Il 19
gennaio 2004 il cardinale Joseph
Ratzinger e Jürgen Habermas si incontrano a
Monaco presso la Katholische Akademie in Bayern. Nul
numero 83 di Reset (maggio-giugno ‘04)
un dossier dal titolo “Democrazia bisognosa di
religione?” contiene le trascrizioni degli interventi
che qui riportiamo.
Il tema proposto per la nostra discussione ricorda
una questione che Ernst Wolfgang Böckenförde,
a metà degli anni ’60, ha racchiuso in
una pregnante formulazione: lo Stato liberale e secolarizzato
si nutre di premesse normative che esso, da solo, non
può garantire (Die Entstehung des Staates
als Vorgang der Säkularisation, 1967, in:
Recht, Staat, Freiheit, Suhrkamp, Frankfurt
am Main 1991, pp. 92 e ss). In essa si esprime il dubbio
se lo Stato democratico costituzionale possa rinnovare
in maniera autonoma le condizioni normative della propria
esistenza, nonché l’ipotesi che questa
forma statuale dipenda da tradizioni metafisiche o religiose
autoctone, o comunque da tradizioni etiche vincolanti
per la collettività. La cosa metterebbe in difficoltà
il concetto di uno Stato obbligato, stante il «fatto
del pluralismo» (Rawls), alla neutralità
in materia di visione del mondo. Tale conclusione, tuttavia,
non contraddice l’ipotesi sopra esposta.
Vorrei cominciare guardando il problema da due punti
di vista. Da un punto di vista cognitivo, il dubbio
rimanda alla questione se il potere politico, dopo la
completa positivizzazione del diritto, sia in generale
ancora aperto ad una giustificazione secolarizzata,
vale a dire post-metafisica o non religiosa. Ma anche
ammessa una legittimazione di tal genere, rimane il
dubbio se, dal punto di vista motivazionale, una comunità
pluralista possa mantenersi stabile poggiando, anziché
su un semplice modus vivendi, su un accordo fondamentale
di carattere normativo e limitato da procedure e principi.
Inoltre, anche se il dubbio viene scacciato, rimane
inteso che gli ordinamenti liberali dipendono dalla
solidarietà dei cittadini – le cui fonti,
questo è il punto, potrebbero esaurirsi a causa
di una secolarizzazione della società dai caratteri
aberranti. Questa diagnosi non va rigettata, ma non
deve essere accolta in senso tale che i più dotti
difensori della religione possano, per così dire,
derivarne «plusvalore» argomentativo. In
alternativa, proporrò di intendere la secolarizzazione
sociale e culturale come un processo di apprendimento
biunivoco, che costringe tanto le tradizioni illuministe
quanto le dottrine religiose a riflettere sui rispettivi
confini. Con riferimento alle società post-secolari,
infine, si pone la questione di quali siano gli atteggiamenti
cognitivi e le attese normative che lo Stato liberale
deve pretendere, nei loro rapporti reciproci, dai cittadini
credenti e da quelli non credenti.
Una giustificazione secolarizzata?
Il liberalismo politico (che io difendo nella particolare
versione del repubblicanesimo kantiano: cfr J. Habermas,
L’inclusione dell’altro, Feltrinelli,
1998) si auto-comprende come una legittimazione non
religiosa e post-metafisica dei fondamenti normativi
di uno Stato democratico costituzionale. Questa teoria
si colloca nella tradizione di un diritto di ragione
che rinuncia agli impegnativi assunti cosmologici o
storico-salvifici delle dottrine, classiche e religiose,
del diritto di natura. La storia della teologia cristiana
nel Medioevo, in particolare la tarda scolastica spagnola,
appartengono naturalmente alla genealogia dei diritti
umani. Tuttavia, i fondamenti di legittimazione di un
potere statuale che resti neutrale in materia di visioni
del mondo derivano, in ultima analisi, dalle fonti profane
costituite dalla filosofia del XVII e XVIII sec. Solo
molto più tardi teologia e Chiesa superano le
sfide spirituali poste dagli Stati costituzionali rivoluzionari.
Da parte cattolica, stante un rapporto piuttosto privo
di tensioni (gelassenes) con il lumen naturale,
in fondo nulla impedisce, se ben intendo, una fondazione
autonoma (cioè indipendente dalle verità
rivelate) di morale e diritto.
