarle.

Penn ci interrompe. Comincia il dialogo con tutti i presenti. Io non capisco e, mi dirà il giorno dopo la gentile signora che ci assiste, Penn non capisce che io non capisco. Io mi difendo dalle critiche e osservazioni di tutti con ostinata aggressività. Senza mai dirlo perché mi sembra implicito, sostengo che se come dice il metodo io sono il personaggio, nessuna critica di irrealtà o di comportamento sbagliato può essermi mossa, perché se reagisco in un modo che credo sincero, che sento naturale, anche la mia irritazione deve a tutti i costi essere giusta ed io nel giusto.

Nessuno riesce a fermarmi e a farmi capire che tutto sarebbe giusto solo nelle circostanze e nelle azioni date dalla scena, cose che io ho completamente dimenticato. Non riesco ne’ ad ascoltare quel che mi dicono ne’ a dire quel che credo scontato. Sono ormai rigido, in difesa. Credo di essere apparso agli occhi di tutti come un bruto irrispettoso della delicatezza della mia partner, e forse è vero. Un attore osserva che entrambi abbiamo indossato delle "attitudini" e abbiamo senza nessuna freschezza o "reale sentire" proposto dei punti fissi. E’ vero ma me ne rendo conto poco e malamente. La mia partner tace, osserva solo che non ci eravamo dati punti fissi ad eccezione di tre "azioni" previste e suggerite della scena. Questo mi fa sentire più vicino a lei. La quale per il resto tace.

Penn chiede a lei quali fossero le sue intenzioni in quella scena, lei tergiversa, tace, non riesce a rispondere, scoppia in lacrime. Io intimamente mi irrito. Penn mi chiede di stabilire ora un contatto con lei. Io mi avvicino e mi inchiodo combattuto tra la mia irritazione per quel pianto e l’esigenza di stabilire un contatto, passano dei minuti, io non ho il coraggio di consolarla, resto così fino a che Penn dice che un contatto non è una sinfonia che duri in eterno, un contatto è un contatto. Capisco, ma non mi schiodo dall’incomprensione di ciò che dovrei fare: essere gentile con lei? farmi carico di quel dolore che l’ha presa? Io in quel momento la odio!

Penn ci invita a procedere nella recitazione. Lei sempre in lacrime pronuncia con parole proprie il senso dell’ultimo momento della scena, in me l’irritazione è totale e per altro la scena prevederebbe in quella fase la mia più totale paura, incazzatura, sgomento. Cose che provo ma che a quel punto non ho più il coraggio di far emergere. Sono nero, la mia partner è in qualche modo consolata dalla comprensione di Penn e di tutti i presenti. Io sono un mostro che effettivamente non ha capito un cazzo e che ha aggredito la sua partner, siamo tutti stanchissimi, la scena e la conversazione, funestata dalla tensione che sono stato capace di costruire, hanno occupato l’intero spazio tra un intervallo e un altro.

Penn chiaramente mi disprezza per il mio manifesto cinismo, ma non abbandona la sua straordinaria semplicità e dolcezza, certo corre preoccupato in soccorso della mia partner. Lei mi guarda, Penn mi domanda cosa vedo nei suoi occhi, io rispondo "odio nei miei confronti", lui dice e allora, io dico che le lacrime di una donna ricca bella elegante che dirige una galleria di pittura con la quale ho avuto una storia per sette anni ormai finita da due anni (così sono i personaggi) non mi inteneriscono per niente, anzi, mi fanno incazzare e non capisco perché debba nasconderlo. La confusione su che cosa significhi l’identità tra attore e personaggio è al suo culmine.

Penn ci separa, dà a lei un esercizio e a me un altro. Entrambi mi odiano. Bene! La mia carne è nuda e ferita, credevo di essere il più forte e per questo mi sono dominato almeno nelle intenzioni volontarie, invece sono completamente sconfitto, lei, sia pure in lacrime, si è dimostrata molto più forte e ostinata di me, non ha mai modificato il suo "vero sentire", io non sono stato capace di capirlo, di prenderlo, di essere con lei. Non ci sarà tempo, la mia mente rimarrà offuscata anche per i giorni a venire. Di più capirò la sera dell’ultimo incontro, ma sarà comunque troppo tardi.

