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Camilleri, Andreotti e la Mafia (pagina 3)

Giovanni Bianconi

"Una vera storia della mafia in poche battute," commentò lo scrittore, che aveva preso degli appunti su un tovagliolo di carta pensando che quel racconto gli sarebbe tornato utile in qualche romanzo.

"Che ti fa capire come la mafia di oggi non sia un'altra cosa rispetto a quella di ieri, ma la sua evoluzione," aggiunse il commissario.

"In effetti," riprese lo scrittore mettendosi in tasca il tovagliolo con gli appunti, "mi stupisce molto il fatto che una volta beccare un mafioso era difficilissimo, e quando ci si arrivava ci scappava sempre il conflitto a fuoco. Oggi invece ne arrestano di continuo, e questi non sparano più. Semmai fanno come quel napoletano preso l'altro giorno, Sandokan, escono fuori dicendo di stare attenti alle bambine. Si preoccupano di avere garanzie per i propri familiari. Vanno in galera come se fossero consapevoli che è in atto un ricambio generazionale. La mafia è diventata un'azienda multinazionale che riesce ad essere sempre un passo avanti rispetto ai tempi, rinnovando uomini e mentalità. Per questo lo Stato uscirà sempre sconfitto, se non cambia metodo. Vuoi che ti confidi una mia idea?"

"Spara," disse Montalbano.

"Secondo me i nuovi capi della mafia faranno di tutto per non far arrestare Bernardo Provenzano. Lasciano in giro il vecchio boss perché si continui a dire che la mafia è quella, come fosse un fatto folkloristico, mentre invece è tutta un'altra cosa che prospera alle sue spalle."

"E tutti i miei colleghi che continuano a rompersi le corna per arrestare lui e gli altri mafiosi in circolazione, e che tanti ne hanno arrestati in questi ultimi anni, secondo te stanno perdendo tempo?" protestò il poliziotto.

"Non dico questo, perché comunque tolgono dalla strada soggetti pericolosissimi che hanno colpe gravissime da scontare. Dico che manca il laboratorio sperimentale."

"Sarebbe a dire?" chiese il commissario sollevando solo per un momento la faccia dal piatto.

"Sarebbe a dire che quando viene arrestato Totò Riina, le consegne per il futuro sono state già date, perché altrimenti, con la raffica di arresti che ci sono stati negli ultimi tempi, la mafia sarebbe finita. Invece così non è, e ha ragione Caselli a dire ‘attenzione, la mafia non è finita'. Questo significa che lo Stato arriva sempre dopo, non prima. Il processo penale è un consuntivo, non un preventivo di ciò che sarà. L'azienda mafia ha il suo laboratorio di ricerca per l'avanzamento delle proprie strategie, lo Stato no. L'antimafia indaga sul passato e sul presente, mentre dovrebbe indagare sul futuro, studiare quali possono essere gli sviluppi di Cosa Nostra e prevenirli. Altrimenti rimane sempre un passo indietro."

Nel piatto di Montalbano, delle spigole e del loro condimento era rimasto soltanto un vago odore, e il commissario, soddisfatto, era pronto a tirare la sintesi di quella discussione, come fosse la conclusione di una delle sue indagini e lui si trovasse a spiegare al suo vice Mimì Augello e al brigadiere Fazio in che modo era arrivato all'assassino: "In sostanza basta vedere la mutazione quasi genetica della mafia per capire quello che è successo. Si cominciò con la mafia agricola, poi l'agricoltura andò a farsi fottere e divenne la mafia dei giardini, con ulteriori possibilità; quando anche i giardini andarono a farsi fottere divenne mafia dei mercati, poi buonanotte ai mercati e divenne mafia degli appalti. Ora che anche il campo degli appalti è stato messo sotto controllo, che cosa diventerà questa salamandra che è la mafia? L'azienda non si può bloccare, e quindi quello che tu chiami il suo laboratorio sperimentale avrà già indicato le strade future da seguire, lungo le quali evidentemente potrà fare a meno degli arrestati. Prendere quella gente è stato un successo, ma non può significare una vera sconfitta della mafia. Quanto a Vigàta, resta la mentalità omertosa e quindi un po' mafiosa di cui è intrisa la gente, oltre ai Sinagra e ai Cuffaro. Ma quelli appartengono al folklore, e il mio sarà pure snobismo, ma sinceramente preferisco che di loro si occupi Mimì Augello."