La fondazione post-kantiana dei principi costituzionali
liberali si è dovuta confrontare, nel XX sec.,
più con forme storicistiche ed empiristiche di
critica che con i residui di un diritto naturale oggettivo
(come l’etica sostantiva dei valori). A mio giudizio,
sono sufficienti assunzioni filosoficamente poco impegnative
circa il contenuto normativo della costituzione comunicativa
di forme di vita socio-culturali per difendere, contro
il contestualismo, un concetto non disfattistico di
ragione; contro il giuspositivismo, invece, un concetto
non decisionistico di validità giuridica. Il
compito centrale consiste, allora, nello spiegare: a)
perché il processo democratico valga come metodo
di produzione legittima di diritto: nella misura in
cui assicura le condizioni di una formazione inclusiva
quanto discorsiva di opinioni e volontà, esso
legittima la presunzione dell’accettabilità
razionale dei risultati; e b) perché diritti
umani e democrazia si intreccino fin dall’origine
nel processo costituente: l’istituzionalizzazione
giuridica delle procedure democratiche per la produzione
del diritto richiede la contemporanea garanzia dei diritti
fondamentali liberali quanto di quelli politici (J.
Habermas, Fatti e norme, Guerini e Associati,
1996).
Il punto di riferimento di questa strategia di giustificazione
consiste nella costituzione che i cittadini stessi si
danno , stringendosi in associazione, non già
nel semplice addomesticamento di un potere statuale
dato – questo, infatti, deve prima essere prodotto
seguendo l’itinerario del processo costituente
democratico. Un potere statuale «costituito»
(non solo addomesticato per via costituzionale) è
giuridificato (verrechtlicht) fin nella sua
fibra più intima, in modo tale che il diritto
pervada senza residui il potere politico. Nella concezione
positivistica del volere statuale, che affonda le sue
radici nel periodo della Germania imperiale, la dottrina
del diritto pubblico tedesca (da Laband a Jellinek fino
a Carl Schmitt) aveva lasciato un varco per una sostanza
etica, «dello Stato» o «del politico»,
sottratta al diritto; nello stato costituzionale, invece,
non c’è alcuna istanza il cui potere si
nutra di una sostanza pre-giuridica (H. Brunkhorst,
Der lange Schatten des Staatswillenspositivismus,
«Leviathan» 31, 2003, pp. 362-381). La sovranità
pre-costituzionale dei principi non lascia alcun vuoto,
che dovrebbe adesso – sotto forma di ethos di
un popolo più o meno omogeneo – essere
riempito da una sovranità popolare altrettanto
sostanziale.
Alla luce di questa eredità problematica, la
questione di Böckenförde è stata intesa
come se un ordinamento costituzionale integralmente
positivizzato avesse bisogno, come puntello cognitivo
dei propri fondamenti di validità, della religione
o di qualche altra «potenza coesiva». In
questa versione, la pretesa di validità del diritto
positivo è rimessa a un suo radicamento nelle
convinzioni, etiche e pre-politiche, di comunità
nazionali o religiose, poiché un tale ordinamento
giuridico non può essere legittimato in maniera
auto-referenziale solo da procedure giuridiche poste
per via democratica.
Quando, però, si concepisce il processo democratico
non, positivisticamente, come Kelsen o Luhmann, ma come
un metodo per produrre legittimità dalla legalità,
non insorge quel deficit di validità che l’«eticità»
sarebbe chiamata a riempire. Rispetto a una concezione
dello stato costituzionale ispirata alla destra hegeliana,
la linea proceduralista, facente capo a Kant, insiste
su una giustificazione dei principi costituzionali autonoma
e con pretesa di risultare razionalmente accettabile
da parte di tutti i cittadini.
Dispendio motivazionale e pratica democratica
Nel seguito muovo dall’assunto secondo cui la
costituzione di uno stato liberale sappia provvedere
al proprio bisogno di legittimazione in modo autosufficiente,
ovvero a partire dalle risorse cognitive di un’economia
argomentativa indipendente da tradizioni religiose o
metafisiche. Nonostante tale premessa, rimane un dubbio
di carattere motivazionale. I presupposti normativi
di uno stato costituzionale democratico, infatti, sono
più impegnativi per chi assume il ruolo di cittadino
dello Stato, quindi di autore del diritto, rispetto
a chi assume il ruolo di membro della società,
rientrando così tra i destinatari del diritto.
