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Libri

Camilleri, Andreotti e la Mafia

Giovanni Bianconi

 

Per gentile concessione dell'autore e dell'editore pubblichiamo di seguito l'articolo che apparirà sul numero 3, serie V, di "Nuovi Argomenti" (Mondadori), la cui sezione monografica è intitolata "I partiti non si inventano".

 

 

Il commissario capo di pubblica sicurezza Salvo Montalbano — quarantottenne poliziotto di Vigàta, Sicilia occidentale, diventato famoso per i racconti ispirati alle sue avventure che in pochi mesi avevano sbancato tutte le classifiche di vendita dei libri — arrivò alla trattoria senza avere idea, per una volta, di quello che avrebbe voluto mangiare. Nella sua testa turbinava tutt'altro, un pensiero che non l'abbandonava da quando aveva visto al telegiornale le immagini del processo di Palermo.

"Con che faccia," si domandava Montalbano, "uno come l'ex presidente della Repubblica s'è potuto presentare in aula a difendere con tanta veemenza l'imputato?"

Quel giorno Francesco Cossiga, già ministro dell'Interno, poi presidente del Consiglio e finanche capo dello Stato, aveva deposto come teste nel processo a carico di Giulio Andreotti, anche lui tante volte ministro e tante volte capo del governo, frenato sul più bello della corsa al Quirinale proprio nella successione a Cossiga, accusato di partecipazione all'associazione mafiosa denominata Cosa Nostra. E aveva detto, il testimone della difesa, che l'imputato era "un assatanato" delle leggi speciali contro la mafia, che non gli importava niente dello Stato di diritto pur di sbattere in galera i boss.

Su qualche giornale Montalbano aveva anche letto che sempre Cossiga — che lui ricordava scritto col K, Kossiga, sui muri delle città, quando era entrato da poco in polizia e si domandava al servizio di chi lavorasse — invocava a gran voce un'amnistia per farla finita con le inchieste su Tangentopoli. E dalla tribuna di un congresso che pullulava di ex democristiani riuniti in un nuovo partito, l'ennesimo, ancora l'ex presidente della Repubblica aveva tuonato: "Non ci faremo processare!".

Il commissario, che nel 1968 manifestava, occupava, si faceva gli spinelli e s'azzuffava coi poliziotti come gli altri studenti del "movimento", aveva abbandonato da tempo le illusioni di trent'anni prima, ma non per questo s'era completamente rimbambito, né gli si poteva propinare qualunque sciocchezza come niente fosse. Il brigadiere Fazio, uno dei suoi bracci destri, lo definiva "un comunista arraggiato", un po' rabbioso, avvelenato, ma Montalbano gli ribatteva che non capiva niente: "Per te chiunque s'arrabbi per un'ingiustizia è comunista; ma non ti preoccupare, sono in molti a pensarla come te. Sei un tipo alla moda".

Quando entrò nella trattoria vide che lo scrittore lo stava aspettando già seduto al tavolo, fumando. Era l'autore dei romanzi che parlavano di lui, un siciliano di 73 anni al quale l'improvviso e straordinario successo — dopo parecchi lustri passati alla macchina da scrivere nel quasi-anonimato — non aveva fatto cambiare abitudini e modi di pensare. Certo, che i suoi libri fossero divenuti best-seller e che finalmente guadagnasse un po' di soldi gli faceva piacere, ma era consapevole della casualità del fenomeno.

"Alla mia età," ripeteva ai giornalisti che lo cercavano ogni giorno, quasi una persecuzione alla quale non si sottraeva per gentilezza e riconoscenza, anche se aveva dovuto ricorrere alla segreteria telefonica per limitare l'assalto, "è già tanto che ogni mattina mi sveglio e posso alzarmi dal letto, quindi non è il caso di montarsi la testa. Avessi quarant'anni correrei il rischio di fare qualche sciocchezza, oggi per fortuna no."

Tra le abitudini dello scrittore c'era pure quella di incontrarsi, di tanto in tanto, col commissario Montalbano per parlare, commentare, farsi venire nuove idee. Di solito si vedevano alla trattoria "San Calogero" di Vigàta, ma stavolta avevano scelto un buco sulla strada tra Montelusa e Fiacca, per stare più tranquilli: ormai lo scrittore veniva riconosciuto ovunque, e anche al ristorante c'erano le signore in età che l'avvicinavano per farsi firmare i libri e dare suggerimenti, per esempio che il protagonista non si doveva assolutamente sposare con quell'antipatica di Livia, la fidanzata del nord.

