256 - 26.06.04


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Ma troppa cattiveria fa male alle riforme
Joseph LaPalombara





Mi sembra che le critiche di Pietro Citati siano davvero troppo roboanti e malinformate. E un attacco del genere suscita reazioni forse eccessivamente difensive, come nel caso dell'articolo di Guido Martinotti.

Martinotti, che conosce bene il sistema universitario americano, ha perfettamente ragione nell'evidenziare come una serie di recenti riforme italiane sia di derivazione pi¦ o meno direttamente statunitense. A dire il vero, l'operazione di prendere in prestito elementi da quello che œ largamente considerato come il sistema di istruzione superiore pi¦ soddisfacente al mondo œ stata praticata, e non solo in Italia, per diversi decenni. In Italia, le riforme della fine degli anni Sessanta - che mi hanno visto direttamente impegnato attraverso il Cospos (Comitato per le Scienze Politiche e Sociali) e il Css (Centro Studi Strategici) - erano anch'esse tratte da pratiche statunitensi. Allora come adesso, deve essere aggiunto, c'erano aspetti delle riforme stesse che avevano l'effetto perverso di degradare anzich¹ migliorare la qualitù dell'istruzione universitaria italiana. A questo proposito œ opportuno ricordare le conseguenze nefande e di lungo termine derivate dal garantire un impiego universitario permanente a migliaia di ricercatori e professori le cui qualifiche erano spesso piuttosto dubbie. In ogni caso, mi sembra che Pietro Citati sbagli completamente nel suggerire che i pi¦ recenti fautori del tentativo di riforma stiano inventando nuove regole e nuovi procedimenti dal nulla. L'attacco di Citati non œ solo sbagliato, come Martinotti dimostra in maniera convincente. Infatti, dovendo prendere le sue tesi sul serio, l'effetto sarebbe anche quello di non toccare affatto un sistema universitario italiano che, sotto ogni punto di vista, œ degenerato in uno dei peggiori sistemi di tutta l'Europa occidentale.

Si potrebbe discutere di aspetti specifici della riforma Berlinguer, o di quella del ministro Moratti, ma senza scadere nel tipo di denuncia impetuosa e malinformata avanzata da Pietro Citati. Avendo insegnato pi¦ di una volta nel sistema universitario italiano, e annoverando tra i miei amici e/o colleghi dozzine di persone che vi lavorano, suggerirei che, lontane dall'essere troppo ambiziose o sbagliate, le riforme non si spingono abbastanza lontano. Ecco alcuni dei problemi, molti di essi ben noti in Italia, che richiedono attenzione.

1. Le ammissioni. I dati riportati da Martinotti sul numero di studenti che si iscrivono nelle universitù e il numero (tanto pi¦ basso!) di coloro che completano il proprio percorso di studi sono un'inevitabile conseguenza di un sistema di ammissione estremamente aperto. La ragione per cui, nel complesso, il "rendimento" nelle universitù americane œ tanto pi¦ alto rispetto all'Italia sta nel fatto che molte delle nostre migliori universitù sono a numero chiuso. Ci sono anche altre ragioni, ovviamente, molte delle quali evidenziano il fatto che, a differenza di quanto avviene nella maggior parte dei paesi europei, si pretende che gli studenti universitari americani completino i loro studi in 4 anni e, a dire il vero, molto di quanto si fa nelle universitù, come anche della struttura organizzativa, œ indirizzato al raggiungimento di questo obiettivo. A causa dell'alto tasso di abbandono che prevale in Italia, credo sia stata un'operazione saggia spezzare i programmi italiani, in modo che alcuni degli studenti che si iscrivono possano raggiungere un qualche tipo di certificazione nell'arco di tre anni.

2. A causa delle ammissioni aperte, le universitù italiane mostrano patologie che gettano quasi nel discredito l'idea stessa dell'istruzione superiore. Per esempio, le iscrizioni ai corsi, persino in alcune delle pi¦ eminenti universitù italiane, sono semplicemente ridicole. Lo stesso œ vero per il numero di tesi che i singoli professori devono supervisionare. Quando sento da qualche mio amico e collega italiano che ha 80, 90 o pi¦ tesi da supervisionare, posso solo concludere che soltanto pochissimi docenti tra i pi¦ stacanovisti, o pochi tra quelli pi¦ dediti al lavoro, compiano questo impossibile dovere con un minimo di sincera responsabilitù. Inevitabilmente, solo pochi dei laureandi "preferiti" trovano l'appropriata attenzione mentre gli altri, in un modo o nell'altro, vengono semplicemente trascurati. Credo che gli studenti che si lamentano del fatto che i propri professori non abbiano neppure letto le loro tesi non siano troppo lontani dalla veritù.

3. A dispetto delle riforme, il sistema italiano per l'assegnazione delle cattedre rimane ampiamente e inaccettabilmente particolaristico. Tante di queste importanti promozioni di ruolo sono ancora molto attentamente orchestrate, e perci… il processo in s¹ rimane profondamente contaminato, sia dalla politica che dai rapporti di potere tra i baroni del mondo accademico italiano. Nella natura delle cose, questa pratica œ assai pi¦ facile da cogliere nelle discipline accademiche pi¦ "leggere", come le scienze umanistiche, la giurisprudenza o le scienze sociali, dove i criteri di merito sono molto pi¦ incerti che nel settore delle discipline scientifiche. Martinotti ha di nuovo pienamente ragione nel richiamare l'attenzione sul persistere di questo modo di reclutare i professori in molte discipline.