Da costoro, in effetti, ci si aspetta solo che facciano
valere le rispettive libertà (e pretese) senza
oltrepassare i limiti posti dalle leggi. Rispetto alla
semplice osservanza di leggi coercitive di libertà,
sono ben diverse le motivazioni e gli atteggiamenti
che ci si attende da cittadini che hanno da assumere
il ruolo di co-legislatori democratici.
Questi devono far valere i propri diritti di comunicazione
e partecipazione in maniera attiva e, anzi, non solo
nell’ottica di un illuminato autointeresse, ma
nella prospettiva del bene comune. Per tutto questo,
il dispendio motivazionale richiesto è molto
alto e non può essere imposto per via legale.
Un dovere di partecipazione al voto sarebbe,
in uno stato di diritto democratico, un corpo estraneo,
un po’ come una solidarietà imposta
per legge. La disponibilità, da parte dei
cittadini di una comunità liberale, a farsi carico,
all’occorrenza, delle istanze di concittadini
estranei e anonimi e ad accettare sacrifici per l’interesse
comune può essere soltanto presunta. Per questo
motivo le virtù politiche, anche se sono ripagate
in maniera non proporzionale, sono essenziali per l’esistenza
della democrazia. Sono la posta della socializzazione
e della consuetudine alle pratiche e agli atteggiamenti
mentali che caratterizzano una cultura politica liberale.
Lo status di cittadino è per così dire
incassato in una società civile nutrita da fonti
spontanee o, se si preferisce, «pre-politiche».
Da ciò non segue che lo stato liberale sia incapace
di riprodurre autonomamente le proprie premesse motivazionali
facendo ricorso a risorse secolarizzate. I motivi per
cui i cittadini partecipano al confronto e al processo
decisionale si radicano certo in progetti individuali
e in forme di vita culturali. Le pratiche democratiche,
però, sviluppano una dinamica politica propria.
Solo uno stato di diritto senza democrazia, cui in Germania
siamo stati abituati sufficientemente a lungo, suggerirebbe
una risposta negativa alla domanda di Böckenförde:
«Popoli uniti in forma statuale possono davvero
sussistere facendo esclusivo riferimento alla prestazione
di garanzia della libertà individuale, senza
un vincolo unificante che sia presupposto di questa
libertà?». Lo Stato di diritto costituito
democraticamente non garantisce solo le libertà
negative affinché i singoli membri della società
possano curare il proprio bene; mettendo a disposizione
libertà comunicative, infatti, esso mobilita
anche la partecipazione dei cittadini al pubblico dibattito
su temi che riguardano contemporanemente tutti. Il perduto
«vincolo unificante» è ora un processo
democratico in cui, in ultima istanza, è in discussione
la giusta interpretazione della costituzione.
Questo è quello che si verifica, per esempio,
nelle attuali divergenze sulla riforma del welfare,
sulla politica dell’immigrazione, la guerra in
Iraq e la cancellazione del servizio militare obbligatorio:
non si tratta solo di singole policies, ma sempre anche
di interpretazioni controverse di principi costituzionali
– e, implicitamente, di come vogliamo pensarci,
in quanto cittadini della Repubblica federale e come
europei, alla luce della molteplicità delle nostre
forme di vita culturali e del pluralismo in fatto di
visioni del mondo e convinzioni religiose. Certamente,
considerando il passato, un comune retroterra religioso,
una lingua comune e soprattutto il recente risveglio
di una coscienza nazionale sono stati di grande aiuto
per la creazione di una solidarietà civica altamente
astratta. Le convinzioni repubblicane, però,
nel frattempo si sono ampiamente sciolte da questi ancoraggi
prepolitici – che noi non siamo pronti a «morire
per Nizza» non rappresenta più un’obiezione
contro una Costituzione europea.
Si pensi al dibattito etico-politico sull’olocausto
e sui crimini di massa, necessario perché la
cittadinanza della Repubblica tedesca divenisse consapevole
della conquista rappresentata dalla Costituzione. L’esempio
di una «politica della memoria» autocritica
(che nel frattempo ha perso i caratteri di eccezionalità,
diffondendosi anche in altri Paesi) mostra come i legami
al patriottismo della costituzione si formino e si rinnovino
nel medium della politica stessa.
