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Così ridevano (pagina 3)

Paolo Mereghetti

Quasi esportando al cinema la metodologia della ricerca storica messa a punto dalla scuola delle Annales, Amelio racconta come le condizioni dell'immigrazione condizionano la vita di due fratelli siciliani a Torino, ma anche l'irriducibilità del loro dramma alle sole forze sociali. C'è una realtà che Amelio conosce sulla propria pelle di meridionale e che torna in alcune scene del film (le più commoventi, perché amarissime come il gesto del giovane Pietro che mette di nascosto nel sacco del fratello maggiore i soldi che ha trovato in un portafoglio rubato da altri, o perché dolcissime come la bellezza senza parole di un canto finalmente liberatorio), ed è una realtà che nessuno storico riuscirà mai a raccontare o a spiegare. E c'è una poesia che invece ha bisogno di essere accompagnata dalla forza realistica delle immagini, dallo spessore e dalla concretezza della Storia (altra accusa fuori luogo: la Torino ricostruita da Amelio non è realistica. Andate a rivedere i cortometraggi girati da Gian Vittorio Baldi proprio all'inizio degli anni Sessanta - "Ritratto di Pina", "Il bar di Gigi" - per scoprire come anche l'atmosfera di "Così ridevano" sia giusta e veritiera).

Non è una scelta stilistica facile quella che Amelio ha scelto per il suo ultimo film. E' quella di un melodramma non melodrammatico dove gli elementi drammatici sono raggelati in una struttura che chiede allo spettatore di interagire dialetticamente con quello che vede sullo schermo (e non di accettarne passivamente la logica), ma è anche quella di un cinema finalmente libero dalle dittature del verosimile e di una coerenza narrativa che finirebbe per organizzare rigidamente ogni tipo di emozione. Ad Amelio non interessano i "riflessi condizionati": non dovremmo mai dimenticare di ringraziarlo.

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