267 - 11.12.04


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Il cammino di una
straordinaria invenzione/2
Conversazione con Elena Paciotti
(seconda parte)

Continua il viaggio lungo la storia del Trattato costituzionale dell’Unione europea. Con le parole di Elena Paciotti che è stata membro tanto della Convenzione che ha redatto la Carta dei Diritti fondamentali quanto della Convenzione incaricata di scrivere la futura costituzione dell’Unione, ripercorriamo le fasi salienti e i concetto chiave che hanno portato alla realizzazione di quella che, pur tra alcuni difetti da migliorare, è una novità assoluta nel diritto internazionale e un passo in avanti verso la realizzazione di una democrazia sovranazionale.

Leggi la prima parte

E’ tempo per la Costituzione europea
Quando Ciampi disse: “Per scongiurare gli orrori del Novecento”.
Nasce la nuova Convenzione, ma questa volta il consenso è costato più fatica.

Preso atto del fallimento, rimanevano i problemi aperti, le questioni irrisolte. Si sentiva sempre più forte, e urgente, il bisogno di una costituzione che desse forti basi politiche e istituzionali all’Unione. Nei dibattiti internazionali questa necessità iniziava ad avvertirsi con evidenza. La voce dei grandi sostenitori dell’Europa si faceva sentire e parlava con le parole di Carlo Azeglio Ciampi e del presidente tedesco Rau che sentivano sulle loro spalle il peso e l’importanza di realizzare l’Unione, l’esigenza di chi aveva vissuto in prima persona e ricordava le dittature e le guerre, il dovere di una generazione che aveva assistito agli orrori che avevano attraversato il Vecchio Continente durante il Novecento e che sentiva l’entusiasmo e la spinta necessaria a seguire fino in fondo le ragioni che avevano portato alla fondazione della Comunità europea: la creazione di una entità politica sovranazionale che scongiurasse il ritorno di simili tragedie.

La risposta al bisogno di una costituzione per l’Europa venne dalla Commissione e dal Parlamento che, avendo ben presente l’esperienza positiva della Carta dei diritti, sostennero che il metodo più adatto a raggiungere il risultato desiderato fosse quello di dar vita a una nuova Convenzione che infine fu varata dal Consiglio europeo di Laeken svoltosi il 14 e 15 dicembre del 2001.

Pur trattandosi di due espressioni dello stesso metodo, dello stesso strumento, di due assemblee vaste e rappresentative tanto dell’Unione quanto dei singoli governi dei loro paesi, le due Convenzioni avevano evidenti differenze che hanno pesato sui diversi esiti del loro rispettivo lavoro. La prima infatti era nata con il chiaro, delineato e preciso compito di stilare una Carta dei diritti che incarnasse i valori e i principi condivisi nell’Unione, che ne costituisse una sorta di carta di identità nei confronti dei suoi cittadini e nei rapporti con i paesi terzi; nella seconda si trattava invece di costruire le basi di un organismo politico attivo, di stabilire la divisione dei poteri, di decidere fino a che punto gli stati nazionali dovevano cedere la loro sovranità di fronte all’Unione, di bilanciare il peso di ciascun governo nelle istituzioni europee.

La Convenzione che ha redatto la Carta dei Diritti, è stata presieduta da Roman Herzog, già presidente della Repubblica federale tedesca e della Corte costituzionale, un giurista che, per fare in modo che le diverse posizioni dei numerosi membri dell’assemblea non portassero a dissensi profondi allontanando così l’accordo sul risultato finale, aveva gestito in modo molto equilibrato la ricerca del consenso. In sostanza, l’approvazione della Carta non richiedeva l’unanimità ma la ricerca di soluzioni concordate in modo tale che non ci fosse alcun rilevante dissenso che mettesse in pericolo l’esito generale del risultato; in altre parole nessuna componente rilevante della Convenzione, alla fine dei lavori, poteva dire che il del testo complessivo della Carta fosse da respingere, e si è ottenuto così il consenso della Convenzione sulla Carta dei Diritti.

