Questo
articolo è tratto dal dossier “Democrazia
bisognosa di religione?” con il dialogo tra Jürgen Habermas e Joseph Ratzinger, apparso nel numero 83 di Reset
(maggio-giugno ‘04).
Le ragioni per le quali guardare con attenzione alla
discussione tra J. Habermas, paladino da un punto di
vista laico e razionalista di una ragione non «disfattista
e scettica», e il Cardinale J. Ratzinger, solitamente
presentato come il «guardiano dell’ortodossia»
cattolica, sono molteplici e vanno ben al di là
della semplice curiosità per un incontro insolito.
In primo luogo, a chi ha occhi per vedere e orecchie
per intendere (e Habermas era certamente tra questi),
era chiaro da ben prima dell’11 settembre che
si imponeva un ripensamento dei rapporti tra Stato liberale,
democrazia e religione. Al mondo occidentale si richiedeva,
e a maggior ragione si richiede oggi, un esercizio di
ripensamento critico (che non significa ovviamente disfattista)
del modo in cui ha interpretato i processi di secolarizzazione
nel corso della sua storia. Non solo, di fatto,
il mondo contemporaneo non è così come
la Ragione illuminista lo aveva immaginato, e cioè
liberato da un pregiudizio religioso relegato una volta
per tutte in uno stadio evolutivo dell’umanità
oramai irreversibilmente alle nostre spalle; ma anche
in linea di princìpio, da un punto di vista normativo,
«addirittura» da versanti laici si è
tornati a guardare alle religioni come a «serbatoi»
di senso e luoghi privilegiati di fondamentali esperienze
individuali e collettive delle quali è difficile
fare a meno e di cui è altrettanto difficile
(e neanche forse auspicabile, alla luce della storia
del Novecento) trovare surrogati politici: il potente
reingresso delle religioni nella sfera pubblica –
lungo le linee di processi che sociologi come José
Casanova chiamano di «de-privatizzazione»
della religione, e altri come Gauchet di «pubblicizzazione
di credenze private» che chiedono di essere riconosciute
nella sfera pubblica – consiglia, o costringe,
già solo per ragioni meramente tattiche e prudenziali,
a ripensare l’idea dello Stato laico, il punto
in cui fissare la linea di separazione tra pubblico
e privato, etc. Ma al di là delle semplici considerazioni
tattiche, sufficienti solo alla realpolitik,
la presenza tra noi di milioni di credenti
sinceri, praticanti, ortodossi, critici nei confronti
del modo di vita secolarizzato occidentale, è
un fattore non solo costitutivo del pluralismo morale
delle nostre società, ma anche un qualcosa che
dovrebbe rappresentare – per democrazie capaci,
in linea di principio, di autocritica e autorevisione
– una ragione di riesame del proprio profilo ideologico.
Il confronto con forme di vita diverse da quella occidentale,
nelle modalità drammatiche del terrorismo o in
quelle quotidiane della convivenza nelle nostre città
con le comunità di immigrati, dovrebbero ovviamente
fare il resto.
Un deficit motivazionale delle democrazie?
In secondo luogo, riaprire il dialogo tra cultura laica
e culture religiose è necessario anche alla luce
di quel deficit motivazionale di cui le democrazie occidentali
soffrono oramai cronicamente e che, da tempo, è
al centro dei discorsi specialistici e pubblici. Da
questo punto di vista, si può ragionevolmente
sostenere che l’attenzione di cui godono le tematiche
religiose nella letteratura sociologica e filosofico-politica
ha preso il posto del dibattito tra liberali e comunitaristi,
rinnovando (da un punto di vista che sembra avere un
maggior respiro) la sfida al liberalismo su molti punti
già toccati dalla critica comunitarista (concezione
del sé, rapporto tra il giusto e il bene, neutralità
delle istituzioni rispetto alle concezioni della vita
buona).
In terzo luogo, il processo di unificazione europea
pone le democrazie del vecchio continente di fronte
a rinnovati dilemmi identitari. Al di là della
pur significativa e importante polemica sulla menzione
delle radici cristiane nella futura Costituzione europea,
l’elemento fondamentale è che il carattere
aperto della costruzione della comunità sovranazionale
cui si sta tentando di dare vita ha luogo, da una parte,
in un quadro di mutamento della laicità della
sfera pubblica e, dall’altra, di mutamento delle
identità religiose e delle modalità dell’esperienza
religiosa. L’assetto futuro dei rapporti tra istituzioni
europee e identità religiose dipenderà
quindi non poco dalla qualità del dibattito pubblico
che sapremo avere su come intendere la laicità
delle istituzioni (intesa, ad oggi, diversamente nei
diversi paesi della Ue) e su cosa definisce l’esperienza
religiosa.
Il colloquio tra Habermas e il cardinale Ratzinger è
un esempio di questo dibattito.
Habermas, tutt’altro che nuovo al dialogo con
i teologi, dà una ulteriore prova tanto della
sua sensibilità per le tematiche religiose, sia
in senso socio-politico che etico-esistenziale, quanto
del suo sobrio ma fermo laicismo e razionalismo. In
una serie di scritti di questi ultimi anni, quello che
ancora oggi viene a torto considerato un pensatore «religiosamente
stonato» ha sottolineato il debito che la normatività
della modernità ha nei confronti della tradizione
ebraico-cristiana, e i limiti della filosofia nel sostituirsi
del tutto e senza residui alla religione, facendosi
carico della sua eredità. Questi punti vengono
ribaditi anche nel corso del colloquio con il cardinale
Ratzinger. Al tempo stesso, Habermas continua a ritenere
auto-sufficiente un fondamento puramente politico dello
Stato democratico di diritto, difeso nella forma di
un repubblicanesimo kantiano. Più sensibile rispetto
al passato al deficit motivazionale di cui sembrano
soffrire gli Stati di diritto, Habermas chiede oggi
allo stesso Stato liberale di produrre in proprio quelle
basi motivazionali di cui non può fare a meno.
