Il 19
gennaio 2004 il cardinale Joseph Ratzinger e
Jürgen
Habermas
si incontrano a Monaco presso la Katholische Akademie
in Bayern. Nul numero 83 di Reset (maggio-giugno
‘04) un dossier dal titolo “Democrazia bisognosa
di religione?” contiene le trascrizioni degli
interventi che qui riportiamo.
Mentre i processi storici in cui siamo coinvolti evolvono
con rapidità sempre maggiore, mi sembra che soprattutto
due fattori si manifestino come caratteristiche di un’evoluzione
che prima procedeva solo in tempi lunghi: il primo è
la nascita di una società globale, in cui i singoli
poteri politici, economici e culturali sempre più
fanno riferimento l’uno all’altro e nei
loro differenti spazi vitali entrano in contatto e si
permeano vicendevolmente; il secondo è lo sviluppo
delle possibilità dell’essere umano - il
potere di creare e di distruggere - le quali sollevano
la questione dei controlli giuridici e morali sul potere
molto oltre rispetto a quanto siamo stati abituati finora.
Pertanto è assai urgente affrontare la questione
di come le culture incontrandosi possano trovare fondamenti
etici atti a condurle sulla strada giusta ed a costruire
una comune forma di delimitazione e regolazione del
potere provvista di una legittimazione giuridica.
Ai due fattori succitati se ne aggiunge un terzo: nel
processo di incontro e compenetrazione delle culture
vengono distrutte quelle che erano state finora le principali
certezze in materia di etica. La questione di cosa sia
dunque veramente il bene – soprattutto nel contesto
attuale – e perché lo si debba mettere
in pratica anche a costo di ricavarne un danno personale,
tale questione fondamentale rimane ampiamente senza
risposta.
Ora, mi sembra evidente che la scienza come tale non
può produrre un’etica e dunque una rinnovata
consapevolezza etica non si realizza come prodotto di
dibattiti scientifici. D’altra parte è
anche innegabile che il fondamentale cambiamento della
concezione del mondo e dell’essere umano, risultato
delle crescenti conoscenze scientifiche, abbia svolto
un ruolo essenziale nella distruzione delle antiche
certezze morali.
A tale riguardo, esiste però una responsabilità
della scienza nei confronti dell’essere umano
in quanto tale, e soprattutto una responsabilità
della filosofia nell’accompagnare criticamente
lo sviluppo delle singole scienze e nell’esaminare
criticamente conclusioni affrettate e finte certezze
su cosa sia l’essere umano, da dove venga e perché
esista; in altre parole, nel separare l’elemento
non scientifico dai risultati scientifici – con
cui spesso è mescolato – e mantenere lo
sguardo sull’insieme, sulle altre dimensioni della
realtà umana, di cui nella scienza si possono
mostrare solo aspetti parziali.
Maggioranza e verità
In concreto, è compito della politica sottoporre
il potere al controllo della legge, in modo da garantirne
un uso assennato. Non deve valere la legge del più
forte, ma la forza della legge. Il potere controllato
e guidato da essa è l’opposto della violenza,
che noi intendiamo come potere senza legge e contrario
alla legge. Per questo è importante per ogni
società superare la diffidenza nei confronti
della legge e dei suoi ordinamenti: solo così,
infatti, si esclude l’arbitrio e la libertà
può essere vissuta come libertà condivisa
dalla comunità.
Il compito di porre il potere sotto il controllo del
diritto rimanda, di conseguenza, all’ulteriore
questione di come nasce il diritto e di come deve essere
il diritto affinché sia strumento della giustizia
e non del privilegio di coloro che detengono il potere
di legiferare. Il problema della necessità che
il diritto non sia strumento di pochi, ma espressione
dell’interesse comune, appare risolto –
almeno per ora – attraverso gli strumenti del
processo decisorio democratico, perché tutti
collaborano alla nascita del diritto e perciò
esso è la legge di tutti e può e deve
essere considerato tale. Di fatto, la garanzia della
collaborazione nella formazione della legge e nell’equa
gestione del potere è il motivo fondamentale
a favore della definizione della democrazia come la
forma di ordinamento politico più adeguata.
Tuttavia, mi sembra, resta ancora aperta una questione.
