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Cinema/Sliding Doors - Del perduto amore - Gallo cedrone

Paola Casella

 

Sliding Doors, scritto e diretto da Peter Howitt. Con Gwyneth Paltrow, John Hannah, John Lynch e JeanneTripplehorn

Helen (Gwyneth Paltrow), giovane PR londinese, raggiunge le porte scorrevoli della metropolitana proprio mentre stanno per chiudersi. In quell'istante la sua storia si sdoppia: una Helen riesce a infilarsi nello spiraglio, l'altra, come se avesse inforcato il bivio di un'esistenza parallela, perde la corsa e va incontro a un futuro alternativo. Le due vicende scorrono in contemporanea, qualche volta sfiorandosi, come succede alla gente che manca quotidianamente la possibilita' di incontrarsi. Anche gli incontri di Helen rimangono sullo sfondo o balzano in primo piano a seconda della loro collocazione -- geografica e sentimentale -- in ciascuna delle due vite parallele.

Sliding Doors e' una commedia filosoficamente romantica, o una love story romanticamente esistenzialista, che pone quesiti universali: e' il destino a decidere per noi, anche in tema di rapporti umani? Puo' un evento apparentemente secondario condizionare tutta la nostra storia? Niente a che vedere con la profondita' di Kieslowski o l'intensita' espressiva di Resnais, ma l'intreccio e' piacevole (anche visivamente), le due vicende combaciano senza sforzo (e senza creare confusione), l'arco narrativo e' completo (per cui se ne esce soddisfatti, come da un pasto leggero, ma che ha seguito la giusta sequenza delle portate).

Nel genere Quattro matrimoni e un funerale i toni si mantengono lievi, le battute gradevoli, le atmosfere minimaliste, il cast di contorno (angloamericano, come in Quattro matrimoni) discretamente anonimo: nessuno degli interpreti maschili possiede la star quality di Hugh Grant.

Gwyneth Paltrow, che invece ha star quality da vendere, e' una Helen dignitosa ma accessibile, assai piu' rassicurante della rivale in carriera Lydia (Jeanne Tripplethorn, l'altra interprete americana del film). Ma il sottotesto rimane postfemminista: se come donna credi di meritare di meglio, non subire il corso degli eventi, non esitare a chiedere di piu'. Chi si accontenta gode, cosi' cosi'.

 


Del perduto amore, diretto da Michele Placido, scritto da Michele Placido e Domenico Starnone, interpretato da Giovanna Mezzogiorno, Piero Pischedda, Fabrizio Bentivoglio, Enrico Lo Verso, Sergio Rubini, Rocco Papaleo

Forse e' troppo pretendere da Del perduto amore, scritto e diretto da Michele Placido, la valenza di memoria storica. Dopotutto, la vicenda della maestrina Liliana Rossi (Giovanna Mezzogiorno), arrivata in Lucania dal nord per insegnare agli esclusi -- le donne, i poveri, i disadattati -- e' vista interamente attraverso lo sguardo retroattivo di Gerardo (Piero Pischedda), un prete che aveva conosciuto Liliana da ragazzo. L'Italia di fine anni '50 appare quindi tracciata con l'assenza di mezzetinte e le nette divisioni che fanno parte dei ricordi adolescenziali: i buoni e i cattivi, Liliana come Madonnina impiccata, il gerarchello fascista (Sergio Rubini) come bullo di quartiere. Una suddivisione dei ruoli da teatro goldoniano -- lo zio di Liliana (Lorenzo Gentile) e' un misogino Pantalone, il sindaco (Rocco Papaleo) un Pulcinella opportunista -- resa accessibile solo dalla recitazione magistrale degli attori, che restituisce credibilita' al semplicismo del copione (dove il ruolo piu' complesso e ambiguo e', non a caso, quello del padre di Gerardo, interpretato da Fabrizio Bentivoglio, l'eroe borghese preferito da Placido).

Il pregio principale del film e' dunque il lavoro corale dell'intera compagnia, comprese le figure di contorno interpretate dagli attori del teatro stabile di Matera, modulato dal capocomico Placido (che riserva per se' il brevissimo ruolo di Gerardo adulto), e capitanato da Giovanna Mezzogiorno che ce la mette tutta, proprio come Liliana. La regia si mantiene onesta e trasparente, e il risultato e' un quadro naif che riesce ad essere commovente proprio nelle sue ingenuita', che rispecchiano quelle della protagonista.

