258 - 31.07.04


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"Popoli migranti: Europa non aver paura"
Alessandra Buonfino con Andrea Borghesi

"Chiudere la Fortezza Europa è illusorio e dannoso. L'immigrazione non comporta alcuna crisi economica e sociale nel Nord del mondo". È così che Alessandra Buonfino, ricercatrice presso il Centro di Studi Internazionali dell' Università di Cambridge e autrice con Bentley e Veenkamp del libro People Flow: Managing migration in a New European Commonwealth, giudica l'attuale dibattito sull'immigrazione in Europa.

Professoressa Buonfino, l'immigrazione è un fenomeno controllabile? È possibile, in altre parole, chiudere volendo, la "cittadella" assediata?

Più che esprimere dubbi sul fatto che l'immigrazione sia un fenomeno effettivamente monitorato e controllabile, verrebbe da domandare se essa, come fenomeno, giustifica lo stato di crisi di cui è fatta oggetto.
L'immigrazione, infatti, non comporta alcuna crisi economica o sociale nel 'Nord' del mondo. Secondo le Nazioni Unite (statistiche del 2002) esisterebbero 175 milioni di immigrati nel mondo. Di questi, circa il 32 percento (56 milioni) vive in Europa, il 23,4 percento (41 milioni) nel Nord America e il 28.5 percento (50 milioni) in Asia. In media, una persona su 10 che viva in un paese 'sviluppato' è migrante, mentre, in paesi in via di sviluppo, lo è una ogni 70. Queste statistiche non giustificano lo stato di crisi e il vuoto allarmismo che è ormai di moda. Le élite, tra l'altro, traggono generalmente il maggior vantaggio dalla presenza di flussi internazionali ma nel contempo si oppongono al realizzarsi del fenomeno migratori.

Posto che i flussi di investimento, commercio, proprietà intellettuale sono inestricabilmente collegati al movimento di persone, risulta assai complicato, in questo stato di cose, presidiare i confini. La cosiddetta crisi dell'immigrazione nasce perché esistono degli enormi squilibri tra Nord e Sud del mondo in materia di condizioni economiche, benessere sociale e diritti umani. Né puntuali controlli ai confini, né, tanto meno, assurde restrizioni bloccheranno il fisiologico fluire dei flussi migratori, poiché è proprio nel divario socio/economico la fondamentale causa prima del fenomeno.

L'illusoria battaglia di "Fortezza Europa" assume dunque connotati altamente simbolici che stabiliscono, però, costi e conseguenze politicamente e socialmente reali: si pensi solo alle spese per i controlli e ai prezzi che i potenziali immigrati sono costretti a pagare, in termini sia pecuniari (attraverso i confini "chiusi" si favoriscono immigrazione illegale e traffici di persone) che umani, per entrare nell'orbita dell'Unione.
Le formule "Zero immigrazione" e "Fortezza Europa" sono delle mere illusioni che non giovano certo ad alcuno.

Quali sono le motivazioni che più spingono le persone ad emigrare oggi? Ci sono differenze rispetto al passato?

Le motivazioni che innescano il fenomeno dell'emigrazione sono molteplici, ma non risultano necessariamente soggette a mutamenti di sorta: quelle costanti di disagio sociale che si possono individuare nella persecuzione politica e religiosa, nelle condizioni di povertà dei paesi d'origine, nelle speranze in un futuro migliore, infatti, sono state, sono e sempre saranno causa di emigrazione.

Modalità e itinerari costituiscono invece la principale novità in questo campo: la globalizzazione dei trasporti, nonché dell'informazione, fa sì che i movimenti delle popolazioni adottino, rispetto al passato, un nuovo significato nel contesto delle correnti migratorie del giorno d'oggi.

