"Chiudere
la Fortezza Europa è illusorio e dannoso. L'immigrazione
non comporta alcuna crisi economica e sociale nel Nord
del mondo". È così che Alessandra
Buonfino, ricercatrice presso il Centro di Studi Internazionali
dell' Università di Cambridge e autrice con Bentley
e Veenkamp del libro
People Flow: Managing migration
in a New European Commonwealth, giudica l'attuale
dibattito sull'immigrazione in Europa.
Professoressa Buonfino, l'immigrazione è
un fenomeno controllabile? È possibile, in
altre parole, chiudere volendo, la "cittadella"
assediata?
Più che esprimere dubbi sul fatto che l'immigrazione
sia un fenomeno effettivamente monitorato e controllabile,
verrebbe da domandare se essa, come fenomeno, giustifica
lo stato di crisi di cui è fatta oggetto.
L'immigrazione, infatti, non comporta alcuna crisi
economica o sociale nel 'Nord' del mondo. Secondo
le Nazioni Unite (statistiche del 2002) esisterebbero
175 milioni di immigrati nel mondo. Di questi, circa
il 32 percento (56 milioni) vive in Europa, il 23,4
percento (41 milioni) nel Nord America e il 28.5 percento
(50 milioni) in Asia. In media, una persona su 10
che viva in un paese 'sviluppato' è migrante,
mentre, in paesi in via di sviluppo, lo è una
ogni 70. Queste statistiche non giustificano lo stato
di crisi e il vuoto allarmismo che è ormai
di moda. Le élite, tra l'altro, traggono generalmente
il maggior vantaggio dalla presenza di flussi internazionali
ma nel contempo si oppongono al realizzarsi del fenomeno
migratori.
Posto che i flussi di investimento, commercio, proprietà
intellettuale sono inestricabilmente collegati al
movimento di persone, risulta assai complicato, in
questo stato di cose, presidiare i confini. La cosiddetta
crisi dell'immigrazione nasce perché esistono
degli enormi squilibri tra Nord e Sud del mondo in
materia di condizioni economiche, benessere sociale
e diritti umani. Né puntuali controlli ai confini,
né, tanto meno, assurde restrizioni bloccheranno
il fisiologico fluire dei flussi migratori, poiché
è proprio nel divario socio/economico la fondamentale
causa prima del fenomeno.
L'illusoria battaglia di "Fortezza Europa"
assume dunque connotati altamente simbolici che stabiliscono,
però, costi e conseguenze politicamente e socialmente
reali: si pensi solo alle spese per i controlli e
ai prezzi che i potenziali immigrati sono costretti
a pagare, in termini sia pecuniari (attraverso i confini
"chiusi" si favoriscono immigrazione illegale
e traffici di persone) che umani, per entrare nell'orbita
dell'Unione.
Le formule "Zero immigrazione" e "Fortezza
Europa" sono delle mere illusioni che non giovano
certo ad alcuno.
Quali sono le motivazioni che più spingono
le persone ad emigrare oggi? Ci sono differenze rispetto
al passato?
Le motivazioni che innescano il fenomeno dell'emigrazione
sono molteplici, ma non risultano necessariamente
soggette a mutamenti di sorta: quelle costanti di
disagio sociale che si possono individuare nella persecuzione
politica e religiosa, nelle condizioni di povertà
dei paesi d'origine, nelle speranze in un futuro migliore,
infatti, sono state, sono e sempre saranno causa di
emigrazione.
Modalità e itinerari costituiscono invece
la principale novità in questo campo: la globalizzazione
dei trasporti, nonché dell'informazione, fa
sì che i movimenti delle popolazioni adottino,
rispetto al passato, un nuovo significato nel contesto
delle correnti migratorie del giorno d'oggi.