Il metodo del consenso è stato applicato anche nella seconda Convenzione, solo che questa volta si parlava e si decideva di politica, di poteri, di sovranità, e il peso dei governi si faceva sentire di più, di conseguenza il ruolo del presidente Valéry Giscard d’Estaing è stato più attento alle posizioni dei governi più forti e necessariamente più autoritario.
Se, durante le sedute della Convenzione, si è riproposta l’usuale distinzione tra stati tradizionalmente europeisti, come Germania, Francia, Belgio (mentre il nostro governo non ha inizialmente dimostrato verso l’integrazione europea l’abituale entusiasmo), e paesi più tradizionalmente euroscettici come il Regno Unito, la Danimarca o la Svezia, è anche vero però che si è messa in evidenza una maggiore propensione europeista da parte dei parlamentari rispetto ai rappresentanti governativi. In ogni caso è risultato nettamente prevalente un orientamento comune indirizzato verso la scrittura di una vera e propria costituzione. Sembrava chiaro, sin dall’inizio, che bisognava orientare i lavori verso la stesura di un testo unico. Questa convinzione iniziale ha fortemente ispirato tutta la prima parte dei lavori durante la quale i membri si sono divisi in gruppi di lavoro e hanno discusso temi di importanza fondamentale in un clima politico favorevole. Da qui è nata la possibilità di riuscire poi a trovare, pur tra mille difficoltà e in un clima politico mutato a seguito delle divisioni prodotte dalla guerra in Iraq, il consenso sul progetto di Trattato che è stato trasmesso al Consiglio europeo e da questo sottoposto alla Conferenza Intergovernativa.

Quando la Cig ha messo tutto in discussione, e ha fallito.
Ognuno per sé e nessuno per l’Ue, ovvero: se Nizza non ha insegnato niente.
Intanto campanelli d’allarme suonavano per la Costituzione.
Storia di un accordo pieno di lacune.

Alla Convenzione avevano partecipato, si è detto, anche i delegati dei governi nazionali, quindi tra le persone che avevano raggiunto il consenso sul testo prodotto erano rappresentati anche i partecipanti alla Conferenza Intergovernativa. Si poteva legittimamente pensare che la Cig approvasse il progetto di trattato, ma così non è stato.
Invece di riunirsi per sancire un nuovo passo dell’iter di approvazione della futura costituzione, i governi degli stati europei si sono incontrati riproponendo ciascuno le proprie singolari posizioni ed esigenze, non in nome del bene dell’Unione, ma in quanto esponenti di interessi nazionali, in quanto politici che avevano il dovere di portare a casa un risultato per sé. Soprattutto, la Cig si era riunita seguendo i principi che avevano guidato le conferenze precedenti: era il momento di guardare al futuro per pensare e costruire qualcosa di nuovo. Solo un simile approccio avrebbe garantito al Trattato un cammino agevole verso l’approvazione, ma così non è stato e la Conferenza intergovernativa svoltasi sotto la presidenza italiana nella seconda metà del 2003 si è risolta in un inevitabile fallimento.

La successiva presidenza di turno irlandese ha iniziato a riallacciare con pazienza le fila di possibili intese tra gli stati membri intorno al testo del Trattato. Nel giugno del 2004 le scarsa affluenza al voto per il Parlamento europeo ha fatto scattare un campanello d’allarme intorno al disinteresse dell’opinione pubblica che si stava diffondendo sui temi europei e, soprattutto, intorno alla dimensione europea della politica; le divisioni dell’Europa, poi, sulla politica internazionale e la crisi irachena erano fin troppo preoccupanti.
Insomma, questa straordinaria invenzione unica al mondo che è l’Unione europea, nata da uno straordinario messaggio di pace, dalla volontà di dare a paesi diversi che in passato si erano ferocemente combattuti la possibilità di convivere in una stessa comunità e creare insieme una democrazia sovranazionale, sembrava un’idea evanescente in nome della quale gli interessi politici dei singoli stati non riuscivano a conciliarsi. Eppure si era lavorato proprio per darle concretezza e sostanza, si era costruito con la Convenzione un sistema che teneva in conto le esigenze di ciascuno, che cercava di realizzare una struttura democratica sovranazionale senza precedenti, ispirata all’idea dell’unità nella diversità.