Mi sono sempre considerato un attore ‘femmina’. Ricordate la definizione che si diede alla nazionale italiana di calcio ai mondiali di Spagna dell’82? Si disse che la squadra era una femmina perché si adattava alle condizioni della squadra di volta in volta avversaria, le rifletteva e vinceva. Certo quelli erano campioni e questo non è evidentemente il mio caso, ma amo adattarmi al gioco che mi si propone. In questa occasione non sono riuscito a coglierlo, se c’era un gioco non l’ho visto.

Il mio vanto di attore di essere sempre disponibile a realizzare quel che mi viene chiesto dai registi, al punto di rifiutare qualsiasi "repertorio", qualsiasi sicurezza, è stato assolutamente travolto, è crollato sotto i colpi di una mia totale (ho creduto) dedizione a un compito che ho completamente sbagliato. "Think rightly"!

Gli esercizi:

A lei Penn affida il compito di preparare il personaggio da "La più forte" (credo di Strindberg, introvabile in libreria), un dialogo con una partner che non parla. A me affida il compito di preparare "il momento privato", un momento privato mio, non di un personaggio. Di nuovo panico. Che cos’è il momento privato? Chiedo ad attori del seminario più esperti del Metodo, tutti a eccezione di uno concordano che si tratti di ricostruire un momento privato della propria vita che non si compirebbe davanti a nessuno. Mi suggeriscono di portare oggetti e attrezzeria da casa, cose personalissime. Mi raccontano che in alcune occasioni l’80% degli attori invitati allo stesso esercizio si sono spogliati, qualcuno si fa la barba, qualcuno si lava i denti, la mente naturalmente va alle cose più private come la masturbazione o altre attività fisiologiche, anche tagliarsi i peli dal naso o strapparsi quelli delle orecchie.

Strasberg ha inventato questo esercizio per far superare agli attori quel muro di imbarazzo o timidezza che li costringe a una insincerità di comportamenti e movimenti quando sono davanti al pubblico. Insomma dalle mie ricerche e da quello che riesco a intuire si tratta di raggiungere quella dimensione che è sempre necessaria in un primo piano cinematografico. Ricordo il racconto che mi fece il più grande dei registi con cui ho lavorato a proposito di un’attrice che dovendo girare un primo piano intimo e delicatissimo in un capannone che fungeva da studio cinematografico dove poco più in là stavano girando un altro film tutto diverso, un western con cavalli, carrozze e sparatorie, fu tranquillamente capace di dimenticarsi di tutto e raggiungere la commozione che la scena le richiedeva.

Senza arrivare agli eccessi descritti, al cinema c'è come minimo una troupe che ti guarda e racconta ben altra storia da quella che a te è affidata. In teatro a me è stato insegnato di sentire sempre il pubblico, quindi l’esercizio di dimenticarlo è ancora più difficile, per di più il nostro pubblico è composto a mio avviso da guardoni. Penso a quali siano i miei momenti privati che non mostrerei neanche ad una persona intima: a parte la masturbazione e la defecazione non ne trovo. C’è una cosa che amo fare e che mi concedo qualche volta, io la chiamo: "La mia perdita di tempo", il che, considerando il poco tempo che mi è concesso, è il massimo del lusso e della lussuria. Con i miei vestiti del giorno prima, prima di lavarmi o, dopo una intensa giornata di lavoro, mi siedo sulla mia poltrona preferita, mani in tasca, un paio di golf addosso che sento sempre freddo, mi perdo nei miei pensieri, parlo con i miei fantasmi che in genere mi rimproverano per i miei propositi di vendetta per una violenza, l’unica, subita nella mia vita.