Alcune caratteristiche risultano particolarmente
evidenti. Si assiste, innanzitutto, ad una crescita
del fenomeno dell' "immigrazione obbligata",
frutto di violenza endemica e di persecuzioni volte
a violare i diritti umani; i governi cercano di distinguere
gli immigrati specializzati, e perciò particolarmente
utili allo Stato ospite, dagli immigrati comuni, perseguitati
religiosi o politici; si è, inoltre, radicata
la convinzione che l'immigrazione - in tutti i suoi
molteplici e spesso contrastanti aspetti - giochi
un ruolo fondamentale all'interno dei processi di
integrazione economica regionale e globale; risulta,
infine, ormai palese quanto l'immigrato tenda a riunirsi
in comunità, a mantenere una propria lingua,
cultura e religione (a dispetto delle politiche d'assimilazione
tentate in passato). L'immigrazione risulta, in ultima
analisi, essere un fenomeno altamente - e pericolosamente
- politicizzato.
È molto diffusa l'idea che l'immigrazione
sia un fenomeno da cui difendersi. Nello stesso tempo
le necessità produttive delle economie europee
richiedono manodopera, spesso non qualificata. L'oscillazione
tra questi due atteggiamenti ha portato alcuni paesi,
come l'Italia, a dotarsi di sistemi di flussi di ingresso
strettamente legati alla esistenza di un lavoro. Pensa
che questa sia la strada giusta per "gestire"
i flussi migratori?
Decisamente no. Ritengo che questa non sia la soluzione
più brillante!
Definirei questa politica, formalizzata in Italia
dalla Legge Bossi-Fini come una strada parziale ed
incompleta, che crea ostacoli insormontabili all'entrata
di lavoratori in regola. L'assunzione a distanza provoca
infatti oneri finanziari e procedurali che certamente
non alleggeriscono la già delicata situazione
dei neo-immigrati e, addirittura, la complicano. Il
tasso burocratico introdotto certo non favorisce l'assunzione
e l'accesso al lavoro, limitando al minimo le possibilità
di venire in Italia, dove, dopotutto, abbiamo un gran
bisogno, come rammentato, di manodopera.
Quale potrebbe essere, invece, una politica da
mettere in atto?
Una politica alternativa dovrebbe prevedere, innanzitutto,
la cooperazione governi europei per mettere in atto
nel più breve tempo possibile, un sistema di
gestione dei flussi migratori a più livelli
che favorisca le necessità degli immigrati
e dei paesi riceventi, le loro possibilità
di integrarsi nelle nostre società o di ritornare
nei loro paesi d'origine e che trasformi l'immigrazione
in un fenomeno naturale e positivo.
Tale politica si potrebbe attuare mediante l'assunzione
di un sistema complesso e dinamico, disposto su più
piani. La nostra proposta (contenuta nel pamphlet
di cui l'intervistata è autrice con Bentley
e Veenkamp People
flow, vedi Caffeeuropa n. 256, ndr) vede un sistema
di gestione dei flussi articolato in cinque principi:
facilitare il movimento dei migranti volontari e dei
viaggiatori indipendenti; creare opportunità
per i cosiddetti displaced people proteggere
i rifugiati, promuovere servizi e agevolazioni per
la gestione dei flussi il più vicino possibile
a potenziali migranti, prevenire differenze in trattamento
e diritti tra differenti gruppi di migranti e tra
residenti e migranti.
Tali principi possono essere efficacemente attuati
mediante l'istituzione di un network internazionale
di mobility service points dell'Unione europea,
che giochi un ruolo chiave nel facilitare il movimento
e il contributo dei migranti volontari, nonché
attraverso centri di transito internazionale che forniscano
rifugio e prospettive ai displaced people.
Nel sistema proposto, chiunque desideri viaggiare
nell'Unione europea per qualsivoglia ragione, potrà
visitare il più vicino mobility service
point dell'Ue. Una volta giunto, potrà registrarsi
come visitatore, lavoratore, residente sponsorizzato
o rifugiato. Il permesso di entrata sarà garantito
automaticamente all'adempimento di criteri specifici.
Tutti costoro entreranno nei cosiddetti centri di
transito internazionale, che rappresentano probabilmente
l'elemento più radicale del nuovo sistema che
proponiamo. I centri saranno un primo rifugio ma creeranno
anche opportunità, supporto e direzione per
coloro che sono stati costretti a cercare asilo al
di fuori dei Paesi d'origine.
Tutti riceveranno nei centri di transito lo stesso
trattamento e avranno diritto ad un programma personalizzato
di consulenza professionale e supporto, allo scopo
di creare una "strategia di sviluppo personale"
associata a forme specifiche di credito e assistenza.