Dal momento che difficilmente c’è unanimità
tra gli esseri umani, per il processo decisorio democratico
rimane come strumento indispensabile esclusivamente
la delega della rappresentanza da un lato e la decisione
a maggioranza dall’altro; per quanto riguarda
quest’ultima, in base all’importanza della
decisione si possono richiedere diversi ordini di grandezza
della maggioranza. Anche le maggioranze, però,
possono essere cieche o ingiuste. La storia lo dimostra
in modo più che evidente: quando una maggioranza
– per quanto preponderante – opprime con
norme persecutorie una minoranza, per esempio religiosa
o etnica, si può parlare ancora di giustizia
o in generale di diritto? Il principio di maggioranza
lascia pertanto sempre aperta la questione dei fondamenti
etici della legge: la questione se non esista qualcosa
che non può mai diventare legittimo, qualcosa
dunque che di per sé rimane sempre un’ingiustizia,
oppure al contrario anche qualcosa che per sua natura
è legge immutabile, a prescindere da ogni decisione
della maggioranza, e da essa deve essere rispettata.
L’età moderna ha formulato un patrimonio
di simili elementi normativi nelle differenti dichiarazioni
dei diritti umani e li ha sottratti al gioco delle maggioranze.
Ci si può accontentare, nella coscienza contemporanea,
dell’evidenza interna di questi valori; tuttavia,
anche una simile rinuncia autoimposta ad indagare ha
carattere filosofico. Ci sono dunque valori che valgono
per se stessi, che provengono dalla natura umana e perciò
sono inattaccabili per tutti coloro che possiedono questa
natura. Sulla portata di una simile rappresentazione
dovremo tornare ancora in seguito, tanto più
che tale evidenza oggi non è assolutamente riconosciuta
in tutte le culture.
Quale rapporto tra religione e progresso?
Quando ci si occupa del rapporto tra potere e diritto
e delle fonti del diritto, anche il fenomeno stesso
del potere deve essere preso in esame più approfonditamente.
Non voglio tentare di definire l’essenza del potere
in quanto tale, ma delineare le sfide poste dalle nuove
forme di potere che si sono evolute negli ultimi cinquant’anni.
Nei primi tempi dopo la seconda guerra mondiale, incombeva
lo spettro di un nuovo potere distruttivo per gli uomini,
aumentato con la scoperta della bomba atomica. L’uomo
si vedeva improvvisamente in grado di distruggere se
stesso e il suo mondo. Si levò la questione:
quali meccanismi politici sono necessari, per scongiurare
una simile distruzione? Come possono essere mobilitate
forze etiche che creino tali forme politiche e gli conferiscano
capacità operativa? De facto, per un lungo periodo
fu la competizione tra blocchi di potere contrapposti
e la paura di causare la propria distruzione insieme
con quella dell’altro, che ci ha preservati dallo
spettro della guerra atomica. La limitazione reciproca
del potere e la paura per la propria sopravvivenza si
dimostrarono forze salvatrici.
Nel frattempo, non ci spaventa più tanto la
paura di una grande guerra, bensì la paura del
terrorismo onnipresente, che può colpire e attivarsi
in ogni luogo. L’umanità, vediamo oggi,
non ha bisogno della grande guerra per rendere invivibile
il mondo. I poteri anonimi del terrore, che possono
essere presenti in ogni luogo, sono sufficientemente
forti da perseguitarci tutti fin nella vita d’ogni
giorno, dove permane la minaccia che elementi criminali
guadagnino l’accesso a grandi potenziali di distruzione
e perciò possano sprofondare il mondo nel caos
fuori dall’ordinamento della politica. La questione
del diritto e dell’etica si è dunque spostata:
da quale fonte si alimenta il terrorismo? Come può
l’umanità riuscire a scacciare questa nuova
malattia dal suo interno? Inoltre è spaventoso
che almeno in parte il terrorismo si legittimi moralmente.
I messaggi di Bin Laden presentano il terrorismo come
la risposta dei popoli oppressi e senza potere alla
superbia dei potenti, come la giusta punizione per la
loro arroganza e per il loro sacrilego autoritarismo
e la loro crudeltà. Per persone in determinate
condizioni sociali e politiche simili motivazioni evidentemente
sono convincenti. In parte il comportamento dei terroristi
è rappresentato come la difesa di una tradizione
religiosa contro l’empietà della società
occidentale.
A questo punto si impone un’altra questione su
cui dovremo tornare: se il terrorismo è alimentato
dal fanatismo religioso, come è, la religione
è salvifica e risanatrice, o non piuttosto un
potere arcaico e pericoloso, che crea falsi universalismi
e perciò induce all’intolleranza e al terrorismo?
La religione non deve pertanto essere posta sotto la
tutela della ragione e attentamente delimitata? Sorge
dunque spontaneamente la domanda: chi può farlo?
Come si può fare? Ma la domanda generale rimane:
l’annullamento generalizzato della religione,
il suo superamento, deve essere considerato un necessario
progresso dell’umanità sulla via della
libertà e della tolleranza universale, o no?