Effettivamente "sprecare il mio tempo" è una cosa che mi riesce benissimo anche in pubblico, l’ho sperimentato più volte. Avrà senso farlo in questa occasione? Non lo so, comunque mi carico mezza casa (tutto l’abbigliamento del giorno prima, tre golf, la scatola del Maalox, alcuni oggetti, dei libri, la fodera della mia poltrona preferita, intrisa del mio odore stantio e molte altre cose) in un’ampia valigia e vado al 5° incontro con Penn. Non so che cosa farò ne’ se farò l’esercizio. Sono tesissimo.

~~~

5° pomeriggio.

Vorrei qui citare in particolare cinque esercizi tra i tanti ai quali ho assistito che più sono stati importanti per il livello di sincerità e lavoro che sono stati raggiunti dagli interpreti. Questi episodi naturalmente sono stati diluiti nell’arco dell’intero seminario.

1) Giovanna D’Arco di George Bernard Shaw.

2) Il Gabbiano di Tennesse Williams.

3) Un mese in campagna di Ivan Turgenev

4) La Signorina Giulia di August Strindberg.

5) Il bicchiere della staffa di Harold Pinter.

Uno, "Giovanna D’Arco": Giovanna dopo sette mesi di carcere viene condotta in tribunale e riceve la condanna. Prima prova: sorprende la capacità dell’attrice di dominare la lingua, ma soprattutto il coraggio di esporsi tra le prime, gli elementi della sua persecuzione e del coraggio sono tutti già lì, ma non ancora completamente distinti, certo la prova è emozionante. L’ingresso dell’attrice in catene è da brivido, poi la tensione prosegue drammatica, ma è recitata, non reale. Penn suggerisce di meditare su che cosa significhi per Giovanna quel processo e quale debba essere la sua condizione sensoriale (sofferenza, odori, dolori, freddo...) dopo sette mesi di prigione. Anche, suggerisce ancora, il processo per Giovanna dovrebbe significare la gloria e la fede in Dio, l’occasione perché si manifestino l’uno e l’altra.

Seconda prova: Non vedo un enorme cambiamento sebbene l’attrice liberi una straordinaria potenza.

Terza prova: L’abisso. Entra una santa, lacera, probabilmente puzzolente, umiliata dalle torture, eeretta nella sicurezza della protezione del suo Dio, ma anche abbandonata alla certezza della sua fede. Momento agghiacciante per intensità è quando il giudice le indica l’uomo che la tiene in catene e che non è solo il suo torturatore, ma sarà anche il suo boia. "Giovanna" si gira a guardarlo e in lui vede (o io vedo questo nei suoi occhi e nel suo corpo) materializzarsi l’uomo che come figlio di Dio non può rappresentare un pericolo, tutt’al più compirà la volontà del Dio in cui lei ha fede. Non c’è paura, ma fiducia e abbandono. La condanna al rogo viene pronunciata e in Giovanna emerge la donna mischiata alla santa, la paura umana e l’accettazione della volontà di Dio, sia pure manifestata attraverso la volontà degli uomini. Ci sono in questa attrice chissà quante altre emozioni reali e spaventosamente drammatiche, ora potrebbe raccontarmi qualsiasi cosa, io ci crederei. L’attrice scappa perché ha da fare, ma anche in sua assenza Penn ne loda il lavoro straordinario.

Due, "Il Gabbiano": Questo Gabbiano di Williams è un inedito, i due attori che lo provano sono adusi al Metodo, hanno studiato molto, raggiungendo ad ogni prova momenti estremamente significativi. Quel che mi colpisce delle indicazioni di Penn in una delle occasioni, la seconda, è che chiede loro cosa si aspettino l’uno dall’altra. Per esempio all’attrice, "Nina", chiede da dove venga e perché sia lì nello studio di "Trepilov". Viene da fuori, piove, è stata sotto l’acqua, deve consegnare a Trepilov una lettera. Penn dice che non si vede che è bagnata e non si vede che voglia o debba consegnare la lettera. Difatti l’attrice se ne è dimenticata, presa dall’intensità di rapporto con il partner. Scioccante ma significativo aver dimenticato l’azione principale della scena.