Alcune caratteristiche risultano particolarmente evidenti. Si assiste, innanzitutto, ad una crescita del fenomeno dell' "immigrazione obbligata", frutto di violenza endemica e di persecuzioni volte a violare i diritti umani; i governi cercano di distinguere gli immigrati specializzati, e perciò particolarmente utili allo Stato ospite, dagli immigrati comuni, perseguitati religiosi o politici; si è, inoltre, radicata la convinzione che l'immigrazione - in tutti i suoi molteplici e spesso contrastanti aspetti - giochi un ruolo fondamentale all'interno dei processi di integrazione economica regionale e globale; risulta, infine, ormai palese quanto l'immigrato tenda a riunirsi in comunità, a mantenere una propria lingua, cultura e religione (a dispetto delle politiche d'assimilazione tentate in passato). L'immigrazione risulta, in ultima analisi, essere un fenomeno altamente - e pericolosamente - politicizzato.

È molto diffusa l'idea che l'immigrazione sia un fenomeno da cui difendersi. Nello stesso tempo le necessità produttive delle economie europee richiedono manodopera, spesso non qualificata. L'oscillazione tra questi due atteggiamenti ha portato alcuni paesi, come l'Italia, a dotarsi di sistemi di flussi di ingresso strettamente legati alla esistenza di un lavoro. Pensa che questa sia la strada giusta per "gestire" i flussi migratori?

Decisamente no. Ritengo che questa non sia la soluzione più brillante!
Definirei questa politica, formalizzata in Italia dalla Legge Bossi-Fini come una strada parziale ed incompleta, che crea ostacoli insormontabili all'entrata di lavoratori in regola. L'assunzione a distanza provoca infatti oneri finanziari e procedurali che certamente non alleggeriscono la già delicata situazione dei neo-immigrati e, addirittura, la complicano. Il tasso burocratico introdotto certo non favorisce l'assunzione e l'accesso al lavoro, limitando al minimo le possibilità di venire in Italia, dove, dopotutto, abbiamo un gran bisogno, come rammentato, di manodopera.

Quale potrebbe essere, invece, una politica da mettere in atto?

Una politica alternativa dovrebbe prevedere, innanzitutto, la cooperazione governi europei per mettere in atto nel più breve tempo possibile, un sistema di gestione dei flussi migratori a più livelli che favorisca le necessità degli immigrati e dei paesi riceventi, le loro possibilità di integrarsi nelle nostre società o di ritornare nei loro paesi d'origine e che trasformi l'immigrazione in un fenomeno naturale e positivo.

Tale politica si potrebbe attuare mediante l'assunzione di un sistema complesso e dinamico, disposto su più piani. La nostra proposta (contenuta nel pamphlet di cui l'intervistata è autrice con Bentley e Veenkamp People flow, vedi Caffeeuropa n. 256, ndr) vede un sistema di gestione dei flussi articolato in cinque principi: facilitare il movimento dei migranti volontari e dei viaggiatori indipendenti; creare opportunità per i cosiddetti displaced people proteggere i rifugiati, promuovere servizi e agevolazioni per la gestione dei flussi il più vicino possibile a potenziali migranti, prevenire differenze in trattamento e diritti tra differenti gruppi di migranti e tra residenti e migranti.

Tali principi possono essere efficacemente attuati mediante l'istituzione di un network internazionale di mobility service points dell'Unione europea, che giochi un ruolo chiave nel facilitare il movimento e il contributo dei migranti volontari, nonché attraverso centri di transito internazionale che forniscano rifugio e prospettive ai displaced people. Nel sistema proposto, chiunque desideri viaggiare nell'Unione europea per qualsivoglia ragione, potrà visitare il più vicino mobility service point dell'Ue. Una volta giunto, potrà registrarsi come visitatore, lavoratore, residente sponsorizzato o rifugiato. Il permesso di entrata sarà garantito automaticamente all'adempimento di criteri specifici. Tutti costoro entreranno nei cosiddetti centri di transito internazionale, che rappresentano probabilmente l'elemento più radicale del nuovo sistema che proponiamo. I centri saranno un primo rifugio ma creeranno anche opportunità, supporto e direzione per coloro che sono stati costretti a cercare asilo al di fuori dei Paesi d'origine.