La spinta di questi fattori unita alla definitiva adesione dei dieci nuovi membri facevano sì che si facesse più stringente l’urgenza di un accordo per l’approvazione del Trattato. E un accordo si è trovato. Ovviamente non è stata una soluzione migliorativa, non si è acquisito alcun sostanziale progresso e si è determinato qualche regresso rispetto al progetto varato dalla Convenzione. E’ vero che si volevano riunire i trattati precedenti e dar vita ad un’unica procedura legislativa, e lo si è fatto; è vero che molto si è fatto per la razionalizzazione delle procedure e l’estensione del metodo comunitario; è vero che è stato ampliato il ventaglio delle decisioni da prendere a maggioranza anziché all’unanimità; ma è pure vero che grossi limiti in queste direzioni sono rimasti in ambiti importantissimi come la politica economica, in particolare in materia fiscale, dove è ancora necessario l’accordo fra tutti i 25 membri per giungere a una decisione.

Il motore della politica estera unitaria
Arriva il Ministro degli Esteri. Ma l’obiettivo vero è portare l’Unione nel dibattito politico internazionale. Per essere garanzia di pace.

Un discorso a parte meritano le questioni di politica estera, dove, sebbene le decisioni del Consiglio europeo siano tuttora sottoposte alla regola dell’unanimità, certamente l’istituzione della figura unica del ministro è destinata a segnare una svolta nel ruolo internazionale dell’Unione.
In precedenza la politica estera sottostava alla necessità di conciliare due assetti diversi, da una parte un commissario si occupava delle relazioni esterne dell’Ue (che sostanzialmente si limitavano agli affari commerciali), dall’altra un segretario del Consiglio cui era affidato il compito di gestire la parte più prettamente politica delle relazioni internazionali. Ora queste due figure distinte si fondono in una sola dando così origine alla carica effettiva di un ministro che ha il compito di essere il vero e proprio motore di una politica estera unitaria. E’ il massimo risultato che a tutt’oggi siamo riusciti a iscrivere nel Trattato, è il massimo di mediazione tra le esigenze degli Stati e le necessità dell’Unione che siamo riusciti ad ottenere. Ma sono convinta che il tempo renderà evidente che un ruolo attivo ed effettivo dell’Europa nel palcoscenico internazionale può svolgersi in maniera efficace se e solo se l’Unione si rende capace di darsi una voce unica, se riesce davvero ad avere una politica estera comune.

Per raggiungere questo scopo non basta però avere istituito la figura del Ministro degli Esteri, ma bisogna che questi sia messo nelle condizioni di esprimere una vera politica unitaria. E’ questo un bisogno che si avverte non solo per il Vecchio Continente, ma anche nel dibattito politico internazionale si sente la necessità di un interlocutore importante per affrontare i problemi posti dalla globalizzazione e dai grandi mutamenti dell’età contemporanea. L’Europa, che nei secoli passati è stata la patria di potenze coloniali, il luogo che ha visto nascere feroci dittature e dato avvio a due guerre mondiali, si presenta oggi al mondo come portatrice di valori umani, di rispetto reciproco, di diritti universali: in una parola, l’Unione europea è nata per garantire la pace. In una realtà attraversata e permeata dalle dinamiche della globalizzazione, non può un solo punto di vista reggere le sorti del mondo. Darsi la reale possibilità di costruire una politica estera comune vuol dire per l’Unione mettersi nelle condizioni di bilanciare l’attuale unilateralismo e partecipare credibilmente al dibattito politico internazionale per costruire nuove regole di civiltà per il mondo globalizzato.