Terzo, "Un mese in campagna": La donna vuole spingere via il suo amante che la tratta male. La prima prova dell’attrice mi appare come un momento privato interiore, non mi suscita una particolare emozione. Penn la invita a un maggiore contatto con il suo partner, che mi appare freddo ma comunicativo, intenso. La seconda prova, i due attori sono insieme, ci sono lunghi momenti di grande intensità, si assiste alla sofferenza della donna e all’evolversi dei suoi sentimenti contrastanti di volerlo cacciare via, ma anche di volerlo trattenere. Grande intensità e contatto tra i due interpreti. Ma alla proposta di Penn di eseguire ancora l’esercizio senza parole succede quello che sarebbe stato difficile immaginare: I sentimenti si materializzano, si vedono fisicamente trasformarsi, la sofferenza è grande e l’emozione degli spettatori altissima. Chiedo a Penn se l’attrice in caso di repliche debba sottoporsi tutte le sere allo stesso stress psicologico, lui dice assolutamente no, deve solo ripercorrere le "azioni" compiute che ormai il suo corpo ha immagazzinato nella memoria fisica, le emozioni verranno da sole.

Quarto, "La Signorina Giulia". Da questo esercizio ho appreso due lezioni: l’umiltà di una celebre attrice che si è veramente messa in discussione senza falsi pudori, e la capacità anche di fronte di uno straordinario lavoro suo e del suo partner, di rinunciarvi se fuori dalle circostanze date e dai significati dati.

Quinto, Il bicchiere della staffa. Un tale perseguita durante un interrogatorio prima un uomo e poi sua moglie. La prova è divertente, ma anche un po’ tutta uguale. Penn in segreto suggerisce ai due interrogati di modificare all’opposto le loro "azioni": invece di essere succubi, devono provocare, resistere, affrontare colui il quale li interroga. La scena si capovolge con effetto devastante, il persecutore non sa più come agire, altre dinamiche si scoprono, non potranno più essere dimenticate anche tornando alle circostanze e azioni date.

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Molti altri sono stati gli esercizi, tutti molto interessanti:

- Un’attrice che è arrossita all’emergere delle proprie emozioni.

- Un attore solo di spalla copre il lavoro del protagonista.

- Un attore che parla e sfida i propri fantasmi e li fa reali al punto che li vediamo anche noi. A questo proposito qualcuno chiede se la sera davanti al pubblico l’attore non riuscisse a vedere i suoi fantasmi cosa dovrebbe fare? Risposta, dovrebbe usare quello che ha, il sipario che si apre, la platea, la paura di non vedere i tuoi fantasmi sono fantasmi più che sufficienti.

- Un commovente dialogo in un campo di concentramento dove i due attori riescono anche a ridere di nuovo.

- Un monologo che diventa dialogo.

- Due attori che interpretano lo stesso monologo in modi così diversi che a stento ne riconosco l’identità.

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In un moto spontaneo, non so ne’ come ne’ perché, avvicino Penn e gli comunico che non farò l’esercizio sul momento privato, perché già sono stato completamente nudo davanti a lui e a tutti gli attori e spettatori durante la conversazione che è seguita al mio esercizio il 4° giorno. Gli chiedo se la cosa ha senso per lui, mi dice che certamente sì. Il mio unico dispiacere è di non poter lavorare con lui su una delle altre scene che ho preparato. Non sono rilassato per niente, ma sono convinto che lui a sorpresa mi chiederà di farlo, sono pronto con tutte le mie chincaglierie. Non ho preso in considerazione il grande rispetto che lui ha per gli altri, non me lo chiederà. Peccato. Colpa mia comunque.

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6° pomeriggio.

C’è aria di festa e di tristezza, ancora poche ore e tutto sarà già stato, è venerdì ma sembra "Il sabato del villaggio".

Arrivato prima, mi organizzo per il mio momento privato, che provo brevemente, poi mi rincantuccio vicino a un termosifone e lì rimango in attesa, come spettatore.