Nel frattempo è apparsa in primo piano un’altra
forma di potere, che sembra del tutto benefica e meritevole
di approvazione, ma in realtà può diventare
una nuova minaccia per l’essere umano: l’uomo
è ora in grado di creare essere umani, per così
dire di produrli in provetta. L’uomo diventa un
prodotto, e di conseguenza cambia radicalmente l’atteggiamento
dell’uomo verso se stesso. Non è più
un dono della natura o del Dio creatore; è prodotto
di se stesso. L’uomo è giunto alla sorgente
del potere, nel luogo di origine della propria stessa
esistenza. La tentazione di creare infine l’uomo
perfetto, di condurre esperimenti sugli esseri umani,
di vedere gli esseri umani come spazzatura e di metterli
da parte, non è una fantasticheria di moralisti
nemici del progresso.
Se poco fa ci si è posta la questione se la
religione sia davvero una forza morale positiva, ora
deve affiorare il dubbio sulla affidabilità della
ragione. Alla fin fine, anche la bomba atomica è
un prodotto della ragione e l’allevamento e la
selezione di esseri umani sono stati ideati dalla ragione.
Ora non dovrebbe dunque a sua volta essere messa sotto
osservazione la ragione? Ma da chi o da cosa? O forse
religione e ragione dovrebbero limitarsi a vicenda,
e ciascuna mettere l’altra al suo posto e condurla
sulla propria via positiva? A questo punto di nuovo
si pone la questione di come, in una società
globale con i suoi meccanismi di potere e con le sue
forze senza freni, con le sue differenti visioni di
ciò che è giusto e di ciò che è
morale, si possa trovare una evidenza etica operativa,
con sufficiente potere di motivarsi e di imporsi, per
rispondere alle sfide delineate in precedenza e aiutare
a superarle.
Diritto e ragione
Si raccomanda innanzi tutto uno sguardo alle situazioni
storiche comparabili con la nostra, fino al punto in
cui la comparazione è possibile. Vale la pena
almeno di considerare brevemente che la Grecia conobbe
il suo illuminismo, che il diritto fondato sugli dèi
perse la sua evidenza e si dovette indagare alla ricerca
di più profondi fondamenti del diritto. Così
nacque l’idea che di fronte alla giurisprudenza,
che può essere iniqua, deve esserci una legge
che promani dalla natura, dall’essenza stessa
dell’essere umano. Tale legge deve essere trovata
e rappresenta quindi il correttivo del diritto positivo.
In un’epoca più vicina a noi, si può
considerare la doppia frattura che si è verificata
all’inizio dell’evo moderno per la coscienza
europea e che ha costretto ad una nuova riflessione
sul contenuto e sull’origine del diritto, sin
dai fondamenti. In primo luogo, dunque, l’evasione
dai confini del mondo europeo e cristiano, che si compie
con la scoperta dell’America. Si incontrano popoli
che non appartengono alla compagine di credo e di diritto
cristiana, che era stata fino ad allora l’origine
del diritto per tutti e gli aveva conferito la sua fisionomia.
Ma sono dunque privi di diritto, come molti pensarono
allora e come fu praticato largamente, o esiste un diritto
che supera tutti i sistemi giuridici e lega e delimita
gli esseri umani come tali nel loro incontrarsi? Francisco
de Vitoria in questa situazione ha sviluppato il concetto
preesistente dello «ius gentium», il «diritto
dei popoli», in cui nella parola «gentes»
è compreso anche il significato di pagani, non
cristiani. La seconda frattura nel mondo cristiano si
compì all’interno della cristianità
stessa, attraverso lo scisma con cui la comunità
dei cristiani si divise in comunità diverse e
in parte ostili. Di nuovo occorre sviluppare un diritto
comune precedente al dogma, almeno un minimum giuridico,
le cui basi devono trovare il proprio fondamento non
più nella fede, ma nella natura, nella ragione
umana. Hugo Grotius, Samuel von Pufendorf e altri hanno
sviluppato il concetto di un diritto naturale come diritto
razionale, che oltre le barriere di fede pone in vigore
la ragione come l’organo di comune costruzione
del diritto.
Il diritto naturale è rimasto, soprattutto nella
chiesa cattolica, la figura argomentativa con cui essa
richiama alla ragione comune nel dialogo con le società
laiche e con le altre comunità di fede e con
cui ricerca i fondamenti di una comprensione attraverso
i principi etici del diritto in una società laica
e pluralista. Ma questo strumento è purtroppo
diventato inefficace, e non vorrei basarmi su di esso
in questo intervento. Il concetto del diritto di natura
presuppone un’idea di natura in cui natura e ragione
si compenetrano, la natura stessa è razionale.
