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Aspettando il Tribunale Internazionale (pagina 3)

Isabella Angius

Ripensare le transizioni alla luce di un nuovo diritto sovranazionale è una grande sfida, per le democrazie recenti o consolidate. Non si potranno più seppellire del tutto le memorie, e le vecchie democrazie potrebbero cogliere l'occasione per immaginare politiche estere meno indifferenti al crimine: politiche che sappiano anticipare o accompagnare i giudici, arrestando ad esempio Mladic e Karadzic, invano reclamati dal tribunale dell'Aja.

Perché una Corte Penale Internazionale Permanente?

A Roma tra il 15 giugno e il 17 luglio del 1998 cinquemila delegati di 186 paesi e 260 organizzazioni non-governative hanno discusso il trattato istitutivo del Tribunale penale internazionale.

La Corte è il frutto dell’evoluzione che hanno avuto i tribunali militari internazionali di Norimberga e Tokyo, e soprattutto è il risultato della recente esperienza dei due Tribunali internazionali "speciali", il Tribunali dell'Ex Jugoslavia e per il Ruanda. Tale progetto è rimasto sospeso per quasi un cinquantennio, paralizzato dalle strategie politiche e dai rapporti di forza instaurati dalla guerra fredda.

Nel 1993 l'Assemblea generale delle Nazioni Unite diede mandato alla Commissione di Diritto Internazionale di presentare una nuova bozza di Statuto della Corte. Nel 1994 viene nominato il Comitato Preparatorio. L’ultima sessione del comitato medesimo si è conclusa a New York nell’aprile del 1998.

E' fondamentale che si parli di tribunale "internazionale". Questa accezione, infatti, ha la specifica finalità di rompere la spirale della vendetta e della rappresaglia facendo ritenere in vari casi preferibile la giurisdizione internazionale a quella nazionale. Il rischio è che lo Stato territoriale, quello che da più vicino ha vissuto il dramma del conflitto o della violazione sistematica dei diritti umani di cui si tratta, giudichi con minore imparzialità i responsabili dei crimini. La storia, anche recente, ci mostra che quando è il nuovo regime o la fazione vincitrice dal conflitto a giudicare i crimini commessi dalla parte avversa, gli strumenti di giustizia finiscono per essere piegati a mezzi di vendetta.

Gli esempi di trattati internazionali che pongono il principio della "giurisdizione universale," sono numerosi. Il principio stabilisce che tutti gli stati aderiscano alla Convenzione hanno "l'obbligo giuridico" di processare o estradare i presunti autori dei crimini individuati dalla Convenzione (principio dell`aut dedere aut judicare). Questa norma è rimasta sostanzialmente disattesa. Solo recentemente e in alcuni casi questa norma ha trovato applicazione. Si tratta tuttavia anche in queste sporadici episodi di interventi degli stati fondati su un interesse "nazionalistico". Per esempio, l'interesse della Italia a punire gli autori dei crimini commessi negli anni '70 e '80 dalla dittatura argentina è dato dalla nazionalità di alcune delle vittime di quel regime, oltre che il carattere di crimine contro l'umanità che hanno rivestito le sparizioni forzate e tortura di migliaia di persone. L'Italia non è intervenuta, tuttavia, al fine di perseguire quegli argentini resisi colpevoli di crimini nei confronti di loro connazionali, né di intervenire a punire quei ruandesi resisi colpevoli di genocidio a danno di altri ruandesi.

L'esistenza di un Tribunale internazionale permetterebbe di esercitare l'azione penale anche quando nessuno stato ha interesse a farlo. I crimini che rientrerebbero nella competenza della Corte penale internazionale sono crimini internazionali proprio perché il loro carattere sistematico e l'entità della offesa da essi recata non toccano solo la sfera personale degli individui, ma attentano all'umanità stessa, violano beni considerati essenziali per l'intera comunità mondiale.

Spesso il carattere "internazionale" di questi crimini non è legato solo alla gravità di essi, ma anche al dato geografico, ossia al fatto di aver esplicato i propri effetti in più stati o alla circostanza che i sospetti, i testimoni, le vittime si trovano sparsi in paesi diversi. Per perseguire tali crimini le capacità di indagine di un singolo stato sono il più delle volte insufficienti e , comunque, si scontrano con l'opposizione degli altri stati a subire ingerenze territoriali.

Non basta un tribunale penale internazionale: occorre che esso sia permanente, vale a dire precostituito rispetto ai fatti criminosi su cui dovrà giudicare. L'alternativa è quella di istituire di volta in volta dei tribunali speciali, ognuno con le proprie regole, esponendosi al pericolo di indebolire il messaggio di giustizia e d'eguaglianza di cui ogni corte dovrebbe essere portatrice. La presenza di un Tribunale Internazionale Permanente di cui fosse assicurata l'indipendenza eviterebbe che il perseguimento dei criminali avvenisse sulla base di criteri eminentemente politici e discrezionali.

