Caffe' Europa
 
Libri

Pagina , 1, 2, 3

Camilleri, Andreotti e la Mafia (pagina 2)

Giovanni Bianconi

 

"Certo," convenne Montalbano, "perché più in alto si va e più difficile è trovare prove oggettive di certi rapporti."

"Ma quelli sostengono che ci furono addirittura degli incontri tra Andreotti e i mafiosi. Tu ci credi al bacio con Totò Riina raccontato da quel pentito, come si chiama, Di Maggio?"

Il commissario, che aveva finito di spolverare i polipi alla napoletana, rispose: "No, non ci credo".

"Nemmeno tu, un comunista arraggiato, come dice Fazio?"

"Che c'entra? Il mio giudizio politico su Andreotti lo conosci, non è cambiato e non cambierà mai. Però alla storia del bacio non ci credo. Credo invece ai patti siglati coi mafiosi dal suo luogotenente, da Salvo Lima, come dici tu. Senza l'appoggio della mafia non avrebbe avuto il successo politico che ha avuto."

Lo scrittore volle continuare a stuzzicare Montalbano, perché nella mente gli stava balenando qualche idea per un racconto: "Ma a te che sei un uomo di sinistra, che l'hai sempre visto come il simbolo negativo del potere, che impressione fa vedere Andreotti seduto sul banco degli imputati, con l'aria spaesata di chi sembra capitato lì per caso, che quando parlano i pentiti li ascolta come se fosse un studente a una lezione sulla mafia?".

"A te lo dico perché so che non mi fraintendi," rispose Montalbano, "ma io Andreotti in questa situazione lo ammiro. Ammiro la sua freddezza e la sua intelligenza, non è una figura da sottovalutare. Io al suo posto non sarei sopravvissuto, emotivamente e psicologicamente sono molto più debole. È una situazione dostoevskiana: Andreotti è troppo intelligente per non sapere di essere colpevole, ma non di quello di cui viene accusato. È colpevole dal punto di vista politico, di aver accettato i patti con la mafia stipulati da Salvo Lima."

"In effetti," riprese lo scrittore, "nei verbali d'interrogatorio di alcuni pentiti si racconta che i mafiosi davano disposizione di votare per la Dc, per i liberali o per altri. Solo per due partiti avevano ordinato di non votare, il partito comunista e i fascisti."

"Erano uomini da Grande Centro, come Cossiga," sorrise Montalbano.

Il trattore Filippo si avvicinò al tavolo per chiedere con che cosa volessero continuare. Il commissario, incurante che fossero un antipasto, ordinò dei gamberetti in salsetta di olio e limone; il suo commensale chiese una triglia fritta. La discussione riprese subito.

Il problema, come scrivevano alcuni giornali, era che nel processo contro l'uomo-simbolo del potere democristiano in Italia sembrava che i pubblici ministeri — soprattutto quello con la barba e i capelli arruffati, che pareva un comunista arraggiato come Montalbano — davvero volessero scrivere l'intera storia del paese.

"Invece è una tentazione dalla quale bisognerebbe rifuggire," disse lo scrittore.

"Sicuro, un po' di distacco farebbe bene a tutti," annuì il commissario. "Tu sai quanto poco mi fanno simpatia i magistrati e certi pubblici ministeri in particolare, però mi rendo conto che alcune volte non è nemmeno tutta colpa loro. Questi hanno sempre le telecamere puntate addosso, questa cazzo di televisione che registra ogni loro parola e li riprende in ogni momento, in ogni espressione. E' facile commettere degli errori, cedere a qualche tentazione."

"Mica solo a Palermo," si intromise lo scrittore. Si riferiva a Milano e al pool di Mani pulite di cui apprezzava, come Montalbano del resto, il lavoro e le inchieste. E però il commissario non capiva quelle interviste che di tanto in tanto provocavano un autentico putiferio: che bisogno c'era di farle?, si chiedeva lui che cercava di sfuggire anche la più misera conferenza stampa, lui che aveva sempre pensato che più si lavorava in silenzio meglio era, e che davanti a un microfono o a una telecamera diventava una specie di idiota, come avrebbe potuto raccontare il suo amico giornalista di "Retelibera".