Se la risposta all’interrogativo circa la necessità
di fondamenti morali prepolitici (e quindi metafisico-religiosi)
continua a essere da parte di Habermas negativa, egli
sembra chiedere alla cultura laica liberal-repubblicana
sforzi maggiori per tradurre in forme di vita gli astratti
princìpi del diritto costituzionale. Consapevole
cioè del fatto che i contenuti morali dei diritti
fondamentali devono poter «prendere piede»
nelle opinioni dei cittadini, farsi habitus
mentale e pratica quotidiana di vita, egli torna per
esempio sulla controversa nozione di patriottismo della
Costituzione, sostenendo con la massima chiarezza che
essa vuole indicare l’appropriazione da parte
dei cittadini dei princìpi costituzionali non
solo nel loro contenuto astratto, ma nel significato
concreto che di volta in volta assumono per esempio
nei diversi contesti storico-culturali nazionali. L’esempio
delle politiche della memoria indica in modo definitivo
questa avvertita necessità di una concretizzazione
dei princìpi costituzionali in forme di vita
capaci di funzionare da (liberale) autonomo fondamento
«pre-politico» della lealtà alla
Costituzione. D’altro canto, ribadire su basi
auto-critiche l’autonomia dello Stato democratico
di diritto non significa «spingere all’estremo»
la critica della ragione, fino a escludere dal quadro
la religione. E ciò, sostiene Habermas, non solo
perché, come dato di fatto sociologico, la religione
continua a esistere, ma anche perché essa rappresenta
per la ragione una sfida: nella religione vi sono potenziali
di significato che il discorso razionale non riesce
a tradurre fino in fondo in termini secolari; la religione,
inoltre, una volta liberata da pretese di autorità,
può rappresentare una forma di critica nei confronti
delle patologie sociali della modernità. Ciò
dovrebbe indurre la ragione da una parte a tentare un’opera
attenta di traduzione dei contenuti normativi della
religione in termini secolari, e dall’altra a
disporsi in un atteggiamento non solo di tolleranza,
ma anche di disponibilità all’apprendimento
dalla religione.
Rinuncia alle pretese autoritarie e tutela
del pluralismo
Questo, d’altra parte, sembra essere il senso
della riflessione habermasiana che emerge dal colloquio
con il cardinale Ratzinger: religione e ragione devono
disporsi oggi ad un atteggiamento di apprendimento reciproco,
e devono guardare alla secolarizzazione non come a una
forma di imperialismo di una parte sull’altra,
ma come a un «processo di apprendimento complementare»
in cui entrambe le parti discutono temi controversi
in pubblico. Perché ciò sia possibile
sono necessarie due condizioni: da una parte che la
religione sia disposta ad abbandonare pretese di autorità
e ad entrare in quel discorso razionale in cui valgono
solo pretese di validità argomentabili razionalmente;
dall’altra, che la neutralità del potere
statale non sia intesa come generalizzazione politica
di una visione del mondo secolarizzata. La neutralità
dello Stato di diritto, insomma, deve valere anche a
tutela di quelle concezioni religiose del mondo che
non possono vedersi negato, a-priori per così
dire, un potenziale di verità, o il diritto di
entrare criticamente nella discussione pubblica.
A fronte di questa distesa apertura al dialogo, la
posizione del Cardinale Ratzinger sembra sottilmente
più arroccata su posizioni tradizionaliste. La
formula habermasiana dell’«apprendimento
reciproco» viene naturalmente richiamata con approvazione.
Ragione e religione, sostiene Ratzinger, devono controllarsi
a vicenda, censurando l’una le pretese illimitate
che ciascuna di esse rischia di avanzare. Tuttavia,
la necessità di «un rapporto correlativo
tra ragione e fede, ragione e religione» sembra
rimanere all’interno della tradizionale concezione
scolastica per cui fides quaerens intellectum. Nelle
parole del Cardinale Ratzinger permane un non celato
rammarico per la fine di un fondamento prepolitico del
diritto naturale, per il misconoscimento della «luce
divina» della ragione da parte della cultura secolare.
Il diritto naturale rimane il ponte attraverso il quale
dialogare con la cultura secolare – soprattutto
a partire dalla teoria dei diritti umani, integrata,
sostiene Ratzinger, da una teoria dei doveri e dei limiti
umani –, ma il dialogo tanto con la cultura secolare
quanto con le altre aree culturali (Ratzinger richiama
quella islamica, quella buddista e induista indiane,
oltre a quella cristiana e secolare occidentali. Salta
agli occhi l’omissione della tradizione ebraica),
di cui giustamente si sottolinea l’interna complessità
e non omogeneità, dovrebbe poggiare sulla ricerca
all’interno di ciascuna di esse di un fondamento
religioso dei diritti umani. La mossa del Cardinale
Ratzinger consiste nel cercare di mettere la cultura
secolare «in minoranza», così da
poter presentare la secolarizzazione europea, in una
prospettiva di culture comparate e di sociologia della
religione, come una deviazione che necessita di una
correzione (la posizione di Habermas sullo stesso punto,
come il lettore vedrà da sé, è
significativamente diversa). Apprendimento reciproco
dunque sì, certamente, giacché il mondo
moderno lo impone. Ma la secolarizzazione europea rimane
una deviazione rispetto a un mondo in cui la fede illuminava
la ragione, e la luce divina fungeva da fondamento prepolitico
degli ordinamenti mondani.
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