Questa visione della natura, con la vittoria della teoria
evoluzionista si è persa. La natura come tale
non sarebbe razionale, anche se in essa v’è
un atteggiamento razionale: questa è la diagnosi
che per noi ne deriva e che oggi appare per lo più
inoppugnabile. Delle differenti dimensioni del concetto
di natura, su cui si fondava un tempo il diritto naturale,
rimane dunque solo quella sintetizzata da Ulpiano (III
secolo d. C.) nella nota formulazione: «Ius naturae
est, quod natura omnia animalia docet». Ma ciò
non basta per le nostre questioni, in cui si tratta
di individuare non già cosa riguarda tutti gli
«animalia», ma gli specifici doveri, che
la ragione umana ha creato per gli uomini e ai quali
non si possono fornire risposte senza la ragione.
Come ultimo elemento del diritto naturale, che vuole
essere il più profondamente possibile un diritto
razionale – almeno nell’età moderna
– sono rimasti i diritti umani. Essi non sono
comprensibili senza presupporre che l’uomo in
quanto tale, semplicemente per la sua appartenenza alla
specie umana, sia soggetto di diritti, che il suo essere
stesso comporti valori e norme che devono essere individuati,
ma non inventati. Forse oggi la teoria dei diritti umani
dovrebbe essere integrata da una dottrina dei doveri
umani e dei limiti umani, e ciò potrebbe però
aiutare a rinnovare la questione, se non ci possa essere
una ragione naturale, e dunque un diritto razionale,
per l’uomo e la sua esistenza nel mondo. Un simile
discorso dovrebbe oggi essere interpretato e applicato
interculturalmente. Per i cristiani ciò avrebbe
a che fare con la creazione e con il Creatore. Nel mondo
indiano corrisponderebbe al concetto di «Dharma»,
la legge interna all’essere, nella tradizione
cinese all’idea degli ordinamenti celesti.
L’interculturalità e le sue conseguenze
Prima che di arrivare alle considerazioni finali, vorrei
approfondire il discorso accennato poc’anzi. L’interculturalità
mi sembra rappresentare oggi una dimensione inevitabile
della discussione sulle questioni fondamentali dell’essenza
dell’essere umano, che non può essere condotta
né del tutto all’interno del Cristianesimo
né puramente all’interno della tradizione
razionalista occidentale. Infatti, entrambi si considerano
universali in base alla propria percezione di sé
e aspirano ad esserlo anche de iure. Devono però
riconoscere de facto che sono accettate e addirittura
comprensibili solo per una parte dell’umanità.
Il numero delle culture concorrenti è tuttavia
molto più limitato di quanto può sembrare
ad un primo sguardo.
Prima di tutto è importante il fatto che non
esiste alcuna unanimità all’interno delle
aree culturali, ma tutte subiscono l’influenza
di profondi conflitti all’interno della propria
tradizione culturale. In occidente è del tutto
evidente. Anche se predomina largamente la cultura laica
di una rigorosa razionalità, di cui Habermas
ci ha fornito un’immagine persuasiva, ed essa
si considera vincolante, la percezione cristiana della
realtà oggi come ieri è una forza attiva.
Gli estremi si trovano di volta in volta vicini o in
conflitto, con reciproca disponibilità a imparare
oppure in più o meno deciso rifiuto l’uno
dell’altra. Anche la cultura islamica è
influenzata da simili tensioni; dall’assolutismo
fanatico di un Bin Laden fino agli atteggiamenti che
rimangono aperti a una razionalità tollerante,
si stende un ampio ventaglio. La terza grande area culturale
– la cultura indiana, o meglio le aree culturali
dell’Induismo e del Buddismo – è
attraversata nuovamente da simili conflitti, anche se
essi si manifestano in modo meno drammatico, almeno
ai nostri occhi. Anche questa cultura si vede esposta
alle rivendicazioni della razionalità occidentale
come alle domande della fede cristiana, le une e le
altre rappresentate in essa. Le culture tribali africane
e quelle latinoamericane, risvegliate da determinate
teologie cristiane, completano il quadro. Appaiono mettere
in discussione la razionalità occidentale, ma
anche la rivendicazione universale del messaggio cristiano.