Tra i principi fondamentali in materia di diritto penale, c’è quello per cui non si può essere puniti se non per un fatto riconosciuto come reato al momento del suo compimento. Questo principio ha come sua conseguenza diretta che la punizione di un crimine richiede la presenza di un giudice "precostituito". Resta tuttavia il fatto che per ritenere un soggetto penalmente responsabile occorre che egli sappia non solo che esiste una norma che sanziona un certo comportamento, ma anche che esista un giudice incaricato di applicare quella norma. Ad una giustizia internazionale parzialmente "a posteriori", come quella dei due tribunali speciali, non può che essere preferita l'istituzione di un tribunale internazionale permanente.

Per quanto siano lontani nelle motivazioni e nelle accuse, il caso Ocalan e il caso Pinochet si assomigliano nel metodo. Da un lato è lo Stato italiano che è chiamato a decidere la sorte di un cittadino turco (o curdo?), dall'altra è lo Stato inglese che ha in mano la sorte di un cittadino cileno. In entrambi i casi la giustizia trabocca dal proprio Stato e acquista una dimensione internazionale seppure per concedere impunità o per procedere a una sanzione.

Ma per la verità non è che su questo piano possiamo appellarci a norme universalmente condivise. Il leader curdo, ad esempio, chiede asilo politico sulla base dell'articolo 10 della nostra Costituzione. Non c'è dubbio che ogni perseguitato politico può appellarsi tranquillamente a questo diritto. Anzi, poiché la nostra Costituzione parla di un diritto che deve essere concesso allo straniero al quale sia impedito nel suo Paese l'effettivo esercizio delle libertà democratiche consentite dalla nostra Costituzione, i candidati all'asilo politico potrebbero moltiplicarsi all'infinito. Non è molto facile infatti trovare nei Paesi nordafricani e del Medio Oriente regimi che garantiscono libertà analoghe alle nostre. Una sentenza della nostra Corte costituzionale ha inoltre vietato l'estradizione di uno straniero anche se non gode del diritto di asilo, qualora nel suo Paese viga la pena di morte che è bandita dalla nostra Costituzione. Da questo punto di vista l'estradizione di Ocalan in Turchia è oggettivamente impossibile. La fretta con cui il governo turco si è affrettato a promettere l'abolizione della pena di morte non appena il capo dei curdi gli venisse consegnato, serve solo a dimostrare l'accanimento più che sospetto che Ankara dimostra nel voler catturare a tutti i costi la sua preda.

Bisogna dunque prendere atto che esistono ormai una serie di convenzioni internazionali promosse negli ultimi trent'anni, che impongono la punizione o la consegna dei terroristi catturati dentro uno degli Stati firmatari. Le convenzioni mirano a colpire soprattutto i responsabili dei fatti più gravi di terrorismo come il dirottamento di aerei e di navi o la presa di ostaggi. E tuttavia anche per quanto riguarda le accuse di terrorismo esistono forti margini di discrezionalità nel concedere l'estradizione. Basterebbe a questo proposito ricordare la copertura data dallo Stato francese ai non pochi responsabili dei nostri anni di piombo mai estradati nonostante le condanne dei tribunali italiani.

In realtà troppi fatti portano verso la creazione di un diritto penale al di sopra degli Stati. Al centro delle dispute, infatti, è la possibilità di una reale indipendenza dell'organismo, intesa come capacità di iniziativa autonoma, senza possibile "veto" da parte del Consiglio di Sicurezza o dei singoli stati. In questa direzione spingono le stesse società sempre più multietniche al loro interno che costituiscono, una sempre più forte opinione pubblica internazionale all'interno degli stessi Stati nazionali. La denuncia, che arriva da varie associazioni come Amnesty International e dal partito Radicale italiano è chiara e riguarda la necessità di riconoscere l'universalità della giurisdizione e che la sua entrata in azione non venga vincolata a consensi statuali degli stati parte della convenzione e di quelli che ne hanno ratificato il trattato. Se, dunque, l'azione del TPI verrà vincolata da una serie di veti nazionali, si lascerà nelle mani dei criminali l'ultima parola impedendo la possibilità di processarli per i crimini commessi. A questo proposito, però è necessario denunciare l'indisponibilità di alcuni Paesi a rendere davvero libero il Tribunale. In questo senso sia gli USA che la Francia sono i capifila di uno schieramento che preferisce un tribunale controllato dal Consiglio di Sicurezza. Gli USA riconoscono l'universalità della giurisdizione del TPI solo per quanto riguarda il crimine di genocidio, mentre hanno negato la possibilità di includere senza clausole particolari, i crimini di guerra e i crimini contro l'umanità. Anche Cina e Russia (anch'essi membri permanenti del consiglio delle Nazioni Unite) sia pure senza dichiarazioni ufficiali, sembrano vicine a questa posizione. C'è però anche un gruppo di paesi intenzionato a lavorare per avere un Tribunale ancora più debole, o magari nessun tribunale. India, Pakistan, Egitto, Cuba, Colombia, Iran, Iraq e Algeria sembrano decisi a non consentire nessun'intromissione nei meccanismi della loro giustizia. A credere nell'organismo ci sono invece cinquanta Stati, e questo dovrebbe permettere un filo di ottimismo sulla nascita del Tribunale. L'Europa è entusiasta del progetto, e così Canada, Australia e Nuova Zelanda.

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