"Per esempio," proseguì lo scrittore, "secondo me l'avviso di garanzia inviato a Berlusconi mentre si trovava a Napoli, con tutti quei capi di Stato e di governo stranieri, è stato un fatto gravissimo. Perché le possibilità sono soltanto due: o è stato un errore madornale, oppure quello, e sottolineo solo quello, è stato un atto politico da parte della magistratura. Solo quello, non il processo."

"Da noi in Sicilia," disse Montalbano, "una cosa del genere, fatta in quel momento e in quell'ora, avrebbe avuto un solo significato: uno sgarbo, una volontà di sputtanamento. Perché quello era il presidente del Consiglio, si sapeva che non sarebbe scappato, se l'avviso glielo mandavano due giorni dopo non succedeva niente. Questo protagonismo anche da parte dei migliori, un po' mi stupisce e un po' mi disgusta."

"E questa mania di rileggere tutta la storia d'Italia in chiave mafiosa, non ti sembra un po' eccessiva?"

"No," rispose deciso Montalbano, "fanno bene a peccare per eccesso. Per troppo tempo c'è stata gente che ha peccato per difetto e s'è visto con quali risultati. Continuare a minimizzare sarebbe un errore ancora più grave. Ti ricordi quel proverbio siciliano, paga ‘u giustu pi ‘u piccaturi, si avi a pagare? È terribile ma è così: se si deve pagare, certe volte è inevitabile che il giusto paghi anche per conto del peccatore. Leonardo Sciascia l'hai conosciuto, mica io; era lui a sostenere che l'unica libertà conosciuta dai siciliani durante il fascismo fu la libertà dalla mafia, grazie al prefetto Mori. Il quale usava metodi discutibilissimi, naturalmente, ma intanto la mafia dovette andare in sonno finché non arrivarono gli americani a darle un buffetto per risvegliarla, durante e dopo lo sbarco."

"La verità," lo provocò lo scrittore, "è che anche tu sei stato sedotto da quei sostituti procuratori seduti al banco dell'accusa contro Andreotti."

"Ma quando mai! A me quelli fanno anche un po' ridere, se proprio la vuoi sapere tutta. Solo che davanti ai pentiti che dicono certe cose mica possono buttare i verbali nel cestino e fare finta di niente. Il meccanismo dei pentiti, che può avere degli effetti perversi, non l'hanno inventato i magistrati, checché se ne dica."

Montalbano prese a mangiare i gamberetti. Lo scrittore, invece, attaccò la triglia facendo attenzione alle spine, e disse: "Tempo fa ho partecipato a un dibattito radiofonico insieme all'ex prefetto di Palermo diventato deputato di Forza Italia, quello che poi si è dimesso, e all'ex magistrato del pool antimafia che adesso è sottosegretario alla Giustizia, quello alto coi baffi. Si parlava della lotta alle cosche, e io posi questa questione: ormai siamo arrivati quasi a duemila pentiti. Supponiamo che la metà, un migliaio, siano degli autentici professionisti del loro mestiere".

"Potremmo considerarli dei mafiosi in cassa integrazione," lo interruppe Montalbano.

"Esattamente," proseguì lo scrittore. "Diciamo che l'azienda mafia ha cambiato indirizzo di sviluppo e di gestione, e che questi sono esuberi messi in cassa integrazione, come dici tu. Allora il problema è: di fronte a questi mille professionisti di mafia, ci sono mille pubblici ministeri altrettanto professionisti? Perché se non è cosi il mafioso in cassa integrazione rischia di portare chi gli sta di fronte dove vuole, facendogli prendere delle gigantesche toppate, come si dice ora. Il mio timore è che siano i pentiti a guidare i passi della magistratura. La mafia ha eliminato magistrati del valore di Falcone e Borsellino che era molto difficile prendere per il naso. Adesso c'è il buon Caselli, che io stimo e ammiro, al quale voglio bene proprio per il suo sforzo di capire una certa mentalità, ma anche lui non è immune da errori."

"Può sbagliare perché nessuno è infallibile, ma in tante cose però ci ha inzertato," chiosò il commissario, volendo dire che spesso il procuratore di Palermo aveva colpito nel segno.