Contro un fraintendimento assai diffuso, «patriottismo
della Costituzione» significa che i cittadini
si appropriano dei principi della Costituzione non solo
nel loro contenuto astratto, ma anche, partendo dal
contesto della rispettiva storia nazionale, nel loro
significato concreto. Se i contenuti morali dei diritti
fondamentali devono prendere piede a livello di convincimenti
personali (gesinnungen), il livello cognitivo
non basta. Solo per la integrazione di un ordine cosmopolitico
(se mai un giorno esso si darà) sarebbero sufficienti
ragionamento morale e concorde indignazione su scala
mondiale nei confronti di grosse violazioni dei diritti
umani.
Tra i membri di una comunità politica si sviluppa
solidarietà – come sempre anche astratta
e giuridicamente mediata – se, innanzitutto, i
principi di equità si fanno strada nell’intreccio
più fitto degli orientamenti valoriali.
Religione, sfida cognitiva per la ragione
In base alle considerazioni fatte finora, la natura
secolare dello stato costituzionale democratico non
presenta alcuna debolezza insita nel sistema politico
in quanto tale, dunque interna, che comprometta un’autostabilizzazione
nell’aspetto cognitivo o motivazionale. Con ciò
non sono esclusi motivi esterni. Una modernizzazione
aberrante della società presa nel suo complesso
potrebbe rendere molto debole il legame democratico
ed esaurire quella particolare forma di solidarietà
da cui lo Stato democratico dipende, senza poterla imporre,
però, per via giuridica. Si presenterebbe allora
proprio quella situazione che Böckenförde
vede: la trasformazione dei cittadini di società
liberali benestanti e pacifiche in monadi isolate, che
agiscono solo sulla base del proprio interesse e usano
i propri diritti individuali come armi contro il prossimo.
Evidenze di un simile sfaldamento della solidarietà
tra cittadini dello Stato si mostrano nel più
ampio contesto della dinamica, non politicamente controllata,
dell’economia e della società globalizzata.
I mercati, che non possono essere democratizzati come
le amministrazioni statali, assumono crescenti funzioni
di regolazione in ambiti della vita che, finora, sono
stati tenuti insieme normativamente, quindi con la politica
o con forme pre-politiche di comunicazione. In questo
modo, non solo le sfere private vengono spostate in
misura crescente verso meccanismi di azione volti al
perseguimento del successo e orientati dalle preferenze
individuali; anche l’ambito sottoposto al vincolo
di legittimazione pubblica viene a restringersi. L’assolutizzazione
dell’ottica privata (privatismus) del
cittadino è rafforzata dalla scoraggiante perdita
di efficacia di un processo di formazione democratica
delle decisioni e delle opinioni che, per ora, funziona
parzialmente solo nelle arene nazionali e che perciò
non raggiunge i processi decisionali spostati a livelli
sopranazionali. Anche l’affievolirsi della speranza
nella comunità internazionale quale forza strutturante
in ambito politico incoraggia la tendenza alla depoliticizzazione
dei cittadini. Di fronte ai conflitti e alle intollerabili
ingiustizie sociali di una società globale in
gran parte frammentata, cresce la delusione ad ogni
ulteriore insuccesso sulla via, intrapresa dopo il 1945,
di una costituzionalizzazione del diritto dei popoli.
Le teorie postmoderne concettualizzano le crisi attraverso
una critica della ragione: non le descrivono come la
conseguenza di un esaurimento selettivo dei potenziali
di razionalità comunque insiti nella modernità
occidentale, ma come logico risultato del programma
di una razionalizzazione spirituale e sociale autodistruttiva.
Uno scetticismo radicale nei confronti della ragione
è invero originariamente estraneo alla tradizione
cattolica. Il cattolicesimo, tuttavia, ha avuto difficoltà
fino agli anni ’60 del secolo scorso a dialogare
con il pensiero secolare di umanesimo, illuminismo e
liberalismo politico. Qui trova oggi risonanza quel
teorema secondo cui solo l’orientamento religioso
verso un punto di riferimento trascendente potrebbe
far uscire dal vicolo cieco una modernità contrita.
A Teheran un collega mi chiese se, da un punto di vista
di comparazione delle culture e di sociologia della
religione, la secolarizzazione europea non sia il caso
autenticamente abnorme che deve essere corretto. Ciò
ricorda il clima della Repubblica di Weimar, Carl Schmitt,
Heidegger o Leo Strauss.