Un vera giustizia sovranazionale
Il mandato d’arresto europeo: e la Gran Bretagna fu, per un momento, europeista convinta. Uno spazio sovranazionale di diritti basato sul riconoscimento reciproco.

La sfera giudiziaria è probabilmente quella in cui si sono fatti i maggiori progressi nell’estensione del metodo comunitario. Si è visto d’altronde come le decisioni lasciate alle iniziative dei governi raramente vengono prese avendo in mente un’ottica unitaria e sovranazionale. Tuttavia, nel periodo immediatamente successivo agli attentati dell’11 settembre la Gran Bretagna, tradizionale oppositrice di ogni cessione di sovranità, si è fatta promotrice e fautrice del mandato d’arresto europeo. In questo contesto, un’esigenza concreta e stringente come la minaccia del terrorismo ha portato un’accelerazione verso la comunitarizzazione, e quindi la democratizzazione e la condivisione reale di sovranità, in un ambito che da sempre è stato tra i più restii ad accogliere le esigenze della dimensione sovranazionale. In quello che si è definito spazio europeo di libertà sicurezza e giustizia, il potenziamento della cooperazione giudiziaria tra gli Stati membri in materia civile era già avanzato da tempo. I cittadini europei vedevano già garantito nell’Unione uno spazio all’interno del quale i loro diritti civili potevano essere riconosciuti ovunque grazie a un sistema che è tipico dell’Ue e che si chiama riconoscimento reciproco.
Poiché è impossibile che molti stati diversi adottino lo stesso codice civile, lo stesso sistema di leggi, si è pensato di fare in modo che gli esiti dei procedimenti che hanno avuto luogo in stati diversi siano riconosciuti come validi dappertutto all’interno dell’Unione. Così come avviene per la circolazione delle merci nel mercato interno: se voglio far circolare determinati prodotti alimentari ho bisogno che siano certificati da un’autorità che assicuri che siano prodotti con determinati ingredienti che non danneggiano la mia salute, che rispettino determinati standard di qualità, che siano conservati in un certo modo. Poiché non esiste un’unica autorità di certificazione che operi a livello europeo, questo compito è affidato alle singole autorità nazionali la cui certificazione però è riconosciuta come valida da tutti i membri dell’Unione. E’ un sistema basato sulla fiducia reciproca, sul controllo reciproco e sul fatto che ogni sistema nazionale segue le stesse regole ispirate da direttive generali europee. Allo stesso modo chiunque voglia spostarsi, ad esempio da Roma a Madrid, deve vedere riconosciuto il suo divorzio, o i suoi crediti o qualsiasi altra sentenza emessa da un giudice civile.

Per quanto riguarda invece il sistema penale il concetto della sovranità è molto più delicato. Già dal 1999 il Consiglio europeo di Tampere aveva stabilito che il riconoscimento reciproco valesse in ambito penale tanto per le sentenze definitive quanto per le decisioni interinali durante lo svolgimento del processo, quali ad esempio l’ordine di cattura. Il Trattato costituzionale ha impresso un’accelerazione importante in questo senso applicando pienamente il metodo comunitario, fatte salve alcune eccezioni, a tutto il settore della tutela dei diritti dei cittadini, garantendo così il controllo democratico e la trasparenza nell’esercizio del potere.

Un momento assolutamente decisivo nella realizzazione concreta di una dimensione europea della giustizia è stato l’inserimento nel Trattato costituzionale della Carta dei Diritti fondamentali. Da questo momento in poi, chiunque veda minacciato un suo diritto fondamentale da un provvedimento europeo emanato da un qualsiasi organo, autorità o istituzione, può rivolgersi alla Corte di giustizia e quindi può vedere tutelati i suoi diritti su scala europea esattamente come lo sono all’interno di ogni singola nazione ad opera delle corti costituzionali e delle corti supreme.
(a cura di Mauro Buonocore)

Leggi la terza parte parte

 

 

 

 

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