Continua il viaggio lungo la storia
del Trattato costituzionale dell’Unione europea.
Con le parole di Elena Paciotti che è stata membro
tanto della Convenzione che ha redatto la Carta dei
Diritti fondamentali quanto della Convenzione incaricata
di scrivere la futura costituzione dell’Unione,
ripercorriamo le fasi salienti e i concetto chiave che
hanno portato alla realizzazione di quella che, pur
tra alcuni difetti da migliorare, è una novità
assoluta nel diritto internazionale e un passo in avanti
verso la realizzazione di una democrazia sovranazionale.
Leggi
la prima parte
E’ tempo per la Costituzione europea
Quando Ciampi disse: “Per scongiurare gli
orrori del Novecento”.
Nasce la nuova Convenzione, ma questa volta il consenso
è costato più fatica.
Preso atto del fallimento, rimanevano i problemi
aperti, le questioni irrisolte. Si sentiva sempre
più forte, e urgente, il bisogno di una costituzione
che desse forti basi politiche e istituzionali all’Unione.
Nei dibattiti internazionali questa necessità
iniziava ad avvertirsi con evidenza. La voce dei grandi
sostenitori dell’Europa si faceva sentire e
parlava con le parole di Carlo Azeglio Ciampi e del
presidente tedesco Rau che sentivano sulle loro spalle
il peso e l’importanza di realizzare l’Unione,
l’esigenza di chi aveva vissuto in prima persona
e ricordava le dittature e le guerre, il dovere di
una generazione che aveva assistito agli orrori che
avevano attraversato il Vecchio Continente durante
il Novecento e che sentiva l’entusiasmo e la
spinta necessaria a seguire fino in fondo le ragioni
che avevano portato alla fondazione della Comunità
europea: la creazione di una entità politica
sovranazionale che scongiurasse il ritorno di simili
tragedie.
La risposta al bisogno di una costituzione per l’Europa
venne dalla Commissione e dal Parlamento che, avendo
ben presente l’esperienza positiva della Carta
dei diritti, sostennero che il metodo più adatto
a raggiungere il risultato desiderato fosse quello
di dar vita a una nuova Convenzione che infine fu
varata dal Consiglio europeo di Laeken svoltosi il
14 e 15 dicembre del 2001.
Pur trattandosi di due espressioni dello stesso metodo,
dello stesso strumento, di due assemblee vaste e rappresentative
tanto dell’Unione quanto dei singoli governi
dei loro paesi, le due Convenzioni avevano evidenti
differenze che hanno pesato sui diversi esiti del
loro rispettivo lavoro. La prima infatti era nata
con il chiaro, delineato e preciso compito di stilare
una Carta dei diritti che incarnasse i valori e i
principi condivisi nell’Unione, che ne costituisse
una sorta di carta di identità nei confronti
dei suoi cittadini e nei rapporti con i paesi terzi;
nella seconda si trattava invece di costruire le basi
di un organismo politico attivo, di stabilire la divisione
dei poteri, di decidere fino a che punto gli stati
nazionali dovevano cedere la loro sovranità
di fronte all’Unione, di bilanciare il peso
di ciascun governo nelle istituzioni europee.
La Convenzione che ha redatto la Carta dei Diritti,
è stata presieduta da Roman Herzog, già
presidente della Repubblica federale tedesca e della
Corte costituzionale, un giurista che, per fare in
modo che le diverse posizioni dei numerosi membri
dell’assemblea non portassero a dissensi profondi
allontanando così l’accordo sul risultato
finale, aveva gestito in modo molto equilibrato la
ricerca del consenso. In sostanza, l’approvazione
della Carta non richiedeva l’unanimità
ma la ricerca di soluzioni concordate in modo tale
che non ci fosse alcun rilevante dissenso che mettesse
in pericolo l’esito generale del risultato;
in altre parole nessuna componente rilevante della
Convenzione, alla fine dei lavori, poteva dire che
il del testo complessivo della Carta fosse da respingere,
e si è ottenuto così il consenso della
Convenzione sulla Carta dei Diritti.