Ritengo che sarebbe meglio non spingere l’interrogativo
– se una modernità ambivalente si stabilizzi
solo grazie alle risorse secolari di una ragione comunicativa
– fino al parossismo, in un’ottica di critica
della ragione: è preferibile, semmai, sdrammatizzare
la domanda, considerandola una questione empirica aperta.
Per questo vorrei far entrare nella discussione il fenomeno
della persistenza della religione in un ambiente sempre
più secolare, assumendolo, però, non in
qualità di semplice dato di fatto sociale. La
filosofiadeve prendere sul serio questo fenomeno, per
così dire, dall’interno, assumendolo come
una sfida cognitiva. Prima di seguire questa
linea di discussione, vorrei però indicare una
plausibile diramazione del dialogo. Lungo il tragitto
della radicalizzazione della critica della ragione,
la filosofia si è mossa anche verso una riflessione
sulle proprie origini metafisico-religiose e, occasionalmente,
si è lasciata coinvolgere nel dibattito con una
teologia che, per parte sua, ha cercato una conciliazione
nei tentativi filosofici di un’auto-riflessione
(posthegeliana) della ragione su se stessa (P. Neuner,
G. Wenz, a cura di, Theologen des 20. Jahrhunderts,
Darmstadt 2002).
Digressione
Punto di aggancio per il discorso filosofico su Ragione
e Rivelazione è una figura di pensiero che si
presenta continuamente: la ragione che riflette sulle
proprie radici più profonde si scopre originata
da un’istanza altra, della quale è costretta
a riconoscere il fatale potere, se non deve perdere
il proprio orientamento razionale nel vicolo cieco di
un’auto-appropriazione ibrida. Il modello consiste
nell’esercizio di un mutamento radicale compiuto,
o almeno innescato, con le proprie forze, di una conversione
della ragione attraverso la ragione – è
indifferente se la riflessione, come per Schleiermacher,
comincia dall’auto-coscienza del soggetto conoscente
e agente o, come per Kierkegaard, dalla storicità
di un intimo auto-accertamento esistenziale o ancora,
come per Hegel, Feuerbach e Marx, da urtanti lacerazioni
nei rapporti etici. Senza avere un’iniziale intento
teologico, una ragione che diventa consapevole dei propri
limiti si supera in direzione di qualcosa d’altro:
sia che ciò avvenga nella fusione mistica con
una coscienza cosmica, nell’attesa disperante
dell’Evento (Ereignis) storico di un
messaggio salvifico o nella forma di solidarietà
anticipante nei confronti di umiliati e offesi, tesa
ad accelerare la salvazione messianica. Queste divinità
anonime della metafisica post-hegeliana – la coscienza
cosmica, l’evento insondabile, la società
non alienata – sono facili prede della teologia.
Si prestano infatti ad essere decifrate come pseudonimi
della Trinità del Dio personale che comunica
se stesso.
Questi tentativi di rinnovare, dopo Hegel, una teologia
filosofica, destano in ogni caso più simpatia
di quel nietzcheanesimo che si limita a prendere in
prestito i tratti caratteristici del Cristianesimo -
ascolto e apprendimento, raccoglimento e attesa della
Grazia, avvento e evento – per riportare ad un
tempo arcaico indefinito, antecedente a Cristo e Socrate,
un pensiero svuotato del suo nucleo proposizionale.
All’opposto si colloca una filosofia che, consapevole
della propria fallibilità e della fragilità
della propria posizione nell’edificio differenziato
della società moderna, insiste sulla differenza
di genere (la cosa non va intesa assolutamente in senso
denigratorio) tra discorso laico, con pretesa di risultare
accessibile a tutti, e discorso religioso, dipendente
da verità rivelate. Diversamente che per Kant
e Hegel, questa delimitazione grammaticale non si lega
alla pretesa filosofica di definire autonomamente cosa
è vero e cosa è falso nei contenuti delle
tradizioni religiose, al di là del sapere mondano
socialmente istituzionalizzato. Il rispetto, che va
di pari passo, sul piano cognitivo, con questa sospensione
del giudizio, è originato dalla considerazione
per persone e forme di vita che trovano nelle convinzioni
religiose la fonte dell’integrità e dell’autenticità.
Ma il rispetto non è tutto, la filosofia ha motivo
per mostrarsi pronta ad apprendere dalle tradizioni
religiose.
