Alla fine di settembre, ministri delle finanze e governatori delle banche
centrali di tutto il mondo convergeranno su Washington, dove si ripeterà
il rituale dei vertici annuali del Fondo Monetario Internazionale e della Banca
Mondiale. Anche i massimi funzionari del Gruppo dei Sette grandi del mondo si
riuniranno nello stesso periodo, e se di una cosa possiamo essere certi,
è che tutti questi ministri ci propineranno una serie di dichiarazioni
retoriche volte a ricostruire quella fiducia nell'economia mondiale
ripetutamente scossa, nelle ultime settimane, dalle crisi asiatica e russa.
Ma le parole non potranno bastare. La crisi si protrarrà ancora a lungo,
e la crescita economica globale è destinata quasi certamente a
rallentare, scendendo forse fino al due per cento, un tasso più che
dimezzato rispetto a quello previsto soltanto pochi mesi fa.
In Europa, nonostante le ottime prestazioni fornite dalle economie francese e
tedesca nei primi sei mesi dell'anno in corso, sarà sempre più
difficile sostenere una forte ripresa economica, quando tante importanti banche
occidentali devono affrontare le perdite subite in Russia e in Asia, quando
tanti consumatori sono preoccupati per il posto di lavoro e le
difficoltà economiche, e quando i fragili mercati azionari e mobiliari
riflettono l'ansietà e l'incertezza di una situazione che nessuno -
né la Bundesbank né la Federal Reserve, né la Casa Bianca
né l'FMI - sembra in grado di stabilizzare. La crescita economica
sarà modesta anziché forte, e la disoccupazione si
manterrà a livelli inaccettabili, specie in regioni come l'Italia
meridionale e la Germania orientale.
In Italia le speranze del governo, che contava su un tasso di crescita del 2,5
per cento nel 1998, appariranno ben presto troppo ottimiste: ritengo più
probabile una crescita del 2 per cento. Benché meno esposto di Francia e
Germania alle crisi di Russia e Asia, il Paese non è immune dagli
effetti psicologici che influenzano fortemente le misure di sostegno del
mercato, e il modo in cui le imprese decidono di investire i loro capitali.
Alla fine di settembre a Washington, la retorica dei ministri del G-7, per
quanto benevola e fiduciosa potrà sembrare, sarà probabilmente
soffocata dalle azioni intraprese dagli investitori globali; molti dei quali,
in questo scorcio d'estate 1998, assomigliano a conigli spaventati che non
sanno dove rifugiarsi. La verità è che dal luglio 1997 - quando
la moneta della lontana Thailandia crollò, innescando la crisi asiatica
- l'economia mondiale è rimasta assai più fragile di quanto siano
disposti ad ammettere i membri dei vari governi. E gli investitori hanno paura.
Negli ultimi quindici mesi, i problemi dell'Asia sono andati progressivamente
peggiorando; le svalutazioni competitive scatenatesi tra le "economie della
Tigre" un tempo potentissime hanno prodotto un impatto pericolosamente
negativo; i rimedi tradizionalmente praticati dall'FMI non sono riusciti a
migliorare la situazione; infine, nonostante tutta la retorica in senso
contrario, sono pochissime le economie asiatiche che hanno saputo gestire
adeguatamente problemi strutturali e fortemente radicati quali un sistema
bancario poco sorvegliato, un eccesso di sofferenze, la corruzione dilagante,
un capitalismo selvaggio e una recessione che, in alcuni paesi, potrebbe
più adeguatamente essere definita come depressione. Tempo necessario
alla ripresa asiatica: almeno due anni.