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Edvard Munch: un Urlo percorre il Novecento

Carlo Alberto Bucci

 



 

Le immagini qui riprodotte sono tratte dal catalogo della mostra per gentile concessione di Skira Editore

Passeggiavo con due amici quando il sole tramontò. Il cielo divenne all'improvviso di un rosso sangue … I miei amici proseguirono il cammino, mentre io, tremando ancora per l'angoscia, sentii che un grido senza fine attraversava la natura". Così scriveva Edvard Munch nel 1892 raccontando un attimo di sofferta esperienza privata. Le sue parole ricalcano esattamente quell'immagine che, nello stesso anno e con maggiore immediatezza, l'artista fermava sulla carta dipingendo Il grido.

Del Grido (anche detto L'urlo) Edvard Munch negli anni seguenti realizzò altre versioni. Quella conservata Munch-museet di Olso, un olio su cartone del 1893, è esposta attualmente al Museo d'arte moderna (Villa Malpensata) di Lugano: è il pezzo forte di una mostra che, fino al 13 dicembre, propone in tutto 74 oli, più molte xilografie, del maestro norvegese (1863-1944). Si va da prove della metà degli anni Ottanta, in cui l'artista risente del naturalismo scandinavo nel gioco di una luce mattutina (Ragazza sul bordo del letto) oppure riflette, tornato dal canonico viaggio a Parigi, sulla scomposizione di luce e colore di matrice impressionista (Giorno di primavera sul viale Karl-Johan). E si arriva quasi subito alle prove immense di dieci anni dopo, frutto di uno stile originalissimo sebbene debitore della sintesi Jugendstil: quel gruppo compatto di opere, singole e autosufficienti, dedicate al ciclo di vita, morte e amore (Il grido, Il bacio, Gli occhi negli occhi, Vampiro, Danza della vita) che Munch espose tutte insieme come Fregio della vita.

Ma la mostra tiene conto anche dei dipinti eseguiti da Munch nel Novecento: e propone ancora riflessioni profonde sul privato dell'artista (Autoritratto all'inferno o La morte di Marat) e sul sociale (una sorta di grottesco e perdente Quarto stato appare il suo corteo di Lavoratori sulla via di casa del 1913-14).

Tra tutte, Il grido è indubbiamente l'opera più nota. Con quel suo Grido Munch, più d'ogni altro, ha dato voce e colore al rantolo muto del Novecento. Nonostante sia una gelida icona che incarna spietatamente la condizione esistenziale della modernità, Il grido ha un successo di pubblico straordinario. Gode tutt'oggi di una fama tale da essere stato oggetto, addirittura, di un furto d'arte a scopo d'estorsione. Ed è così ampia la sua celebrità da venir continuamente fagocitato dal merchandising. È vero che la "funzione" originaria dell'opera era quella – sottolinea Rudy Chiappini, il curatore della mostra – di far sì che, sgorgando irrefrenabile dal profondo dell'artista, il grido potesse trasformarsi, come di fatto è avvenuto, in un urlo universale: collettivo. Ma poteva immaginare Munch che quello stesso fiato sarebbe servito a riempire una versione in gomma del Grido? Gli eredi dell'artista stanno facendo di tutto perché il "simpatico" palloncino gonfiabile sia tolto dal commercio. Rimane il fatto che l'industria del kitsch è capace di trarre moneta anche dalle espressioni di sofferenza, anche da quelle più autentiche e a noi più vicine nel tempo.

Nonostante sia stato dipinto più di cent'anni fa, Il grido e, con esso, l'opera tutta di Munch, appartiene alla contemporaneità. Non è un caso, infatti, che l'artista norvegese sia considerato uno dei maestri del Novecento, nonostante i suoi lavori più rilevanti e originali abbiano visto la luce alla fine del secolo scorso. Slegato – sebbene non isolato – rispetto alle correnti e ai movimenti con i quali si trovò a convivere, Munch ha comunque segnato col suo lavoro la nascita e l'affermarsi di quella sensibilità espressionista che è uno dei caratteri fondanti dell'arte del Novecento. Ammirato e adorato, quasi come un padre, da quel gruppo di giovani artisti tedeschi (Kirchner, Heckel, Schmidt-Rottluf) che nel 1902 videro la sua personale di Berlino e che tre anni dopo fondarono Die Brücke (Il ponte), Munch ha contribuito al diffondersi dei molti rivoli espressionistici che dalle avanguardie storiche di inizio secolo si sono staccati per giungere sino ad oggi.

In questo senso, l'attuale e straordinaria esposizione di Villa Malpensata significa non solo un ritorno alla qualità – dopo l'imbarazzante proposta fatta nel 1997 dal Museo di Lugano che ha offerto un'antologica di una figura davvero evanescente, nonostante la misura extra large delle sue imbambolate figure, quale quella di Fernando Botero – ma significa forse concludere, tornando alla radice dell'espressionismo, quel percorso espositivo che di questa tendenza del Novecento ha voluto dare le diverse versioni e interpretazioni (ricordiamo le mostre di Villa Malpensata su Francis Bacon, Emilio Vedova, Emil Nolde, Chaim Soutine o quella su Georges Rouault).

La mostra di Munch è accompagnata da un ampio catalogo, edito da Skira, che raccoglie, oltre a succinte schede delle opere pittoriche esposte, numerosi interventi critici. Øivind Storm Bjerke, Uwe M. Schneede, Reinhold Heller, Gianfranco Bruno, Arne Eggum, Gerd Woll e Sissel Biörnstad, oltre a Rudy Chiappini, hanno affrontato il corpus munchiano sotto il profilo cronologico, o contestuale (il saggio di Schneede sul periodo in Germania e i rapporti con cultura tedesca) oppure tipologico (esclusivamente alla produzione grafica è dedicato l'intervento di Woll). Tratto comune ai vari scritti è l'importanza riservata alla biografia dell'artista, sia nella definizione dello stile nel suo complesso sia nell'analisi delle singole opere. Un occhio di riguardo nei confronti del privato ha tanto più senso avvicinandosi al lavoro di Munch che dal racconto e dal ricordo della propria, luttuosa, infanzia ed esistenza, ha tratto la materia per il suo sguardo retrospettivo sulla realtà ("Io non dipingo quello che vedo, ma quello che vidi" ha detto Munch).


 

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