Secolarizzazione come apprendimento reciproco
In contrasto con la sobrietà etica del pensiero
postmetafisico, cui si sottrae ogni concetto generale
vincolante di vita buona ed esemplare, nelle Sacre Scritture
e nelle tradizioni religiose vi sono intuizioni, sull’errore,
sulla redenzione e sulla salvezza da una vita esperita
come priva di speranza, che nei secoli sono state sottilmente
articolate e tenute vive per mezzo della pratica ermeneutica.
Per questo, nella vita delle comunità religiose,
nella misura in cui evitano dogmatismo e costrizioni
della coscienza individuale, può rimanere intatto
quello che altrove è andato perduto e non può
essere prodotto nuovamente soltanto con il sapere professionale
di esperti: possibilità di espressione sufficientemente
differenziate, sensibilità per vite andate male,
per le patologie sociali, per l’insuccesso di
progetti di vita individuali e per le deformazioni di
contesti di vita sfigurati. A partire dall’asimmetria
delle rispettive pretese epistemiche si può fondare
una disponibilità all’apprendimento della
filosofia nei confronti della religione: non per motivi
funzionali, ma – in ricordo del riuscito processo
di apprendimento «hegeliano» – per
motivi di contenuto.
La reciproca compenetrazione di Cristianesimo e metafisica
greca ha prodotto non solo la forma intellettuale della
dogmatica teologica e una – non del tutto benefica
– ellenizzazione del cristianesimo. Ha anche incoraggiato
l’assorbimento, per tramite della filosofia, di
contenuti genuinamente cristiani. Questo processo si
è concentrato su reti di concetti normativi fortemente
connotate, come responsabilità, autonomia e giustificazione,
come storia e memoria, rinnovamento, innovazione e ritorno,
emancipazione e realizzazione, interiorizzazione, estraneazione
e incarnazione, individualità e società.
Esso ne ha certamente trasformato il senso religioso
originario, ma non li ha deflazionati e consumati in
modo da svuotarli di significato. La traduzione dell’idea
dell’uomo fatto a immagine e somiglianza di Dio
nell’uguale valore e dignità di tutti gli
esseri umani è un esempio di traduzione che salva
il contenuto originario. Essa rende accessibile il contenuto
dei concetti biblici, oltre i confini di una comunità
di fede, a tutti coloro che non credono o professano
altre fedi. Benjamin fu una persona cui riuscirono,
alcune volte, simili traduzioni.
Sulla base di questa esperienza di liberazione secolarizzante
dei potenziali di significato incapsulati nella religione,
possiamo dare un senso non capzioso al teorema di Böckenförde.
Ho citato la diagnosi in base a cui l’equilibrio
stabilitosi nella modernità tra i tre grandi
mezzi di integrazione sociale è in pericolo,
dal momento che i mercati e il potere amministrativo
spodestano da un numero sempre più grande di
ambiti della vita/sfere vitali la solidarietà
sociale, cioè un coordinamento dell’azione
basato su valori, norme e uso della lingua volto all’intesa.
Per questo è anche nel proprio interesse, per
lo Stato costituzionale, trattare con rispetto tutte
le fonti di cultura da cui si alimentano la coscienza
normativa e la solidarietà dei cittadini. Questa
consapevolezza fattasi conservatrice si riflette nel
discorso della «società post-secolare»
(K. Eder. Europäische Säkularisierung
– ein Sonderweg in die postsäkulare Gesellschaft?,
«Berliner Journal für Soziologie»,
3, 2002, pp. 331-343).
Con ciò non si intende solo il dato di fatto,
che la religione si afferma in un ambiente sempre più
secolare e che la società deve tener conto della
sopravvivenza delle comunità religiose. L’espressione
«post-secolare» non tributa semplicemente
alle comunità religiose un pubblico riconoscimento
per il contributo funzionale che esse prestano per la
riproduzione delle motivazioni e degli atteggiamenti
desiderati. Nella consapevolezza pubblica di una società
post-secolare si riflette piuttosto una visione normativa
che ha conseguenze per i rapporti politici tra cittadini
non credenti e credenti. Nella società post-secolare
si impone il riconoscimento del fatto che la «modernizzazione
della consapevolezza pubblica» coinvolge e rende
riflessive mentalità, religiose e laiche, asincrone.
Entrambe le parti possono dunque prendere sul serio
i reciproci contributi su temi controversi nell’opinione
pubblica politica anche per motivi cognitivi, se intendono
insieme la secolarizzazione della società come
un processo di apprendimento complementare.