Il metodo del consenso è stato applicato anche
nella seconda Convenzione, solo che questa volta si
parlava e si decideva di politica, di poteri, di sovranità,
e il peso dei governi si faceva sentire di più,
di conseguenza il ruolo del presidente Valéry
Giscard d’Estaing è stato più
attento alle posizioni dei governi più forti
e necessariamente più autoritario.
Se, durante le sedute della Convenzione, si è
riproposta l’usuale distinzione tra stati tradizionalmente
europeisti, come Germania, Francia, Belgio (mentre
il nostro governo non ha inizialmente dimostrato verso
l’integrazione europea l’abituale entusiasmo),
e paesi più tradizionalmente euroscettici come
il Regno Unito, la Danimarca o la Svezia, è
anche vero però che si è messa in evidenza
una maggiore propensione europeista da parte dei parlamentari
rispetto ai rappresentanti governativi. In ogni caso
è risultato nettamente prevalente un orientamento
comune indirizzato verso la scrittura di una vera
e propria costituzione. Sembrava chiaro, sin dall’inizio,
che bisognava orientare i lavori verso la stesura
di un testo unico. Questa convinzione iniziale ha
fortemente ispirato tutta la prima parte dei lavori
durante la quale i membri si sono divisi in gruppi
di lavoro e hanno discusso temi di importanza fondamentale
in un clima politico favorevole. Da qui è nata
la possibilità di riuscire poi a trovare, pur
tra mille difficoltà e in un clima politico
mutato a seguito delle divisioni prodotte dalla guerra
in Iraq, il consenso sul progetto di Trattato che
è stato trasmesso al Consiglio europeo e da
questo sottoposto alla Conferenza Intergovernativa.
Quando la Cig ha messo tutto in discussione,
e ha fallito.
Ognuno per sé e nessuno per l’Ue,
ovvero: se Nizza non ha insegnato niente.
Intanto campanelli d’allarme suonavano per la
Costituzione.
Storia di un accordo pieno di lacune.
Alla Convenzione avevano partecipato, si è
detto, anche i delegati dei governi nazionali, quindi
tra le persone che avevano raggiunto il consenso sul
testo prodotto erano rappresentati anche i partecipanti
alla Conferenza Intergovernativa. Si poteva legittimamente
pensare che la Cig approvasse il progetto di trattato,
ma così non è stato.
Invece di riunirsi per sancire un nuovo passo dell’iter
di approvazione della futura costituzione, i governi
degli stati europei si sono incontrati riproponendo
ciascuno le proprie singolari posizioni ed esigenze,
non in nome del bene dell’Unione, ma in quanto
esponenti di interessi nazionali, in quanto politici
che avevano il dovere di portare a casa un risultato
per sé. Soprattutto, la Cig si era riunita
seguendo i principi che avevano guidato le conferenze
precedenti: era il momento di guardare al futuro per
pensare e costruire qualcosa di nuovo. Solo un simile
approccio avrebbe garantito al Trattato un cammino
agevole verso l’approvazione, ma così
non è stato e la Conferenza intergovernativa
svoltasi sotto la presidenza italiana nella seconda
metà del 2003 si è risolta in un inevitabile
fallimento.
La successiva presidenza di turno irlandese ha iniziato
a riallacciare con pazienza le fila di possibili intese
tra gli stati membri intorno al testo del Trattato.
Nel giugno del 2004 le scarsa affluenza al voto per
il Parlamento europeo ha fatto scattare un campanello
d’allarme intorno al disinteresse dell’opinione
pubblica che si stava diffondendo sui temi europei
e, soprattutto, intorno alla dimensione europea della
politica; le divisioni dell’Europa, poi, sulla
politica internazionale e la crisi irachena erano
fin troppo preoccupanti.
Insomma, questa straordinaria invenzione unica al
mondo che è l’Unione europea, nata da
uno straordinario messaggio di pace, dalla volontà
di dare a paesi diversi che in passato si erano ferocemente
combattuti la possibilità di convivere in una
stessa comunità e creare insieme una democrazia
sovranazionale, sembrava un’idea evanescente
in nome della quale gli interessi politici dei singoli
stati non riuscivano a conciliarsi. Eppure si era
lavorato proprio per darle concretezza e sostanza,
si era costruito con la Convenzione un sistema che
teneva in conto le esigenze di ciascuno, che cercava
di realizzare una struttura democratica sovranazionale
senza precedenti, ispirata all’idea dell’unità
nella diversità.