Per concludere anche la cena, oltre al ragionamento, il commissario Montalbano chiese una cassata, mentre lo scrittore volle assaggiare le minne di Sant'Agata che Filippo aveva rimediato chissà come, pastarelle di marzapane tipiche di Catania. Nell'attesa, pose un'altra questione: "Mi sto convincendo di una cosa: coi miei romanzi storici sull'Ottocento, in realtà, mi occupo dell'oggi. L'ultimo, che parla di certi metodi non proprio ortodossi utilizzati dai carabinieri, è uscito nei giorni in cui hanno arrestato quel generale dell'Arma per certe complicazioni in un sequestro di persona, e nel pieno delle polemiche tra il gruppo speciale del Ros e la Procura di Palermo."

"L'ho pensato anch'io mentre lo leggevo," rispose Montalbano. "Di quel libro m'è piaciuta soprattutto una considerazione che viene fatta alla fine, non ricordo da chi, quando si dice che ‘i tre quarti dei siciliani stanno pigliati in mezzo tra lo Stato e la mafia'."

"Forse nasce pure da questa condizione la cultura del silenzio e del non detto che abbiamo noi siciliani, che chi viene da fuori fa fatica a capire. Quei sotto-discorsi in cui il non-detto è più importante di ciò che viene detto, o interi ragionamenti fatti solo attraverso gli occhi che certe volte, in determinate situazioni, diventano strumento di ricatto."

"Quelle sono forme di difesa elaborate da un popolo che ha avuto troppe dominazioni, allo stesso modo in cui certe specie di animali elaborano i propri sistemi di protezione," disse Montalbano. "E un non siciliano come il procuratore Caselli sta tentando disperatamente di superare questa difficoltà. Secondo me, oggi, lui è una delle persone che ha imparato più cose sui siciliani attraverso la letteratura, e il fatto che legga i romanzi, oltre che gli atti giudiziari, per capire il carattere delle persone è un segno di grandissima intelligenza."

Lo scrittore si dichiarò d'accordo prima ancora che il commissario finisse la frase: "Io lo sto ripetendo fino alla noia, in tutte le interviste che mi fanno: noi siciliani dobbiamo essergli grati, la sua presenza in Sicilia è una delle forme di risarcimento che il Nord sta concedendo alla nostra gente. Caselli è venuto in mezzo a noi, a farsi carico dei nostri problemi, quando poteva restarsene tranquillamente a casa sua, già coperto di gloria e di meriti per tutto quello che aveva fatto contro il terrorismo. E' venuto a mettersi in gioco, e io per questo non finirò mai di ringraziarlo".

Arrivarono le minne e la cassata, e i due commensali vi si dedicarono con entusiasmo. Ma Montalbano, facendo la parte di chi vivendo in una piccola provincia tenta di capire che cosa succede fuori dal suo mondo, domandò: "A proposito di Caselli, tu che ne pensi del calo di tensione nella lotta alla mafia che lui non perde mai occasione di denunciare? Ha ragione oppure esagera, e tenta di tenere alta l'attenzione sul suo ufficio per altri motivi?".

"Secondo me ha perfettamente ragione," rispose lo scrittore. E siccome sapeva che Montalbano capiva benissimo ciò che accadeva al di là di Vigàta, rilanciò: "Tu che ne pensi?".

"Lo credo anch'io. Perché nonostante quello che i tuoi lettori possono pensare da come tu mi descrivi, io ho una mia moralità. A me fa paura l'indifferenza della gente, e penso che Caselli abbia lo stesso timore. Lui non chiede più mezzi o più soldi nella lotta alla mafia; lui si riferisce a quella che Enrico Berlinguer chiamava la questione morale. Io credo che Caselli denunci un calo di tensione morale, e non si può dargli torto visto che dopo le stragi del '92, fino a un certo punto i siciliani hanno reagito, con l'albero di Falcone e tutto il resto; oggi invece la mafia acceca un bambino e i siciliani non si muovono."

"Del '92 noi non abbiamo mai parlato a fondo", disse lo scrittore, "ancora non ci conoscevamo. Come vivesti le stragi di Capaci e via D'Amelio?"

