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"Il popolo di Lady Diana" (pagina 2) Paolo Ceri
Una
morte violenta
Sia
che venisse considerata in sé, sia che lo fosse in analogia a quella di
famose stars dello spettacolo o della politica, il carattere tragico, violento
della morte di Diana è stato giudicato determinante. Quasi sussistesse
un parallelo, una proporzione diretta, meccanica, tra la violenza con cui
s'interrompe una vita e lo shock emotivo. Cosa che appare tanto
plausibile da doversi ritenere estensibile - dato il carattere meccanico,
irriflesso, della reazione - anche laddove non vi era relazione alcuna tra il
morto e lo spettatore, se non quella basata sulla comune umanità:
"La gente che sabato sera è andata a letto pensando, se ha pensato
a lei, che era una donna stupida e incoerente, si è svegliata domenica
mattina per scoprirsi intrappolata nelle proprie emozioni.
E'
morta di una morte orribile che ha sconvolto persino quelli che le erano stati
indifferenti quando era viva." ( Michael Ignatieff in
"Prospect"). C'è del vero in questa ipotesi,
sennonché , per il suo carattere elementare, reattivo, essa non
può dar conto a sufficienza della diversa portata e qualità che
reazione pubblica assume in differenti circostanze. Non può spiegare a
sufficienza, ad esempio, perché, la morte di Grace Kelly abbia suscitato
una partecipazione emotiva tanto limitata rispetto a quella per Diana Spencer.
Che
sia stata una morte violenta e non una morte per malattia non è,
tuttavia, un dettaglio. Si tratta di capire in che senso sia un dato
importante. Un altro modo per scorgere un senso collettivo in un accidente
individuale senza senso è quello di ricondurlo, appunto, al senso della
vita: alla sua intrinseca precarietà, cioè, al fondo al non avere
essa un senso autonomo. Una riflessione che sembra imporsi ogni qual volta
viene stroncata una giovane vita: "La morte prematura di una giovane
persona sconvolge il nostro senso di giustizia e se quella morte è
improvvisa, distrugge il nostro senso di controllo e di previsione sul mondo
(...) Lo shock per la morte improvvisa di una persona giovane ci ricorda
bruscamente che la giovinezza, il denaro e la felicità non possono
proteggerci dalla morte. Ci viene ricordata con forza la fragilità della
vita e la nostra personale vulnerabilità." (Fiona Cathcart, in
"The Psychologist", novembre 1997).
Pur
riconoscendo la frequenza, la normalità, di questo tipo di reazione, non
si vede come un simile sentimento fatalistico, generato da un senso di
ingiustizia cosmica, possa spiegare la portata e la cifra affatto fatalistica
della partecipazione emotiva per Lady Diana, così come la differenza con
altri casi. Questa spiegazione e la precedente contengono un nucleo di
verità, che occorre spogliare del velo naturalistico e metafisico che lo
avvolge. Per farlo occorre capire che cosa significhi "morte
violenta": poiché la violenza è nella causa e nella
dinamica dell'accidente, non nel senso che acquista per chi vi assiste. E
il senso è quello di morte improvvisa.
Una
tragedia come quella consumatasi in pochi istanti sotto il ponte
dell'Alma a Parigi il 31 agosto 1997 e comunicata fuori di ogni contesto
equivale alla rottura incontrollata e senza preavviso di un rapporto
interpersonale. Il fatto di essere violenta vi aggiunge pathos, ma la reazione
è quella che si ha alla rottura improvvisa, imprevedibile e irreparabile
di un rapporto. Essa è intensa, paradossalmente, perché mossa da
due istanze che scattano incontrollate e paralizzano il soggetto per il fatto
di essere opposte. Egli si chiede "cosa posso fare per lei?" e allo
stesso tempo dice a se stesso "non c'è più nulla da
fare". E l'intensità inattesa dell'emozione, che
esprime la paralisi dell'azione, è proporzionale allo scarto
presente nella mente del soggetto tra le rappresentazioni cristallizzate di
Diana e i significati latenti consegnati alla sua scomparsa.