Una delle questioni sempre più presenti
nel dibattito pubblico europeo in tema di immigrazione
è quella legata all'identità nazionale
e alla crescente insicurezza rispetto al mantenimento
di una comunità di valori, di modelli sociali,
di standard di vita negli Stati nazionali. Una sorta
di sindrome da invasione che nasce dal confronto tra
popoli in crescita (i loro) e popoli sulla via dell'estinzione
(i nostri). Che cosa ne pensa?
L'immigrazione è, per alcuni, sinonimo di
crisi in quanto assurge a simbolo della dissoluzione
in fieri del concetto di "sovranità
nazionale", "assediato" dalla globalizzazione.
Questo problema certamente esiste. Dopo l'11 settembre,
tra l'altro, il dibattito sull'immigrazione ha assunto
evidenti connotazioni di scontro di civiltà;
questa svolta "conservatrice" è tesa
a preservare a livello di retorica l'integrità
culturale, il senso di comunità dei singoli
stati della Fortezza Europa, anche tramite il rigetto
degli 'stranieri', di coloro che non appartengono
alla 'comunità'. La paura del terrorismo e
dell'immigrazione musulmana nel mondo post-11 settembre
e, come osserva Huntington stesso, il timore di una
crescita demografica delle comunità di immigrati
nelle società occidentali, rappresenta un elemento
importante che sfocia in politiche di stretto controllo
sull'immigrazione e in fin troppo frequenti e vuote
retoriche, basate su concetti di 'spaccatura' tra
Est e Ovest, tra religioni e civiltà superiori
e le altre, eccetera.
Tutto ciò è molto pericoloso e addirittura
controproducente, perché conduce soltanto alla
paura ingiustificata e crea insicurezza, se ancora
se ne sentisse il bisogno!
All'allargamento dell'Unione i 15 hanno risposto
chiudendo le frontiere ai lavoratori utilizzando la
moratoria prevista nel trattato di Atene. Che cosa
ne pensa? Crede che questa, tra le altre, possa essere
una delle ragioni della scarsa affluenza alle urne
dei nuovi arrivati nell'Unione?
Sia il periodo di transizione stipulato dal trattato
di Atene che i sussidi agli agricoltori dei nuovi
paesi membri (più bassi di quelli dei quindici)
hanno necessariamente influito sulla mancanza di entusiasmo
verso l'Unione Europea dei nuovi arrivati (a parte
Malta e Cipro con un'affluenza dell'82 e 71,2 percento).
Direi però che la scarsa affluenza alle urne
sia un sintomo di uno status di disagio più
profondo e radicato. In generale, solo il 45,3 percento
dei cittadini Ue votanti si è presentato alle
urne dei 25 paesi membri. Ciò rivela un fenomeno
di apatia senza precedenti che dimostra come l'Unione
europea non sia riuscita a proiettare un'immagine
in cui gli elettori possano identificarsi.
L'affermazione sempre maggiore di partiti antieuropei,
che in alcuni casi si sono dimostrati retrogradi e
xenofobi, e la polarizzazione dell'Assemblea creeranno
ulteriori ostacoli al raggiungimento di un accordo
tra gli stati membri su una politica effettivamente
e fattivamente unitaria sull'immigrazione.
Come giudica la recente Direttiva del Consiglio
europeo sullo status di rifugiato?
La Direttiva rappresenta il termine della prima fase
di armonizzazione delle politiche nazionali sull'asilo.
Un termine deludente e un'opportunità mancata.
Dopo Tampere, le promesse di armonizzazione avevano
creato l'aspettativa della creazione di livelli di
protezione più equi ed adeguati per i richiedenti
asilo. Purtroppo abbiamo assistito a 5 anni di trattative
difficili, non in continuità con lo spirito
di Tampere e segnate dalla volontà degli stati
membri di ridurre il numero di coloro che chiedono
asilo. Molti dei provvedimenti approvati ('i paesi
di provenienza sicuri e super-sicuri' ed altri), infatti,
non garantiscono adeguatamente che coloro che chiedono
asilo non siano mandati in paesi terzi dove possano
venire perseguitati. Il concetto di 'paesi di provenienza
sicuri' è tra l'altro pericoloso dato che non
dà la possibilità ai richiedenti asilo
di vedersi riconosciuto lo status di rifugiato sulla
base delle loro circostanze personali. I provvedimenti,
infine, non vincolano gli stati ad osservare standard
procedurali soddisfacenti e non riusciranno ad affrontare
in maniera efficiente la necessità di distribuire
la responsabilità di ricevere rifugiati tra
i vari paesi membri.
