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Lettere della giovinezza (pagina 2)

Giorgio Napolitano su Vittorio Foa

 

Impressionante è l'ampiezza e varietà di interessi, la profondità di applicazione e, per campi come l'economia, la disciplina di studio sistematico, che contrassegnano di anno in anno le letture di Vittorio, le stesse, attentissime richieste di libri ("la cosa più difficile da ottenere qui dentro" - scriveva nell'aprile del '39 - "sono i cataloghi"). Si pone limiti ed è selettivo in particolar modo nelle richieste di romanzi: tra quelli americani che ha occasione di leggere, Furore di Steinbeck suscita la sua drastica reazione per il "socialismo arcaico" che ne ispira la polemica apparentemente sovversiva. E menziono quella lettera del maggio del '40 anche per il profondo senso storico della contrapposizione, al socialismo di Steinbeck, di quel "socialismo dialettico", di impronta marxista e leninista, di cui pure Foa non era certamente seguace. "Il grande merito" - sono sue parole - "del socialismo dialettico è stato quello di far piazza pulita di ogni criterio moralistico e sentimentalistico della lotta di classe: sebbene la sua filosofia generale fosse radicalmente sbagliata, esso riuscì a liberare potenti energie proprio col presentare i dolori del mondo non già come frutto di un arbitrio malvagio ma come derivanti dalle contraddizioni implicite ad un sistema politico economico in necessaria evoluzione secondo una legge preordinata (mostrando anche in ciò una grande analogia col calvinismo il cui dogma predestinazionista costituì il più potente impulso all'operosità umana)."

Se mi si consente una notazione autobiografica, nelle citazioni dei romanzi americani di maggior successo a cavallo tra gli anni '30 e '40 - di autori come Steinbeck, Dos Passos, Faulkner, introdotti in Italia e anche tradotti da Elio Vittorini - trovo uno degli addentellati tra la formazione di Foa e degli antifascisti della sua generazione, e la formazione di generazioni più giovani della sua, che si affacciarono all'antifascismo negli ultimi anni del regime (io ne fui appena partecipe in extremis). E accanto a quel filone di realismo americano a sfondo sociale o socialisteggiante, e ad altre letture e mode letterarie, potrei richiamare "addentellati" di natura assai diversa che accomunarono antifascisti non solo di diverse generazioni ma di diverse tendenze ideali e politiche. Per quanti Benedetto Croce fu un punto di riferimento obbligato nel consenso e nel dissenso, per le sue opere filosofiche - con cui Foa si cimentava "monologizzando alquanto", ad esempio, intorno ai saggi giovanili sul materialismo storico e sull'economia - e per le sue opere storiche (tra le quali Vittorio mostrò di prediligere la "Storia del Regno di Napoli")? E a quanti della mia generazione furono trasmessi impulsi alla lettura di testi coltivati nei circuiti antifascisti del carcere e del confino, dal Silvio Spaventa della raccolta "Dal 1848 al 1861", al Greenfield di "Economia e liberalismo nel Risorgimento" (sto citando libri che ho ritrovato nelle Lettere di Vittorio Foa)?

Come si sa, Vittorio si applicò con particolare intensità agli studi di economia, con lo stimolo e il sostegno di Ernesto Rossi; e credo che quegli studi gli risultarono preziosi per tutto il successivo corso del suo impegno politico, quale si manifestò per molti anni specificamente nel sindacato. Sono tentato di parlarne, ma lo farò solo per brevi cenni, sulla base di qualche mio ricordo personale, e seguendo la linea che l'Introduzione a queste Lettere ci suggerisce. Foa dice di sé ovvero del movimento di "Giustizia e Libertà", che negli anni del carcere aveva incontrato nelle straordinarie figure di Riccardo Bauer ed Ernesto Rossi: "il suo realismo rifiutava l'eterno vizio politico di dire senza fare, le ideologie astratte dagli uomini e dalle donne viventi e al tempo stesso rifiutava lo spicciolo empirismo, chiedeva disegni e progetti". Ebbene, avendo assunto la responsabilità dell'Ufficio Economico della CGIL, egli mise - non molti anni dopo gli studi del carcere - la sua cultura economica e la sua sensibilità per "i disegni e i progetti" al servizio di un'iniziativa sindacale di grande significato: il Piano del Lavoro proposto da quel Giuseppe Di Vittorio, al cui esempio e insegnamento ha dedicato nei suoi libri recenti pagine molto belle, giungendo a definirlo il suo "solo maestro di politica".

Il Piano del Lavoro del 1949 rappresentò "il tentativo" - sono parole di Foa ne Il Cavallo e la Torre - "di spostare l'asse politico dallo scontro sociale immediato a una proposta di sviluppo valida per l'intero paese" e valse "anche come affermazione culturale di una linea Keynesiana in un ambiente, quello della sinistra, ancora chiuso sull'economica classica (attraverso il marxismo) oppure neoclassica". Ricordo ancora, per avervi partecipato, da giovane osservatore politico, e per esserne stato profondamente impressionato, la Conferenza nazionale della CGIL sul Piano del Lavoro che si svolse a Roma nel febbraio del 1950, con una sorprendente (per l'epoca) partecipazione di rappresentanti del mondo accademico, tecnico ed economico: Vittorio ne era stato uno degli artefici.

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