La spinta di questi fattori unita alla definitiva
adesione dei dieci nuovi membri facevano sì
che si facesse più stringente l’urgenza
di un accordo per l’approvazione del Trattato.
E un accordo si è trovato. Ovviamente non è
stata una soluzione migliorativa, non si è
acquisito alcun sostanziale progresso e si è
determinato qualche regresso rispetto al progetto
varato dalla Convenzione. E’ vero che si volevano
riunire i trattati precedenti e dar vita ad un’unica
procedura legislativa, e lo si è fatto; è
vero che molto si è fatto per la razionalizzazione
delle procedure e l’estensione del metodo comunitario;
è vero che è stato ampliato il ventaglio
delle decisioni da prendere a maggioranza anziché
all’unanimità; ma è pure vero
che grossi limiti in queste direzioni sono rimasti
in ambiti importantissimi come la politica economica,
in particolare in materia fiscale, dove è ancora
necessario l’accordo fra tutti i 25 membri per
giungere a una decisione.
Il motore della politica estera unitaria
Arriva il Ministro degli Esteri. Ma l’obiettivo
vero è portare l’Unione nel dibattito
politico internazionale. Per essere garanzia di pace.
Un discorso a parte meritano le questioni di politica
estera, dove, sebbene le decisioni del Consiglio europeo
siano tuttora sottoposte alla regola dell’unanimità,
certamente l’istituzione della figura unica
del ministro è destinata a segnare una svolta
nel ruolo internazionale dell’Unione.
In precedenza la politica estera sottostava alla necessità
di conciliare due assetti diversi, da una parte un
commissario si occupava delle relazioni esterne dell’Ue
(che sostanzialmente si limitavano agli affari commerciali),
dall’altra un segretario del Consiglio cui era
affidato il compito di gestire la parte più
prettamente politica delle relazioni internazionali.
Ora queste due figure distinte si fondono in una sola
dando così origine alla carica effettiva di
un ministro che ha il compito di essere il vero e
proprio motore di una politica estera unitaria. E’
il massimo risultato che a tutt’oggi siamo riusciti
a iscrivere nel Trattato, è il massimo di mediazione
tra le esigenze degli Stati e le necessità
dell’Unione che siamo riusciti ad ottenere.
Ma sono convinta che il tempo renderà evidente
che un ruolo attivo ed effettivo dell’Europa
nel palcoscenico internazionale può svolgersi
in maniera efficace se e solo se l’Unione si
rende capace di darsi una voce unica, se riesce davvero
ad avere una politica estera comune.
Per raggiungere questo scopo non basta però
avere istituito la figura del Ministro degli Esteri,
ma bisogna che questi sia messo nelle condizioni di
esprimere una vera politica unitaria. E’ questo
un bisogno che si avverte non solo per il Vecchio
Continente, ma anche nel dibattito politico internazionale
si sente la necessità di un interlocutore importante
per affrontare i problemi posti dalla globalizzazione
e dai grandi mutamenti dell’età contemporanea.
L’Europa, che nei secoli passati è stata
la patria di potenze coloniali, il luogo che ha visto
nascere feroci dittature e dato avvio a due guerre
mondiali, si presenta oggi al mondo come portatrice
di valori umani, di rispetto reciproco, di diritti
universali: in una parola, l’Unione europea
è nata per garantire la pace. In una realtà
attraversata e permeata dalle dinamiche della globalizzazione,
non può un solo punto di vista reggere le sorti
del mondo. Darsi la reale possibilità di costruire
una politica estera comune vuol dire per l’Unione
mettersi nelle condizioni di bilanciare l’attuale
unilateralismo e partecipare credibilmente al dibattito
politico internazionale per costruire nuove regole
di civiltà per il mondo globalizzato.