Peccato pero' che Del perduto amore non riesca o non si proponga di raggiungere la statura di documento storico sugli anni meno documentati del nostro passato prossimo. Peccato anche che il senno di poi (di Placido, oltre che di Gerardo ormai cresciuto) ne colori tutta la vicenda.


Gallo cedrone, diretto da Carlo Verdone, scritto da Carlo Verdone con Leo Benvenuti e Piero De Bernardi, interpretato da Carlo Verdone e Regina Orioli

E' incredibile la varieta' di pubblico che corre a vedere un film di Verdone: famiglie al completo, bande di teenager, mamme con figli, nonni con nipoti, coatti, parioline, coppie che lo fanno strano e coppie che lo fanno solo per abitudine, ladri, artisti e figli di, come direbbe Baglioni, analogo pifferaio magico della cultura popolare italiana. Carlo Verdone e' uno dei pochi registi a trascinare nelle sale uno spaccato dell'Italia contemporanea eterogeneo e universalmente ben disposto ad accogliere a braccia aperte l'ultima fatica del suo beniamino.

Dispiace, allora, che Verdone sfrutti cosi' male il suo mass appeal, offrendo al pubblico una commedia sciatta e inconcludente come Gallo cedrone, dove ripropone per l'ennesima volta le stesse macchiette, le stesse gag gia' viste nei suoi film precedenti (per non parlare del cinema in generale), che appaiono noiose e tristi perche' mancano totalmente di convinzione ancora prima che di mordente.

La trama, quantomai raffazzonata, vede protagonista Armando Feroci (Verdone, naturalmente), gallo cedrone eternamente allupato, raccontato in flashback da quelli che l'hanno conosciuto --la moglie, la figlia, gli amici del bar, le donne che ha abbordato -- mentre lui e' prigioniero di un gruppo integralista islamico, per motivi che scopriremo solo alla fine. L'incontro con la cognata Martina (Regina Orioli), una ragazza cieca appena maggiorenne (se Verdone continua a scegliersi partner sempre piu' giovani il suo prossimo film sara' la storia di un pedofilo) riuscira' a risvegliare in lui un elementare senso di responsabilita' e una parvenza di altruismo.

Come dire: il bullo borgataro di Un sacco bello (o di Viaggi di nozze), animato da rivalita' col fratello (come in Al lupo, al lupo) si innamora di una disabile (come in Perdiamoci di vista: perfino la recitazione della Orioli ricorda quella di Asia Argento, modulata sul registro della catatonia). Tutte ripetizioni perdonabili, se non proprio riconducibili a uno stile narrativo, fintanto che le gag sono fresche e innovative. Ma in Gallo cedrone prevalgono la ripetitivita', il ricorso forzato al gergo dialettale, la mascherata carnevalesca, la smorfia, il tormentone.

Eppure Gallo cedrone ha i suoi momenti, quelli in cui la vis comica di Verdone riesce ad emergere dalla melassa, privilegiando la satira alla macchietta, la scenetta surreale alla caricatura piaciona: basti pensare alla gag dell'agente immobiliare, recitata come un pezzo di teatro dell'assurdo; allo scambio di battute (e gesti) con la figlia, che adotta il registro patetico-grottesco di un Ugo Tognazzi o di un Walter Chiari; a certe espressioni degne di Sordi o di Toto' ("Incedo?"), a certe frasi che sono il dado di un carattere (Armando a Martina: "C'hai una classe innata, porca mignotta"), fino ai dettagli comici quasi subliminali (la maglietta firmata "Volentino" di uno degli amici coatti, che si intravvede appena in una scena di gruppo).

L'ultima scena, brutalmente appiccicata al termine della storia, quasi quasi riscatta tutto il film: al di la' di qualunque riferimento all'attualita', il comizio finale dell'Armando politico che vuole trasformare il Tevere in una superstrada ("Ma 'sto fiume, ce serve o nun ce serve? Se nun ce serve, levamolo"), e' geniale ed esilarante. E' questo il Verdone in cui l'Italia si riconosce, quello che ha il coraggio di rappresentare tutto da solo uno spaccato della societa' contemporanea, quello che non si limita a chiamare il pubblico a raccolta, ma si impegna a lasciarlo soddisfatto.


 

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