"Fu un momento tremendo," rispose Montalbano, che poi si fermò, rifletté in silenzio qualche secondo e riprese: "Cerca di capirmi: io credo che con Falcone e Borsellino abbiamo perso due persone di grandissimo valore. E basta. Non ho mai pensato che fosse finito tutto, come altri. Dopo la morte di Borsellino ci fu quell'anziano e valoroso giudice, Antonino Caponnetto, che quasi piangendo disse in tv che era tutto finito. Io cercai di incontrarlo, in quei giorni, per scuoterlo: ‘Dottore, capisco il suo smarrimento che è quello di tutti noi, ma per favore non dica minchiate'. Non ci riuscii, ma per fortuna lui stesso si rimangiò subito quella frase, chiedendo scusa ai siciliani".

"In effetti poi s'è visto che non era finito tutto. Dopo Falcone e Borsellino altri magistrati hanno proseguito il loro lavoro."

"Sì," disse il commissario, "anche se la loro straordinaria capacità di intuire e capire è rara da trovare. La cosa più bella di quei due era la possibilità di capire il sistema di pensiero mafioso senza essere mafiosi; secondo me erano arrivati al punto di poter leggere nel pensiero dell'uomo d'onore che gli stava davanti. Per questo li temevano più di ogni cosa, per questi li hanno dovuti ammazzare: non potevano che toglierli di mezzo."

Lo scrittore annuì: "Quelli sanno riconoscere bene qual è il vero pericolo. Quando, da analfabeti che erano, cominciarono a leggere si resero conto dei pericolo rappresentato da certi giornalisti e fecero fuori Mario Francese, il primo ad aver scritto di Totò Riina con nome e cognome".

La cassata era finita, le minne pure. Filippo stava aspettando che quei due signori i quali avevano parlato fitto fitto per tutta la sera — evidentemente di cose molto serie, se il commissario Montalbano non aveva fatto commenti sui piatti che aveva preparato — se ne andassero. In ogni caso lo sbirro aveva mangiato tutto senza lamentarsi, e questo era un buon segno.

I due chiesero il conto, Filippo lo portò accompagnato da due bicchierini di passito. Lo scrittore bevve e disse: "Io domani torno a Roma. Tu non hai mai pensato di farti trasferire lì e venirci a lavorare? Livia sarebbe contenta, ti avvicineresti a casa sua".

"Per carità, io sto bene a Vigàta. Ogni tanto il questore tenta di propormi per una promozione e un trasferimento, ma finora sono sempre riuscito a dissuaderlo. Io qui ormai conosco la gente, capisco i loro codici di comportamento. Altrove chissà."

"Veramente dalla conversazione di stasera mi pare che tu abbia le idee abbastanza chiare sull'Italia intera."

Il commissario sorrise: "Basta poco. L'altra sera ho pensato proprio alla situazione di questo strano paese guardando in tv un vecchio film dei tempi del fascismo, Scipione l'africano. Si vedeva di tutto: gli antichi romani e i pali della luce e del telegrafo, il centurione con l'orologio al polso, ci mancava solo l'ombrello che mi ero perso il giorno prima. Stava tutto dentro quel film, e l'Italia se ci rifletti bene, è la stessa cosa: un grande calderone dove dentro bolle di tutto, e ogni tanto esce fuori qualcosa. Adesso si parla dei contatti e della collusione tra mafia e potere ma guardami bene in faccia: io e te, che sei pure più vecchio di me, l'abbiamo sempre saputo, ci abbiamo sempre creduto. Dov'è la novità?".

Lo scrittore non disse nulla, tra siciliani certe volte funziona così. Si alzò, infilò la giacca e uscì. Montalbano lo seguì in silenzio, facendo solo un cenno di saluto a Filippo. Fuori l'aria era fresca, e si sentiva l'odore del mare.

"Ciao, e grazie," salutò lo scrittore.

"Alla prossima," rispose Montalbano.

Fonti

Andrea Camilleri, La forma dell'acqua, Sellerio

Andrea Camilleri, Il cane di terracotta, Sellerio

Andrea Camilleri, Il ladro di merendine, Sellerio

Andrea Camilleri, La voce del violino, Sellerio

Andrea Camilleri, La concessione del telefono, Sellerio

Andrea Camilleri, Un mese con Montalbano, Mondadori

Conversazioni con Andrea Camilleri

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