Si susseguono molti esercizi alcuni più avanzati altri ritornati indietro.La mia ex partner fa il suo esercizio con anche altri interpreti nella parte di clienti del bar, il cameriere ruba la scena a tutti, è attore che mi appare molto versatile e intimamente simpatico qualsiasi cosa faccia. Vedo nell’attrice tutto quello che ho sempre visto durante il lavoro insieme, agitazione e un grande accumulo di gesti, facce e atti preordinati ma che l’aiutano a trovare la strada. La sua nuova partner nel ruolo dell’amica che non parla, osserva Penn, sta recitando una muta, ma il fatto che non parli non significa che sia muta, è direttamente la fine del testo. Le invita a riprovare senza tutta la baraonda degli altri interpreti, la scena è di studio e riguarda la relazione fra le due donne, il resto ora non serve.

Lo scontro è tra una donna che ha una felice vita familiare piena di interessi e affetti, cose da fare, pensieri, e l’amica che solo alla fine capirà che l’altra sa che lei è l’amante di suo marito. Uno scontro tra una intensa generosità e una certa aridità, detto in rozzi soldoni. Questa seconda prova vede la mia ex partner sviluppare un maggiore contatto e maggiore sicurezza sebbene dica battute che improvvisa, e questo comunque l’aiuta, è ben più serena ed effettivamente accade qualcosa, peccato che sia l’ultimo giorno e non possano lavorarci ancora. Finito l’esercizio lei torna al suo posto con i complimenti affettuosi di Penn, anch’io mi complimento e lei per la prima volta da tre settimane, diversamente da come ha sempre fatto con me, dice che invece non è stata brava e che non ha fatto nemmeno il minimo.

Domanda: Perché qui vede che è appena all’inizio, e non è vero, e invece con me si dichiarava tanto contenta di quel niente che accadeva?

Mia ipotesi: Penn è stato capace di infonderle quella sicurezza che ora le permette anche di criticarsi. Grande Penn. Piccolissimo Federico.

Lezione finita!

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Grande applauso a Penn che si sottrae.

Grazie Penn per tutto quello che hai fatto per noi ed in particolare per me. Ti sembra poco il trauma che mi hai fatto provare? Sorride, mi stringe la mano e dice: e già il trauma!

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Martone riunisce gli attori che hanno partecipato per fare due chiacchiere su quel che è stato. Molti, quasi tutti tranne due, esprimono il desiderio di continuare a studiare il Metodo, auspicano che il Teatro di Roma continui a promuovere seminari perché tutti si trovi una lingua comune. Martone ci pensa, ma sta promuovendo incontri con le più diverse realtà ed esperienze teatrali. Naturalmente il nome di Peter Brook è sulla bocca di tutti, ma è difficilissimo riuscire a ottenere degli incontri con lui. Martone dice che si potrebbe continuare a lavorare con quei registi che sono stati presenti tra il pubblico. Dico che sebbene straordinaria l’idea: 1) la presenza di quegli spettatori, e non solo per me, è stata più un problema che un piacere, trattandosi di un laboratorio e non di uno spettacolo. 2) che mi è capitato mille volte di incontrare attori, registi, sceneggiatori che per aver seguito un corso di sei giorni ritenevano di essere depositari di un metodo di lavoro.

Vengo interrotto e non riesco più a dire che il lavoro con i giovani registi discontinuamente presenti al seminario sarebbe comunque importantissimo Metodo o non Metodo, per sviluppare se non proprio un linguaggio comune, almeno un modo di comunicare gli uni con gli altri. In America sono addirittura le Università, le scuole a mettere in contatto gli allievi con i professionisti per sperimentarsi gli uni e per rinfrescarsi gli altri. Spero che Martone proceda in questa sua proposta e mi permetta di esserne parte.

Ultima considerazione.

Rimango convinto che il Metodo sia una gran cosa, ma che la grandezza di chi ce ne ha dato un esempio sia immensamente più straordinaria. Come tutto nel mondo può essere usato bene o male. Non è l’unica lingua. E temo porti sì a risultati eccellenti, ma a nessuna delle altre infinite ipotesi che il Teatro riserva a chi le voglia sperimentare. Certo qualunque strada si intraprenda, ci vuole un’infinita disponibilità per percorrerla e un’intera vita di lavoro quotidiano.

Grazie infinite.

 

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