Tutti riceveranno nei centri di transito lo stesso trattamento e avranno diritto ad un programma personalizzato di consulenza professionale e supporto, allo scopo di creare una "strategia di sviluppo personale" associata a forme specifiche di credito e assistenza.

Una delle questioni sempre più presenti nel dibattito pubblico europeo in tema di immigrazione è quella legata all'identità nazionale e alla crescente insicurezza rispetto al mantenimento di una comunità di valori, di modelli sociali, di standard di vita negli Stati nazionali. Una sorta di sindrome da invasione che nasce dal confronto tra popoli in crescita (i loro) e popoli sulla via dell'estinzione (i nostri). Che cosa ne pensa?

L'immigrazione è, per alcuni, sinonimo di crisi in quanto assurge a simbolo della dissoluzione in fieri del concetto di "sovranità nazionale", "assediato" dalla globalizzazione.
Questo problema certamente esiste. Dopo l'11 settembre, tra l'altro, il dibattito sull'immigrazione ha assunto evidenti connotazioni di scontro di civiltà; questa svolta "conservatrice" è tesa a preservare a livello di retorica l'integrità culturale, il senso di comunità dei singoli stati della Fortezza Europa, anche tramite il rigetto degli 'stranieri', di coloro che non appartengono alla 'comunità'. La paura del terrorismo e dell'immigrazione musulmana nel mondo post-11 settembre e, come osserva Huntington stesso, il timore di una crescita demografica delle comunità di immigrati nelle società occidentali, rappresenta un elemento importante che sfocia in politiche di stretto controllo sull'immigrazione e in fin troppo frequenti e vuote retoriche, basate su concetti di 'spaccatura' tra Est e Ovest, tra religioni e civiltà superiori e le altre, eccetera.
Tutto ciò è molto pericoloso e addirittura controproducente, perché conduce soltanto alla paura ingiustificata e crea insicurezza, se ancora se ne sentisse il bisogno!

All'allargamento dell'Unione i 15 hanno risposto chiudendo le frontiere ai lavoratori utilizzando la moratoria prevista nel trattato di Atene. Che cosa ne pensa? Crede che questa, tra le altre, possa essere una delle ragioni della scarsa affluenza alle urne dei nuovi arrivati nell'Unione?

Sia il periodo di transizione stipulato dal trattato di Atene che i sussidi agli agricoltori dei nuovi paesi membri (più bassi di quelli dei quindici) hanno necessariamente influito sulla mancanza di entusiasmo verso l'Unione Europea dei nuovi arrivati (a parte Malta e Cipro con un'affluenza dell'82 e 71,2 percento). Direi però che la scarsa affluenza alle urne sia un sintomo di uno status di disagio più profondo e radicato. In generale, solo il 45,3 percento dei cittadini Ue votanti si è presentato alle urne dei 25 paesi membri. Ciò rivela un fenomeno di apatia senza precedenti che dimostra come l'Unione europea non sia riuscita a proiettare un'immagine in cui gli elettori possano identificarsi.

L'affermazione sempre maggiore di partiti antieuropei, che in alcuni casi si sono dimostrati retrogradi e xenofobi, e la polarizzazione dell'Assemblea creeranno ulteriori ostacoli al raggiungimento di un accordo tra gli stati membri su una politica effettivamente e fattivamente unitaria sull'immigrazione.

Come giudica la recente Direttiva del Consiglio europeo sullo status di rifugiato?

La Direttiva rappresenta il termine della prima fase di armonizzazione delle politiche nazionali sull'asilo. Un termine deludente e un'opportunità mancata. Dopo Tampere, le promesse di armonizzazione avevano creato l'aspettativa della creazione di livelli di protezione più equi ed adeguati per i richiedenti asilo. Purtroppo abbiamo assistito a 5 anni di trattative difficili, non in continuità con lo spirito di Tampere e segnate dalla volontà degli stati membri di ridurre il numero di coloro che chiedono asilo. Molti dei provvedimenti approvati ('i paesi di provenienza sicuri e super-sicuri' ed altri), infatti, non garantiscono adeguatamente che coloro che chiedono asilo non siano mandati in paesi terzi dove possano venire perseguitati. Il concetto di 'paesi di provenienza sicuri' è tra l'altro pericoloso dato che non dà la possibilità ai richiedenti asilo di vedersi riconosciuto lo status di rifugiato sulla base delle loro circostanze personali. I provvedimenti, infine, non vincolano gli stati ad osservare standard procedurali soddisfacenti e non riusciranno ad affrontare in maniera efficiente la necessità di distribuire la responsabilità di ricevere rifugiati tra i vari paesi membri.