Tanto
più convenzionali sono quelle e ricche di senso (da decifrare) questi,
e, soprattutto, tanto più sono tra loro dissonanti, quanto più
coglie di sorpresa, per intensità e durata, il dolore che si prova.
Quando lo scarto è sensibile, il soggetto pensa: "non avrei mai
immaginato di soffrire tanto per lei". Lo stesso scarto e la paralisi
immediata dell'azione concorrono, poi, a spiegare la partecipazione
emotiva successiva come costruzione di senso: "Qualsiasi cosa sia
accaduta nella settimana successiva alla morte di Diana, non è stata
soltanto o semplicemente una forma di "isteria di massa", come
è stata spesso descritta. Piuttosto è stato, e ancora è un
complesso tentativo di confrontarsi con la morte improvvisa. E' anche un
tentativo di realizzare chi fosse e di decidere, a livello di vita pubblica e
privata, come continuare ... perché, comunque la storia la tratti, la
costruzione e la rappresentazione sociale di Diana continueranno."
(Margareth Mitchell, in "The Psychologist").
L'emozione
e il sentimento
Capire
il perché della commozione, lo si è visto, non è impresa
facile. La questione del
perché
contiene, infatti, due questioni interne: la questione del
come
e quella del
cosa .
Le
spiegazioni basate sull'identificazione o sul riferimento al carattere
violento della morte di Lady Diana, compresa quella testé sostenuta,
possono dar ragione del come , ma non del cosa. Per darne conto e offrire
così una spiegazione adeguata del fenomeno della commozione, occorre
distinguere il sentimento dall'emozione: il cosa hanno provato dal come
hanno reagito emotivamente.
Emozione
e sentimento sono come due facce della stessa medaglia, al punto da essere
difficilmente distinguibili. La questione diventa più chiara se in luogo
di riferirci all'individuo soltanto, si considera anche il collettivo.
L'emozione sarà allora da riferire
in
primis
all'individuo e il sentimento al collettivo, nel senso che il sentimento
ha un contenuto sociale in quanto socialmente prodotto. L'emozione
è sostanzialmente una risposta reattiva a un evento (esterno o interno),
così che l'emozione collettiva - ad esempio, la tristezza -
è il risultato del confluire (ma non del semplice aggregarsi meccanico)
delle emozioni individuali.
Per
contro, il sentimento individuale è piuttosto la proiezione dello stato
morale del collettivo sull'individuo. Intendendo per stato morale lo
stato della morale, in quanto distinto dal morale, che attiene invece allo
stato emotivo. Quel che più fa la differenza è la minore
dipendenza del secondo dagli effetti dell'evento (con l'eccezione
dei casi di statu nascenti). Un evento importante come la morte di Lady Diana
ha certamente un'influenza sui sentimenti collettivi, ma meno di quanto
ne abbia sulle emozioni e comunque inferiore rispetto a quella esercitata dai
sentimenti collettivi sulla partecipazione emotiva della gente.
Naturalmente
i sentimenti acquistano risonanze e intensità diverse da un individuo
all'altro; ma se si vuole coglierne la natura se ne deve considerare la
radice sociale. E che vi sia una radice sociale - alla luce della quale debbono
essere riconsiderate anche le ipotesi formulate prima per spiegare
l'emozione - lo si può cogliere da alcuni indizi. Il primo
è da vedersi nel fatto che il "popolo di Diana" è
costituito da persone che le erano prima favorevoli, indifferenti o contrarie.
Che cosa ha accomunato disposizioni cognitive e valutative tanto eterogenee?
Non può che essere un elemento sociale, cioè collettivamente
condiviso.
