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Il sorriso di Niccolo'. Storia di Machiavelli

Giancarlo Bosetti su Maurizio Viroli

 

 

Maurizio Viroli
Il sorriso di Niccolo'. Storia di Machiavelli

Laterza, pp.268, L.30.000

L'abbiamo imparato sui banchi del liceo che la vita di Niccolo' Machiavelli fu piuttosto tormentata sul piano delle sue personali fortune politiche. Quando si affronta la lettura del "Principe", incontriamo il minuzioso lavoro degli storici dell'Italia cinquecentesca e dei commentatori, i quali ci informano che quest'uomo trasse molta materia per le sue riflessioni sul potere dalle intricate vicende della penisola in cui fu coinvolto in quanto segretario della Repubblica fiorentina. Una stagione intensa che lo vide protagonista di mediazioni, ambasciate delicatissime, e poi tessitore di alleanze e osservatore delle segrete cose, dai conclavi ai doppi giochi per provocare o impedire guerre. Ma anche momenti dolorosi e terribili, la caduta in disgrazia con i Medici, il carcere, la tortura, una fase della vita in cui l'ex-segretario deve anche ingegnarsi a tirare avanti e litigare con gli amici per il conto della cena.

Tuttavia la prima conoscenza di Ser Niccolo' si dilata poi luminosa sulle sue pagine. E, dopo tutto, il suo genio non fu misconosciuto, se e' vero che non piu' di un giorno dopo la sua morte, il 22 giugno 1527 i fiorentini lo vollero seppellire in Santa Croce e scrissero sulla lapide: "Tanto nomini nullum par elogium". Un modo che voleva essere dignitoso di regolare i conti. Ma decisamente questa lapide non basta a Maurizio Viroli che nella sua appassionata biografia vuole portare alla luce proprio le sconfitte e i tormenti della vita di un uomo politico fondamentalmente infelice e sfortunato, segnato dal principio alla fine da una condizione di inferiorita' sociale che l'abilita', l'onesta', lo studio, l'astuzia nelle relazioni non riuscirono mai a rovesciare completamente.

Certo non mancava al "Machia", come lo chiamavano gli amici, un talento versatile nelle relazioni, anche se non poteva valersi dell'alto lignaggio come l'amico Francesco Vettori (che ne fu protetto lungo tutta la sua carriera, a differenza di Niccolo'). Non era solo, insomma, un uomo profondo quando passava le notti sulle pagine di Tito Livio. Era anche capace di sapere per primo e in netto anticipo su tutti come sarebbe finito il conclave, magari grazie alle soffiate di un servitore, al punto da mandare nella notte una lettera a Firenze con la stessa gioia che oggi proverebbe il giornalista che ha messo le mani sul grande "scoop" della sua vita.

Ma le delusioni furono molto piu' numerose degli "scoop". Quella maestria con cui padroneggiava l'intrico delle mosse del Valentino o cercava di tener fuori Firenze dalla stretta tra il Papa, i Francesi, Venezia, la Spagna, quel suo muoversi su una scacchiera con una dozzina di variabili, che rendevano la politica estera di una complessita' decisamente maggiore di quella che si richiede oggi a Holbrook per la mediazione isarelo-palestinese, non gli bastarono pero' per superare, a' la Richelieu o a' la Fouche', i passaggi di regime.

Quando cade la Repubblica e arrivano i Medici, Machiavelli e' un uomo segnato dalla "lealta'" al regime precedente, e' l'"ex segretario" del Soderini. Finisce in carcere, viene torturato alla carrucola, legato per le mani dietro la schiena, sollevato e lasciato cadere per sette volte, anche se non ha niente da confessare. Gli inquisitori medicei frugano nei conti della sua gestione ma non trovano la minima irregolarita'. Uscira', poi, e vivra' anni al confino in campagna. Il dolore fisico gli passera' ma non la sofferenza atroce del ricordo della liquidazione politica, un comunicato di poche righe nel quale si annuncia che non e' piu' "cancelliere" e non e' piu' "segretario dei Dieci di liberta'". Cerchera' di riconquistare la fiducia dei Medici con atti di sottomissione, ma imparera' sulla sua pelle quello che in realta' era gia' in grado teoricamente di insegnare: sbaglia chi crede "di potere con la pazienza e con la bonta' estinguere i mali omori" e che "la malignita' non e' doma da tempo ne' placata da alcuno dono". Gli viene persino proibito l'accesso a Palazzo Vecchio, il luogo che sentiva piu' suo. Il sorriso di Niccolo', che Viroli scruta in tutte le sue pieghe e che ci guarda dal ritratto di Santi di Tito (e' appeso a Palazzo Vecchio), e' pieno di tristezza, la tristezza della sconfitta, della frustrazione. E' lo stato d'animo che conosciamo bene, in tutti secoli fino ai nostri giorni, del politico "fatto fuori": la solitudine lontano dal palazzo, di chi nel palazzo abitava e che il palazzo dominava con la forza della sua intelligenza.