Veniamo al vostro pamphlet. Come è nata l'idea di scrivere un libro con Veenkamp e Bentley?

Dato che la situazione, a partire dalle mie ricerche, non appariva delle più rosee per la comunità europea, ho deciso di affrontare il problema dalla radice e, dunque, di proporre una visione alternativa a quest' immagine poco promettente e pericolosa che andava per la maggiore. In questo senso si orientavano anche le idee di Veenkamp e Bentley.

L'idea che più mi ha colpito del vostro pamphlet è quella della new citizenship e del citizenship credit. Di che cosa si tratta?

L'idea è legata alla ridefinizione del concetto di welfare state. Crediamo che il concetto di welfare state abbia contribuito a mandare segnali fuorvianti a potenziali migranti sulle possibilità economiche in Europa ed abbia anche contribuito alle frizioni tra i neo-migranti e i residenti. Quindi proponiamo una ridefinizione del concetto di welfare state che tenga conto delle dinamiche dei flussi migratori.

Questa ridefinizione è centrata soprattutto sul concetto dello stato facilitatore: non uno stato che provveda incondizionatamente ai suoi cittadini, bensì uno stato che sia basato sull'idea che il non offrire gratuitamente alcunché sia un segno di rispetto verso le potenziali capacità e responsabilità del cittadino (fatte le debite eccezioni per cittadini disabili, in pensione o per cittadini completamente dipendenti dallo stato, cui esso dovrebbe tutelare anche secondo la nostra proposta). Uno dei vantaggi di questo sistema è l'eliminazione delle disparità di trattamento tra i cittadini europei e non. Tutti i cittadini, infatti, quando raggiungeranno l'età adulta o verranno naturalizzati, avranno diritto ad un citizenship credit di base. Tale credito sarà, su apposita domanda, associato a una serie di servizi e opportunità resi disponibili su base personalizzata. Lo stato garantirebbe il citizenship credit sulla base di talune condizioni, diritti e doveri del creditore e prevederebbe delle opzioni per il pagamento del credito.
Questo sistema enfatizzerebbe l'uguaglianza in trattamento - dove possibile - tra cittadini, vecchi e nuovi, rivalutando, in meglio, la solidarietà reciproca.

Infine, ritiene che le proposte del vostro pamphlet possano trovare accoglimento e tradursi in politiche concrete? Quale di esse le sembra immediatamente realizzabile?

Lo scopo principale del nostro progetto era di cercare di invertire il modo di concepire immigrazione ed asilo non come problema, ma come risorsa proponendo una visione politica alternativa capace di modificare i termini del dibattito sull'immigrazione in Europa. Allo stato attuale delle cose, ciò risulta però particolarmente complesso. Anche se l'obiettivo di provocare una discussione su basi nuove è stato in parte centrato.

Per quanto riguarda le proposte, invece, nessuna, così com'è, è immediatamente realizzabile. Quando le idee riguardano il destino di persone e famiglie, si devono ovviamente cercare soluzioni più dettagliate e si sente il bisogno di compiere studi più approfonditi, analisi degli effetti, delle condizioni, eccetera. Alcune delle proposte sono state, comunque, oggetto di discussione da parte di alcuni governi, delle Nazioni Unite e della Commissione Europea. Tra queste gli european mobility centres e i centri di transito internazionali. Sapremo presto se alcune delle idee proposte saranno sviluppate dalle autorità e realizzate in conformità con studi adeguati alle proporzioni di questo dilemma.

 




 

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