A Filippo che s'era ripresentato al tavolo lo scrittore disse che per il momento si fermava lì, mentre Montalbano era indeciso fra la triglia e due spigole che aveva notato entrando. Optò per le spigole cotte all'acqua di mare, con due cucchiai di salmoriglio a completare il tutto.

"In ogni caso," riprese lo scrittore, "se vuoi sapere come la penso io, per me i pentiti dal punto di vista umano sono delle vere merde, nel senso proprio degli escrementi nei quali ci si può imbattere sul marciapiede. E mi fa schifo pure la parola pentito: il pentimento è un moto dell'anima che comporta dei turbamenti abissali, che alla maggior parte di questi non passano nemmeno per l'anticamera del cervello. Questi barattano e basta. Ormai ammazzano, li arrestano e subito dopo si pentono."

"Su questo sono d'accordo con te," disse il commissario. "A me non piace nemmeno la definizione di collaboratore di giustizia, perché allora come si dovrebbero chiamare i cancellieri, i periti, gli ufficiali giudiziari? Quelli sono collaboratori della giustizia. Anch'io disprezzo i pentiti sotto il profilo umano, per quello che erano prima e per quello che sono diventati dopo. Però sono di grandissima utilità, e vanno trattati usando tutti gli accorgimenti igienici."

"Del resto anche la merda è utile, come concime."

"Vuoi che ti faccia una confidenza?" chiese Montalbano abbassando il tono di voce.

"Dimmi."

"Uno dei motivi per cui ho chiesto più volte al questore di Montelusa di non occuparmi di mafia," confessò il poliziotto, "è proprio che non vorrei trovarmi, un giorno, a colloquio con uno di questi che hanno avuto il coraggio di strangolare un bambino di 12 anni con le loro mani e poi scioglierlo nell'acido. Parlare con una persona di questo genere è una cosa penosa per un investigatore, anche per uno che ne ha viste tante come me."

"Però anche a te è capitato di avere a che fare con la mafia," ricordò lo scrittore. Era vero. A Vigàta, per esempio, continuava la faida tra le famiglie rivali dei Cuffaro e dei Sinagra, e occupandosi di un altro delitto collegato a quello di due giovani amanti consumato cinquant'anni prima Montalbano s'era imbattuto nel boss Tano ‘u greco, un mafioso che s'era fatto arrestare proprio per non finire ammazzato da chi aveva preso il comando dentro Cosa Nostra.

"Quella però era mafia tradizionale, un'altra cosa rispetto a quella di oggi."

"Sì, ma c'è un filo che tiene legate tutte le cose," ribatté il commissario mentre aggrediva la prima spigola. "L'evoluzione me la raccontò proprio Tano ‘u greco che non era certo un pentito, ma solo uno che voleva farmi capire qualcosa. ‘Una volta', mi spiegò Tano, ‘camminavamo tutto col carretto, e le cose ce le aggiustavamo tra di noi, magari con qualche ammazzatina. Poi qualcuno si comprò la macchina, e anche se aveva la 500 andava più veloce di noi che avevamo il carretto, costringendoci a prendere la patente. Ma avevamo già una certa età, e ci accontentavamo di auto di seconda mano, un po' vecchiotte, mentre altri si fecero le Ferrari e le Bmw, e con quelle ci buttavano fuori strada. Noi siamo rimasti alle vecchie macchine, mentre quelli che correvano con le Ferrari sono andati avanti, e ormai non si conoscono quasi più. Per parlarsi neanche hanno bisogno di riunirsi in una stanza: comunicano via Internet, si scambiano soldi attraverso le banche, estero su estero. Ma questa sarà la nostra fine, e perciò mi consegno', concluse ‘u greco."

Pagina , 1, 2, 3
 


homeindice sezionearchivio
Copyright Caffe' Europa 1998

Home |Rassegna italiana | Rassegna estera | Editoriale | Attualita' | Dossier | Reset Online | Libri | Cinema | Costume | Posta del cuore | Immagini | Nuovi media | Archivi | A domicilio | Scriveteci | Chi siamo