Un vera giustizia sovranazionale
Il mandato d’arresto europeo: e la Gran
Bretagna fu, per un momento, europeista convinta.
Uno spazio sovranazionale di diritti basato sul riconoscimento
reciproco.
La sfera giudiziaria è probabilmente quella
in cui si sono fatti i maggiori progressi nell’estensione
del metodo comunitario. Si è visto d’altronde
come le decisioni lasciate alle iniziative dei governi
raramente vengono prese avendo in mente un’ottica
unitaria e sovranazionale. Tuttavia, nel periodo immediatamente
successivo agli attentati dell’11 settembre
la Gran Bretagna, tradizionale oppositrice di ogni
cessione di sovranità, si è fatta promotrice
e fautrice del mandato d’arresto europeo. In
questo contesto, un’esigenza concreta e stringente
come la minaccia del terrorismo ha portato un’accelerazione
verso la comunitarizzazione, e quindi la democratizzazione
e la condivisione reale di sovranità, in un
ambito che da sempre è stato tra i più
restii ad accogliere le esigenze della dimensione
sovranazionale. In quello che si è definito
spazio europeo di libertà sicurezza e giustizia,
il potenziamento della cooperazione giudiziaria tra
gli Stati membri in materia civile era già
avanzato da tempo. I cittadini europei vedevano già
garantito nell’Unione uno spazio all’interno
del quale i loro diritti civili potevano essere riconosciuti
ovunque grazie a un sistema che è tipico dell’Ue
e che si chiama riconoscimento reciproco.
Poiché è impossibile che molti stati
diversi adottino lo stesso codice civile, lo stesso
sistema di leggi, si è pensato di fare in modo
che gli esiti dei procedimenti che hanno avuto luogo
in stati diversi siano riconosciuti come validi dappertutto
all’interno dell’Unione. Così come
avviene per la circolazione delle merci nel mercato
interno: se voglio far circolare determinati prodotti
alimentari ho bisogno che siano certificati da un’autorità
che assicuri che siano prodotti con determinati ingredienti
che non danneggiano la mia salute, che rispettino
determinati standard di qualità, che siano
conservati in un certo modo. Poiché non esiste
un’unica autorità di certificazione che
operi a livello europeo, questo compito è affidato
alle singole autorità nazionali la cui certificazione
però è riconosciuta come valida da tutti
i membri dell’Unione. E’ un sistema basato
sulla fiducia reciproca, sul controllo reciproco e
sul fatto che ogni sistema nazionale segue le stesse
regole ispirate da direttive generali europee. Allo
stesso modo chiunque voglia spostarsi, ad esempio
da Roma a Madrid, deve vedere riconosciuto il suo
divorzio, o i suoi crediti o qualsiasi altra sentenza
emessa da un giudice civile.
Per quanto riguarda invece il sistema penale il concetto
della sovranità è molto più delicato.
Già dal 1999 il Consiglio europeo di Tampere
aveva stabilito che il riconoscimento reciproco valesse
in ambito penale tanto per le sentenze definitive
quanto per le decisioni interinali durante lo svolgimento
del processo, quali ad esempio l’ordine di cattura.
Il Trattato costituzionale ha impresso un’accelerazione
importante in questo senso applicando pienamente il
metodo comunitario, fatte salve alcune eccezioni,
a tutto il settore della tutela dei diritti dei cittadini,
garantendo così il controllo democratico e
la trasparenza nell’esercizio del potere.
Un momento assolutamente decisivo nella realizzazione
concreta di una dimensione europea della giustizia
è stato l’inserimento nel Trattato costituzionale
della Carta dei Diritti fondamentali. Da questo momento
in poi, chiunque veda minacciato un suo diritto fondamentale
da un provvedimento europeo emanato da un qualsiasi
organo, autorità o istituzione, può
rivolgersi alla Corte di giustizia e quindi può
vedere tutelati i suoi diritti su scala europea esattamente
come lo sono all’interno di ogni singola nazione
ad opera delle corti costituzionali e delle corti
supreme.
(a cura di Mauro Buonocore)
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la terza parte parte
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