All'esterno la trattoria era indicata solo da un cartello con una scritta a mano: "Da Filippo che si mancia bene". Dentro c'erano cinque tavoli e un padrone, Filippo appunto, che cucinava e serviva quando gli veniva comodo. Montalbano l'aveva apprezzato per i polipi alla napoletana preparati con le olive nere di Gaeta e i capperi di Pantelleria che gli propinò la prima volta che c'era capitato, e per questo ci tornava spesso.

Sedutosi davanti allo scrittore il commissario ordinò i soliti polipi, ma il suo commensale — il quale ormai lo conosceva bene — capì dalla faccia che qualche pensiero lo disturbava. Montalbano gli spiegò di Cossiga e della sua testimonianza al processo Andreotti, che pure lo scrittore aveva seguito. Lui comunista lo era stato davvero, iscritto al Pci fin dal primo dopoguerra, e il commissario lo sapeva. Perciò si stupì quando lo scrittore rispose: "Cossiga ha ragione".

"Come sarebbe a dire?"

"Sì," spiegò lo scrittore, "ha ragione dal suo punto di vista, perché in realtà chiede un'amnistia non per i processi di corruzione, ma per gli ultimi cinquant'anni di storia italiana. Lui fa il solito discorso, ‘chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato, scurdammoce ‘o passato'."

"E ti pare bello?" chiese Montalbano.

"No, anche perché quello della collusione tra mafia e politica in Sicilia è un passato che non si può dimenticare tanto facilmente. Però Cossiga fa il suo mestiere."

Montalbano, che stava aspettando i polipi e dunque era ancora in animo di parlare a ruota libera, ribatté: "E noi facciamo il nostro. Sta a sentire quello che mi ha raccontato Nicolò Zito, il giornalista mio amico che lavora a Retelibera. C'è un personaggio politico di Girgenti, Mario La Loggia, che a oltre ottant'anni ha deciso di lasciarsi andare con Zito, e di svelargli un sacco di particolari. Questo La Loggia fu coinvolto anche nell'omicidio del commissario Cataldo Tandoj, ammazzato sotto casa sua nel 1960: era il segretario provinciale della Dc di Girgenti, e oggi ammette che i delitti Montaperto e Campo, due morti che turbarono la Sicilia negli anni Cinquanta, erano delitti della mafia democristiana. Lo dice papale papale, davanti alle telecamere. E dice anche, questo signore, che è ora di finirla con la storia che Andreotti non conosceva i cugini Salvo: quale esponente della Dc in Sicilia non li conosceva? Gli avevano fatto una legge per assegnare loro l'appalto delle esattorie, e i soldi entrati nelle casse del partito non si contavano più. Questo non lo sto inventando io, l'ha spiegato Mario La Loggia ad una televisione privata".

Filippo aveva portato i polipi, ma Montalbano non se ne curò e continuò: "Siamo di fronte ai responsabili in prima persona che parlano dei rapporti tra mafia e politica, che ci dicono esattamente la data in cui la mafia entrò a far parte della Dc. Il vecchio Giuseppe Alessi, altro esponente di primo piano del partito in Sicilia, dovette fare un intervento per dire ‘io questa gente non la voglio', quando dopo la strage di Portella della Ginestra, nel 1947, in Sicilia c'erano 150.000 voti vaganti degli ex separatisti. Tra quella gente la mafia agraria giocava un ruolo fondamentale, ed entrarono tutti nella Democrazia cristiana, inquadrati in fila per tre. Non lo dico io, ma i vecchi capi della Dc in Sicilia".

Lo scrittore ascoltava con attenzione, mangiando la pasta con le sarde ordinata prima che arrivasse Montalbano, e quando il commissario si fermò per aggredire i polipi domandò: "Va bene, ma che c'entra tutto questo col processo ad Andreotti? Secondo te è giusto inquadrare tutta questa storia in un procedimento penale?".

"È giusto se sono stati commessi dei reati, ma sarà molto difficile arrivare a delle prove certe."

Adesso toccava a Montalbano mangiare, e allo scrittore parlare. "Secondo me," sostenne, "il vero processo che si doveva fare era quello a Salvo Lima, ma non sono arrivati in tempo, i mafiosi l'hanno ammazzato prima. Quel delitto è servito ad evitare che si scoperchiassero parecchie pentole, è stato un omicidio preventivo. Io ho il sospetto, per quanto cinico possa sembrare, che chi ha ucciso Lima abbia fatto un favore ad Andreotti. Se i magistrati fossero arrivati a processare Salvo Lima, le responsabilità di Andreotti sarebbero apparse evidenti, invece adesso è tutto più difficile."

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