Non e' il caso di ricordare che quello che fa il "Machia" cosi' diverso da tanti politici drop out e' che la sua reazione non e' stata quella del reduce, memorie e nostalgia. E' vero che la sua vita si e' molto "ingaglioffita" tra la consolazione di amori frenetici partite al "triche-tach" con gli amici del contado all'osteria, caccie ai tordi all'alba e mesti guai famigliari con la Marietta. Sappiamo dalla celebre pagina scritta al Vettori che quest'uomo, "venuta la sera" si spogliava di "quella veste cotidiana, piena di fango e di loto" e si metteva "panni reali e curiali", entrava nelle "antique corti degli antiqui uomini" e si pasceva di quel cibo "che solum e' mio, e che io nacqui per lui". Ma a Viroli interessa, piu' che la compensazione e la consolazione che in questo modo l'animo di Niccolo' trovava nella storia, il fatto che quel lavoro era animato dalla stessa passione dell'uomo politico sconfitto, che quel lavoro non era una medicina curativa per un uomo totus politicus, era invece la pura prosecuzione della stessa malattia. Con il "Principe" nato da quelle notti curiali, l'ex-segretario non cercava la gloria dei posteri, che ha avuto, ma il ritorno a Palazzo Vecchio, che ha avuto solo in parte poco prima di subire un'ultima dura sconfitta.

Infatti il Machia era infine riuscito faticosamente a ottenere qualche modesto riconoscimento e l'incarico di scrivere, a pagamento, le Istorie fiorentine; pote' poi rientrare nel palazzo e partecipare con il Guicciardini alla costruzione della Lega Santa contro Carlo V, ma l'impresa militare fini' male nonostante il Machiavelli si fosse applicato alle strategie militari e a progetti di fortificazione. La Lega e' troppo divisa da interessi contrastanti, si profila una delle pagine piu' tragiche della storia italiana: nel 1526 i lanzichenecchi mettono a sacco Roma per conto degli spagnoli, nonostante gli appelli del "Machia" a Clemente VII, papa mediceo, a provvedere per tempo alla difesa della citta'. A Firenze torna la repubblica, cui andava la fedelta' primaria di Niccolo', ma le sue ultime mosse (e la fama di eretico, malvagio e consigliere di tiranni) ne fanno un personaggio ormai sospetto. Non sara' nominato di nuovo segretario, come all'epoca di Pier Soderini. Gli viene preferito un tal Francesco Tarugi, che pure era stato un uomo dei Medici. E' il colpo finale, l'amarezza a cui il nostro non sopravvivera'.

Nonostante le accuse che lo vogliono ispiratore di una politica cinica e crudele, il Machiavelli che vive nelle pagine di Viroli, si rivela un uomo tenacemente legato ad alcuni principi: il servizio alla propria comunita', l'amore per la patria, una idea di Italia da tutelare nei confronti delle potenze straniere. Difficile separare le convinzioni dell'autore di una biografia cosi' appassionata da quelle del protagonista, in cui desideri e prescrizioni contrastanti, agli amici piu' che a se stesso (e ne avrebbe avuto bisogno, come si e' visto), si affacciano con evidenza. I riferimenti alla patria scovati dall'autore nelle pagine di Machiavelli sono di indubbia forza, ma e' pur vero che fu lo stesso "Machia" a rimproverare al Soderini la sua ingenuita' nell'attaccamento ai principi. Un vero politico, per Machiavelli, da morto va all'inferno, gli altri, i troppo buoni fanno la fine del Soderini, che "anima sciocca va' su nel Limbo fra gli altri bambini".

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