4. Ritengo che il sistema universitario italiano sia troppo centralizzato, e che trarrebbe invece un notevole beneficio dall'istituzione di un qualcosa di simile a un sistema "federale", che aumentasse nettamente il livello di autonomia locale. Le universitù hanno bisogno di competere tra di loro - per i professori come anche per gli studenti e i laureati. I metodi per qualificare le persone nel mercato del lavoro dovrebbero cambiare in modo tale che una laurea conseguita in una determinata universitù non necessariamente abbia lo stesso valore di una laurea conseguita da qualche altra parte. Le universitù devono essere messe nella condizione di offrire emolumenti, includendo condizioni di lavoro e di studio che permettano di prendere le distanze dalle universitù concorrenti per la qualitù dell'istruzione offerta e, di conseguenza, per la qualitù dei propri "prodotti", il che coinvolge, dopo tutto, gli studenti che si laureano in queste istituzioni e le ricerche che vengono svolte nelle aule, nei laboratori e nelle biblioteche.

5. Per quanto riguarda le biblioteche, penso sia giusto dire che, per molti decenni ormai, questo specifico e cruciale aspetto dell'universitù italiana sia stato una vergogna nazionale. Martinotti affronta solo alcuni aspetti di questo problema. Non œ solo che le biblioteche sono sotto-finanziate, o che le acquisizioni sono fatte dagli stessi professori che poi monopolizzano i materiali che vengono catalogati. E non œ neppure solo il fatto che, con poche eccezioni, le biblioteche non sono luoghi in cui ci si pu… sentire a proprio agio avendo a che fare con lo staff ad esse preposto. Il punto fondamentale œ che in Italia non si œ compreso che le biblioteche sono strumenti assolutamente centrali per l'educazione, che dovrebbero esistere primariamente per il beneficio dei "clienti" dell'universitù, vale a dire per gli studenti! - e, infatti, non vengono di solito usate come tali. Ricordo di aver fatto visitare a quattro industriali italiani l'Universitù di Yale, e di aver detto loro a un certo punto che la biblioteca piena di studenti che stavamo visitando era aperta ai ragazzi e ai membri della facoltù ventiquattro ore al giorno, 365 giorni l'anno. Uno dei miei ospiti, un napoletano, velocemente aveva risposto dicendo che non si trattava di un risultato di cos– grande effetto come l'opposto caso italiano dove le biblioteche potevano restare chiuse e non aprire a nessuno con una tale frequenza.

A questo proposito, traccerei un'importante differenza tra le universitù europee e quelle americane. A differenza del modello europeo, le universitù negli Stati Uniti sono state considerate, sin dal principio, uno strumento per assolvere ai bisogni molto "terreni" della societù. Le universitù pi¦ antiche come Harvard, Yale e Princeton sono nate come luoghi dove giovani uomini potevano essere educati per entrare nel clero, perch¹ era questa professione di cui gli americani, che avevano lasciato l'Inghilterra per l'intolleranza religiosa, sentivano maggiore bisogno. Nella seconda metù del diciannovesimo secolo, il Congresso americano ha varato una legislazione che ha portato alla creazione di universitù pubbliche statali. In genere si trattava di universitù per l'agricoltura e la meccanica, di nuovo progettate per produrre laureati nei settori considerati essenziali per lo sviluppo rapido e sano della nazione e della sua economia. E' una tradizione profondamente radicata che ha facilitato in anni recenti la stretta collaborazione tra le industrie e le universitù americane, e che le altre nazioni, un po' ovunque nel mondo, hanno cercato di imitare. In ogni caso, negli Stati Uniti non œ stato assegnato alcun dottorato fino al diciannovesimo secolo.

Nonostante queste ben note mancanze, non voglio essere frainteso come uno che condanna irrevocabilmente il sistema universitario italiano, come fa Citati, con i tentativi di riforma di Berlinguer e della Moratti. Per esempio, si sa bene che esistono, qua e lù in Italia, facoltù universitarie, ampiamente riconosciute per il loro valore, che potrebbero essere facilmente paragonate alle migliori universitù di qualsiasi altro posto. E Pietro Citati ha certamente ragione nel sottolineare che alcuni eccellenti laureati italiani riescono, in qualche modo, a leggere libri e articoli, a condurre ricerche e a conoscere a fondo la propria disciplina riuscendo cos– successivamente a guadagnarsi riconoscimenti nazionali e mondiali nel proprio settore.

Tuttavia, pu… essere proprio questo fenomeno, cos– apprezzato da Citati, a diventare uno degli ostacoli pi¦ difficili da superare per la riuscita delle riforme. Il fatto che molti italiani, che sono il prodotto di questo sistema profondamente incrinato, riescano tuttavia a rendere ottime performance fa s– che per un occhio superficiale sia possibile difendere il sistema in s¹. C'œ un potenziale tragico in un pensiero cos– reazionario. Se questa resta la norma dominante e lo œ stata per troppo tempo, anche nelle discipline umanistiche, l'Italia verrù condannata a giocare un ruolo minore in un mondo giù segnato dai meccanismi della competizione, in tutte le sfere della societù, meccanismi che stanno ormai avanzando a una velocitù spaventosa.


 





 

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