Ricordare Zeri Roberto D'Agostino Federico Zeri, 77 anni, grande critico d'arte, è morto d'infarto il 5 ottobre nella sua casa di Mentana, vicino a Roma.
"Caffe' Europa" lo ricorda pubblicando - per gentile concessione dell'autore e del settimanale "l'Espresso", che lo pubblica nel numero in edicola - un appassionato ritratto di Roberto D'Agostino, l'ultimo articolo scritto dal professore e una sua importante intervista, rilasciata all'indomani dell'uscita della sua autobiografia, apparsa su "Reset" nel maggio 1995.
Vorrei, non altrove ma qui, la resurrezione di Federico Zeri. Se è chiedere troppo, almeno fare i morti meno tali. Quindi interrogarli per riuscire a tirare avanti tra i vivi che non parlano, non scrivono, non telefonano. Zeri parlava, parlava, e quanto telefonava... Aveva un canale aperto, sempre, con l'orecchio del Grande Vecchio e la bocca del Malpensante. Capace di tutto e disposto a qualunque survoltaggio perché sapeva bene, d'accordo con Oscar Wilde, che "la vita stessa è arte e ha uno stile come quelle arti che tentano di ritrarla".
Ricordare Zeri. Ci vorrebbe del pudore nel logorarlo ancora con altre testimonianze, necrologie, dichiarazioni. Del Grande Eccentrico, non resta che la superficie fragilissina di un nastro, di un video, di un foglio di carta. Perdendomi per l'ultima volta nel sepolcro amniotico della sua casa-museo-convento di Casali di Mentana - dove abbiamo "vissuto" sei mesi del 1990 buttando giù a quattro mani "Sbucciando piselli", un libro-conversazione stampato dalla Mondadori -, ho abbastanza in me immaginazione sonora e voci radicate per evocarmi i suoni e i tuoni del Professore. Ma qualcuno ha girato la manovella della vita e si è eclissato... Resta Zeri che ricorda Zeri.
Si entra dunque nel tunnel della memoria, slalomando saloni solenni, e fra i legni chiari e gli arazzi e gli scaffali colmi della bilioteca e i libri sui tavoli e il domestico Giulio, viene avanti il capoccione di Socrate. Dietro il mammozzo di marmo c'è la zazzera bianca del Professore, seduto furibondo e arzillo con l'abito da surfer californiano in pensione (camicione hawaiano sotto la giacca a quadrettini piccoli piccoli e gli occhiali leggeri). "Permette un attimo?, s'affanna afferrando la mazzetta dei quotidiani. L'occhio bordeggia veloce sulla prima pagina del "Corriere della Sera". "Qui che c'è scritto? "I dolori della principessa Diana"...". Tonante come una carica di tritolo, la voce del Professore prorompe in un canto dal battito perfetto: "Oh Diana, alza la sottana...". Nella pausa, faceva in tempo a passare dallo stornello al trattatello: "La vera aristocrazia non è mai Kitsch. O se lo è, è "high-brow" Kitsch, un cattivo gusto di altissimo livello. Quello dello Scià di Persia lo chiamavo "middle-brow", cioè medio. C'era qualcosa di eccessivo in Reza Pahlavi.
Per esempio, trovavo ridicolo che in un paese di altissima tradizione culturale come l'Iran, quest'uomo avesse un palazzo reale che era completamente in stile francese, dai mobili agli arazzi. E poi quella corona che si era fatta fare a Parigi da Van Cleef & Arpels!. In Italia, lo definirei "Kitsch bidé", vedi Maria Beatrice di Savoia che "si arrampica" su Maurizio Arena. Poi, in certi casi, la monarchia non è più Kitsch, è qualcosa di molto serio, come la personalità di Elisabetta II. Io la considero una vera e propria professionista ad altissimo livello; una donna durissima che non deflette di una virgola da quello che prevede il suo rituale". Punto. E da instancabile giocoliere, navigatore solitario di cultura, si infiammava di nuovo come i legnetti di sandalo che usava per appiccare l'incendio ai suoi mezzi toscani. Sul ritmo di una mazurca, gorgheggiava: "Da bambina mi reggevo a una stampella, da ragazza avevo solo una mammella, mi sfottevano perché non ero bella...".
Pagina 1,2
|