Il
secondo indizio riguarda lo stupore con cui molte persone osservano il proprio
stato emotivo. Quando una persona dice che non avrebbe mai creduto di provare
tanto dolore, dice di non riconoscere se stessa. L'individuo che piange
non è esattamente lo stesso individuo di prima. E' cambiato. In un
certo senso è un altra persona. Cosa lo ha fatto cambiare al punto da
reagire, per così dire, oltre la propria misura, se non qualcosa che va
oltre l'individuo?
Il
terzo indizio è indiretto, ce l'offre un esperimento mentale.
Immaginiamo che, a seguito della stessa identica storia personale - matrimonio,
figli, tradimenti, bulimia, azioni umanitarie, nuovo amore, ecc. -, la tragica
fine della principessa Diana non fosse avvenuta nel 1997, ma dieci o quindici
anni prima, nel 1987 o nel 1982. Ebbene, è pensabile che la commozione
generale sarebbe stata uguale o comparabile, per intensità, estensione e
durata? Chi scrive ha posto la questione nel modo più neutro e meno
retorico possibile a diverse decine di persone: nessuna ha risposto sì.
Certo, non è un campione rappresentativo. Ciò vuol dire che non
è una prova; vuol dire che è, appunto, un indizio.
Tre
indizi non fanno una prova, ma se orientano l'attenzione nella stessa
direzione, come in questo caso, giustificano un'ipotesi. Che ora andiamo
a esporre.
Gli
yuppies avrebbero pianto?
La
possiamo introdurre con la risposta data da una delle persone -
un'italiana colta che vive da parecchi anni a Londra -
all'esperimento mentale suddetto: " Stessa vicenda 15 anni fa? Ma
figurati se gli yuppies si sarebbero mossi !" Ecco, gli yuppies come
raffigurazione della vita economica e del costume di un'epoca. E qui
è il punto. Quali sono i caratteri dell'epoca nella quale si
compie il destino di Lady Diana? Quale corrispondenza vi è, se ve
n'è una, con la vita e la morte di Diana?
Possiamo
iniziare rispondendo alla seconda domanda con le parole di un osservatore
sensibile: "il mito di Diana (...) ci dice che la nostra società
non è puramente utilitaria e tecnica, e che essa comporta enormi
realtà affettive" (Edgar Morin, "Le Figaro", 8
settembre). Mettendo tra parentesi la validità generale di questa
osservazione, quel che interessa ora mettere in evidenza è in "ci
dice": a chi lo dice e quando? Lo dice a donne e uomini che vivono nella
metà degli anni novanta, cioè in una fase definita del ciclo
morale. Ma procediamo per gradi.
Abbiamo
visto nel precedente capitolo quanto Diana fosse impegnata ad affrancarsi dai
ruoli e dalle immagini di sé che sentiva inautentiche, tanto che
"la sua sfida consisteva nel reinventare il suo personaggio pubblico, nel
liberarsi degli abiti del suo rango, trattenendone però
l'autorità" (E. Morton,
Diana,
la sua vera storia
,
Sonzogno 1997). Un tentativo che ne faceva un personaggio controcorrente anche
nel rapporto col pubblico. Diversamente dai personaggi famosi che cercano di
proteggersi isolandosi, lei cercava di collegarsi e di aver un rapporto diretto
con la gente.
Questa
disposizione ha fatto sì che negli ultimi anni diventasse, per
così dire, di dominio pubblico, che appartenesse alla gente. Per lei non
si trattava che di dare libera espressione a un'attitudine connaturata:
"Io mi sento vicina alla gente, chiunque sia. Si è di primo
acchito allo stesso livello, sulla stessa lunghezza d'onda. E' per
questo che ho disturbato certi circoli. Perché sono molto più
vicina a chi sta in basso che a chi sta in alto, e questi ultimi non me lo
perdonano. Perché io ho una vera relazione di prossimità con gli
umili. Mio padre mi ha sempre insegnato a trattare chiunque come un
uguale" (da l'ultima intervista a "Le Monde").
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