Qual è la conseguenza di tutto ciò? Innanzi
tutto, mi sembra, la non universalità di fatto
di entrambe le principali culture dell’occidente,
quella della fede cristiana e quella della razionalità
laica, per quanto entrambe esercitino – ciascuna
a sua modo – un influsso su tutto il mondo e tutte
le culture. A tale riguardo mi sembra che la questione
dei colleghi di Teheran, che Habermas ha citato, sia
dunque di qualche peso: cioè la questione se
la secolarizzazione europea, in una prospettiva di culture
comparate e di sociologia della religione, non sia una
deviazione che necessita una correzione. Non ridurrei
la questione esclusivamente, o almeno non necessariamente,
alla posizione di Carl Schmitt, Martin Heidegger e Leo
Strauss, circa una situazione europea per così
dire stanca di razionalità. Comunque, è
un dato di fatto che la nostra razionalità secolare,
per quanto illumini la nostra ragione di formazione
occidentale, non è comprensiva di ogni ragione
che, in quanto razionalità, nella sua ricerca
di rendersi evidente urta contro dei limiti. La sua
evidenza è di fatto legata a determinati contesti
culturali, e deve riconoscere che, in quanto tale, non
è comprensibile a tutta l’umanità
e perciò in se stessa non può neppure
essere del tutto operativa. In altre parole, non esiste
una formula di interpretazione del mondo razionale,
etica o religiosa, su cui tutti siano d’accordo
e che potrebbe dunque sostenere il tutto; comunque è
attualmente irraggiungibile. Perciò anche la
cosiddetta etica globale rimane un’astrazione.
Disponibilità (reciproca) ad apprendere
Che fare, dunque? Per ciò che riguarda le conseguenze
pratiche, mi trovo in ampio accordo con ciò che
Habermas ha esposto sulla società post-secolare,
riguardo la disponibilità ad apprendere e la
autolimitazione da entrambe le parti. Vorrei riassumere
la mia opinione personale in due tesi. In primo luogo,
abbiamo visto che ci sono patologie nella religione,
che sono assai pericolose e che rendono necessario considerare
la luce divina della ragione come un organo di controllo,
dal quale la religione deve costantemente lasciarsi
chiarificare e regolamentare; questo era anche il pensiero
dei Padri della Chiesa. Ma nelle nostre riflessioni
si è anche mostrato che esistono patologie anche
nella ragione (cosa che all’umanità oggi
non è altrettanto nota): una hybris della ragione,
che non è meno pericolosa, ma a causa della sua
potenziale efficacia è ancora più minacciosa:
la bomba atomica, l’uomo visto come un prodotto.
Perciò anche alla ragione devono essere rammentati
i suoi limiti ed essa deve imparare la capacità
di ascolto nei confronti delle grandi tradizioni religiose
dell’umanità. Quando essa si emancipa completamente
e rifiuta questa capacità di apprendere, questo
rapporto correlativo, diventa distruttiva.
Kurt Hübner ha brevemente formulato una simile
esortazione dicendo che con una tesi del genere non
si tratterebbe di un «ritorno alla fede»,
ma della «liberazione dall’errore epocale,
che essa (cioè la fede) non abbia più
nulla da dire ai contemporanei, perché in contrasto
con la loro idea umanistica di ragione, illuminismo
e libertà» (in Das Christentum im Wettstreit
der Religionen, Mohr Siebeck, 2003, pag. 148).
Di conseguenza parlerei della necessità di un
rapporto correlativo tra ragione e fede, ragione e religione,
che sono chiamate alla reciproca chiarificazione e devono
far uso l’una dell’altra e riconoscersi
reciprocamente.
In secondo luogo, questa regola di base deve essere
messa in pratica nel contesto interculturale della contemporaneità.
Senza dubbio, i due partner principali in questo rapporto
correlativo sono la fede cristiana e la razionalità
laica occidentale: si può e si deve dirlo senza
falso eurocentrismo. Entrambi determinano la situazione
globale come nessun’altra delle forze culturali.
Ciò non significa però che sia lecito
accantonare le altre culture come un’entità
in qualche modo trascurabile. Ciò sarebbe una
hybris occidentale, che pagheremmo cara e in parte già
paghiamo. È importante per entrambe le grandi
componenti della cultura occidentale acconsentire ad
un ascolto, ad un rapporto di scambio anche con queste
culture. È importante accoglierle nel tentativo
di una correlazione polifonica, in cui esse si aprano
spontaneamente alla complementarità essenziale
di ragione e fede, cosicché possa crescere un
processo universale di chiarificazione, in cui infine
le norme e i valori essenziali in qualche modo conosciuti
o intuiti da tutti gli esseri umani possano acquistare
nuovo potere di illuminare, cosicché ciò
che tiene unito il mondo possa nuovamente conseguire
un potere efficace nell’umanità.
(traduzione dal tedesco di Lorenzo Lozzi Gallo)
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