Veniamo al vostro pamphlet. Come è nata
l'idea di scrivere un libro con Veenkamp e Bentley?
Dato che la situazione, a partire dalle mie ricerche,
non appariva delle più rosee per la comunità
europea, ho deciso di affrontare il problema dalla
radice e, dunque, di proporre una visione alternativa
a quest' immagine poco promettente e pericolosa che
andava per la maggiore. In questo senso si orientavano
anche le idee di Veenkamp e Bentley.
L'idea che più mi ha colpito del vostro
pamphlet è quella della new citizenship
e del citizenship credit. Di che cosa si
tratta?
L'idea è legata alla ridefinizione del concetto
di welfare state. Crediamo che il concetto di welfare
state abbia contribuito a mandare segnali fuorvianti
a potenziali migranti sulle possibilità economiche
in Europa ed abbia anche contribuito alle frizioni
tra i neo-migranti e i residenti. Quindi proponiamo
una ridefinizione del concetto di welfare state che
tenga conto delle dinamiche dei flussi migratori.
Questa ridefinizione è centrata soprattutto
sul concetto dello stato facilitatore: non
uno stato che provveda incondizionatamente ai suoi
cittadini, bensì uno stato che sia basato sull'idea
che il non offrire gratuitamente alcunché sia
un segno di rispetto verso le potenziali capacità
e responsabilità del cittadino (fatte le debite
eccezioni per cittadini disabili, in pensione o per
cittadini completamente dipendenti dallo stato, cui
esso dovrebbe tutelare anche secondo la nostra proposta).
Uno dei vantaggi di questo sistema è l'eliminazione
delle disparità di trattamento tra i cittadini
europei e non. Tutti i cittadini, infatti, quando
raggiungeranno l'età adulta o verranno naturalizzati,
avranno diritto ad un citizenship credit di
base. Tale credito sarà, su apposita domanda,
associato a una serie di servizi e opportunità
resi disponibili su base personalizzata. Lo stato
garantirebbe il citizenship credit sulla base
di talune condizioni, diritti e doveri del creditore
e prevederebbe delle opzioni per il pagamento del
credito.
Questo sistema enfatizzerebbe l'uguaglianza in trattamento
- dove possibile - tra cittadini, vecchi e nuovi,
rivalutando, in meglio, la solidarietà reciproca.
Infine, ritiene che le proposte del vostro pamphlet
possano trovare accoglimento e tradursi in politiche
concrete? Quale di esse le sembra immediatamente realizzabile?
Lo scopo principale del nostro progetto era di cercare
di invertire il modo di concepire immigrazione ed
asilo non come problema, ma come risorsa proponendo
una visione politica alternativa capace di modificare
i termini del dibattito sull'immigrazione in Europa.
Allo stato attuale delle cose, ciò risulta
però particolarmente complesso. Anche se l'obiettivo
di provocare una discussione su basi nuove è
stato in parte centrato.
Per quanto riguarda le proposte, invece, nessuna,
così com'è, è immediatamente
realizzabile. Quando le idee riguardano il destino
di persone e famiglie, si devono ovviamente cercare
soluzioni più dettagliate e si sente il bisogno
di compiere studi più approfonditi, analisi
degli effetti, delle condizioni, eccetera. Alcune
delle proposte sono state, comunque, oggetto di discussione
da parte di alcuni governi, delle Nazioni Unite e
della Commissione Europea. Tra queste gli european
mobility centres e i centri di transito internazionali.
Sapremo presto se alcune delle idee proposte saranno
sviluppate dalle autorità e realizzate in conformità
con studi adeguati alle proporzioni di questo dilemma.
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