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Libri

Un buon inizio

Romolo Bugaro

 

l Campiello è forse l'ultimo premio su cui puntare in cerca di sorprese: un solo giudice, il lettore; una sola speranza, che il libro sia piaciuto. La cinquina è in gara al riparo da equilibrismi e giochi editoriali, e chiama allora il tifo che si riserva solitamente alle gare incerte e le imprese che si sa quando cominciano ma non se finiranno.

E tifo sia, quindi: il nostro va alla "Buona e brava gente della nazione" di Romolo Bugaro, titolo algido per un romanzo frivolo, che tra le pieghe di un'irritante leggerezza custodisce il segreto di una serie di infiniti ormai in via di estinzione: amare, riflettere, crescere, ricordare. Comunque vada, un romanzo importante, cui però solo il Campiello potrebbe evitare il destino di occasione mancata della passata stagione letteraria.

Del suo autore pubblichiamo di seguito un racconto inedito. Che per l'ennesima volta conferma come le belle lettere fioriscano spesso al riparo dai letterati: Bugaro è infatti avvocato e esercita da penalista a Padova.
 

La donna aveva circa sessant'anni, e sedeva davanti al microfono rigida di schiena. La borsetta buona, la camicia a fiori, i capelli ben cotonati: s'era messa tutta elegante per venire in tribunale.
Il controesame era sempre un rischio, con persone così. I giudici stavano istintivamente dalla loro, ti fermavano appena alzavi un po' la voce.
Picchiettai con la punta del dito sul microfono per controllare che fosse in funzione, le casse riverberarono nell'aula un crepitio sordo.
Bene, era arrivata l'ora di cominciare.
"Signora, ci vuol dire per favore quando è nata sua figlia?"
"Cinque gennaio millenovecentosessanta."
Abbassai lo sguardo sul referto medico allegato agli atti.
"Soffre di qualche malattia?" dissi.
"Si."
"Ci vuol dire quale malattia?"
"E' ritardata," disse la donna. "E' nata così."

Frugai tra le carte del fascicolo, cercai il verbale di sommarie informazioni. Per fortuna lo trovai senza difficoltà.
"Senta signora, adesso noi dobbiamo parlare ancora di quello che ha visto il sei agosto millenovecentonovantadue." Feci una pausa. "Alla scorsa udienza lei ha detto al pubblico ministero di essere tornata a casa verso le diciotto. E' giusto?"
La donna mi guardò senza cambiare espressione. Alcune domande facevano scattare una risposta, altre restavano inerti e non provocavano niente.

"Signora, lei è tornata a casa verso le diciotto, si o no?"
"Sono tornata a casa dopo il mercato."
"E cioè? A che ora?"
"Alle sei."
"E' tornata alle sei, bene" dissi. "E ci vuole ripetere cosa ha visto, salendo le scale della sua casa?" Aspettai qualche secondo, ma la signora rimase muta. Stavo cominciando a diventare nervoso e dovevo assolutamente frenare. 'Stai calmo,' Mi dissi. 'Sta' tranquillo, su.' Dissi "Signora, per favore. Ci vuol dire cos'ha visto?"

Lo sguardo della donna era talmente pieno di dolore e rabbia trattenuta, adesso, che un campanello d'allarme mi suonò subito dentro.
"Ho visto Luciana," disse. "Ho visto mia figlia."
"Sua figlia, va bene. E poi?"
"Era sul letto Ö Aveva i vestiti Ö"
"Quale letto?"
"Quello di camera sua."
"La camera di sua figlia Luciana è la prima del corridoio, rispetto alle scale?"
La donna abbassò il capo.
"Signora, per favore," dissi. "La camera di sua figlia è la prima che s'incontra, salendo le scale?"
"Sì'' rispose la donna. "E Luciana piangeva."
"Piangeva. Va bene," dissi. "E adesso ci vuol spiegare dove si trovava suo marito?"
"Che cosa?"
"Dove l'ha visto, suo marito?"
"L'ho visto lì."
"No," dissi ad alta voce. "Questo non è esatto. Suo marito non era nella camera."

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