Attese normative verso credenti e non credenti
Da un lato la consapevolezza religiosa è stata
obbligata a processi di adeguamento. Ogni religione
è originariamente «visione del mondo»
o «dottrina comprensiva» anche nel senso
che rivendica l’autorità di strutturare
in toto una forma di vita. La religione ha
dovuto rinunciare a questa pretesa di monopolio dell’interpretazione
e di organizzazione complessiva della vita, dati i vincoli
della secolarizzazione del sapere, della neutralità
del potere statale e della libertà di religione
generalizzata. Con la differenziazione funzionale di
sotto-sistemi sociali parziali, anche la vita delle
comunità religiose si separa dal proprio contesto
sociale. Il ruolo del membro della comunità di
fede si differenzia da quello del cittadino della società.
E dal momento che lo Stato liberale dipende da una integrazione
politica dei cittadini che superi un semplice modus
vivendi, tale differenziazione delle appartenenze non
può esaurirsi, per l’etica religiosa, in
un adattamento cognitivo senza pretese specifiche a
leggi imposte da parte della società secolare.
Piuttosto, l’ordinamento giuridico universalistico
e la morale sociale egalitaria devono unirsi così
profondamente all’etica della comunità
da risultare reciprocamente coerenti. Per questo «incastro»
(Einbettung) John Rawls ha scelto l’immagine
del «modello»: questo «modello»
della giustizia mondana, sebbene costruito tramite principi
neutrali rispetto alle visioni del mondo, deve risultare
adatto ad ogni contesto di giustificazione ortodosso
che volta per volta si presenti (J.Rawls. Liberalismo
Politico, Edizioni di Comunità, 1994).
Questa aspettativa normativa, a cui lo Stato liberale
rapporta le comunità religiose, si incontra
con i loro stessi interessi nella misura in cui si apre
la possibilità di esercitare, tramite l’opinione
pubblica politica, un influsso sulla società
nel suo complesso. Certo il carico di conseguenze della
tolleranza, come mostrano i regolamentazioni sull’aborto
più o meno liberali, non si distribuisce simmetricamente
tra credenti e non credenti; tuttavia, anche la coscienza
laica non beneficia gratis della libertà negativa
di religione. Da essa ci si attende l’acquisizione
di un rapporto auto-riflessivo con i limiti dell’Illuminismo.
L’atteggiamento tollerante di società pluraliste
con ordinamento liberale non chiede solo ai credenti
la propensione, nel rapporto con i non credenti e i
credenti di altri fedi, a dover ragionevolmente attendere
la sopravvivenza di un dissenso. Reciprocamente, questa
stessa propensione è richiesta, nel quadro di
una cultura politica liberale, ai non credenti nel rapporto
con i credenti.
Per il cittadino che sia religiosamente stonato ciò
si traduce nell’invito, tutt’altro che banale,
a caratterizzare il rapporto di fede e sapere in modo
autocritico, dalla prospettiva di un sapere mondano.
L’aspettativa di un disaccordo duraturo tra fede
e sapere merita allora il predicato «ragionevole»
solo se alle convinzioni religiose è riconosciuto,
dal punto di vista del sapere laico, uno status epistemico,
che non è semplicemente irrazionale. Nell’opinione
pubblica politica, perciò, visioni del mondo
naturalistiche, debitrici di una rielaborazione speculativa
di informazioni scientifiche e rilevanti per la auto-comprensione
etica dei cittadini, non godono prima facie di alcuna
priorità rispetto a concezioni, di natura religiosa
o cosmologica, concorrenti.
La neutralità del potere statale per ciò
che concerne la visione del mondo, garanzia di eguali
libertà etiche per ogni cittadino, è inconciliabile
con la generalizzazione politica di una visione del
mondo secolaristica. I cittadini secolarizzati non possono,
finché compaiono nel loro ruolo di cittadini
dello Stato, disconoscere un potenziale di verità
in linea di principio alle concezioni del mondo religiose,
né contestare ai propri concittadini credenti
il diritto di contribuire alle discussioni pubbliche
in lingua religiosa. Una cultura politica liberale può
persino richiedere ai cittadini secolarizzati di partecipare
allo sforzo di traduzione di materiali significativi
dalla lingua religiosa ad una lingua accessibile a tutti
(cfr J. Habermas, Glauben und Wissen, Suhrkamp,
Frankfurt am Main 2001).
(traduzione dal tedesco di René Capovin)
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