La pancia e la testa
Riccardo Perissich*

Le tragedie hanno l’effetto di semplificare tutto.  In condizioni “normali”, abbiamo tempo e voglia di dare spazio alla riflessione, al trattamento analitico dei problemi, al rispetto delle procedure, alla ricerca dei compromessi. Idee nuove hanno il tempo di germogliare, di essere dibattute, se sono buone di imporsi. Le condizioni “normali” conducono anche a comportamenti perversi. L’interesse particolare tende a prevalere su quello generale; i dettagli ingigantiscono di importanza; si perde il senso della priorità; la morale lascia lo spazio al moralismo. La paziente ricerca del consenso si trasforma in diritto di veto; i processi decisionali rallentano, poi si paralizzano; i problemi, che sembrano marginali si accumulano senza soluzioni. La tragedia, quando arriva, semplifica ed accelera tutto. Le priorità ritrovano istantaneamente il loro posto; ciò che sembrava gigantesco una settimana fa diventa irrisorio, mentre scopriamo improvvisamente che problemi lasciati nascosti sotto il tappeto contenevano candelotti di dinamite. L’azione diventa più importante del compromesso. Il grigio cessa di essere un colore di moda.  La tragedia, soprattutto quando é provocata da eventi umani premia l’istinto sulla riflessione, la pancia rispetto alla testa, la forza rispetto al consenso. Il pronome “noi”, che sembrava così ambiguo, acquista una chiarezza abbagliante. Improvvisamente le ragioni nostre diventano molto più importanti delle ragioni degli altri e le ragioni della politica riprendono il sopravvento su quelle dell’economia.
Ritorniamo con la memoria ai giornali di prima dell’11 settembre. Gli Stati Uniti dibattevano dell’opportunità e entità di tagli fiscali. L’Europa si trastullava nella ripartizione di modesti fondi regionali in vista dell’allargamento dell’Unione Europea; oppure bloccava importanti decisioni sulla organizzazione dello spazio aereo o sui mercati finanziari a causa dello Statuto del territorio di Gibilterra; Stati Uniti e Europa cercavano di mettere fine alla guerra delle banane. Le manifestazioni di Genova erano  riuscite a convincere persino una parte dell’establishment che la “Tobin tax” costituisce il nodo principale per l’organizzazione di un ordine mondiale più giusto. L’Italia si trastullava nella determinazione del probabile “buco” nelle finanze statali. Il giornaliero bagno di sangue stava facendo lentamente entrare il Medio oriente nella categoria dei problemi insolubili “con cui bisogna convivere”. Non sappiamo cosa ci riservi il futuro, ma di una cosa possiamo essere certi: tutte queste cose hanno improvvisamente cambiato dimensione e il loro posto nelle priorità collettive. La tragedia dell’11 settembre ha anche fatto in pochi minuti giustizia di una convinzione ormai profondamente radicata in America: che le guerre possono essere combattute e vinte senza alcuna perdita di vite umane da parte nostra.
Non so se bisogna chiedersi, ma io non ne posso fare a meno, se sia meglio la normalità o l’eccezione, la pancia o la testa, l’istinto o la riflessione. Da questo punto di vista la storia non ci insegna quasi nulla. Nell’agosto del 1914, il trionfo delle emozioni condusse a una spirale perversa che spazzò via in poche settimane il paziente, anche se bizantino, lavoro di diplomatici che avevano assicurato all’Europa 40 anni di pace e la condusse a una guerra suicida che nessuno aveva veramente voluto. D’altro canto, negli anni 30, il prevalere della prudenza concesse ad Hitler alcuni vantaggi strategici quasi decisivi e rese la guerra allo stesso tempo più probabile e più terribile.
Gli americani scoprono per la prima volta nella loro storia che il loro territorio é vulnerabile; una cosa che gli europei sanno da sempre. E’ facile prevedere che sceglieranno più facilmente l’istinto, mentre l’Europa sarà più facilmente portata alla riflessione. Sarebbe un bene se ciò ci conducesse a una sintesi. Sarebbe un disastro se fosse fonte di disunione.  Il pericolo é grande, perché le tragedie, proprio perché semplificano, premiano l’azione unilaterale su quella multilaterale, il nazionalismo economico sulla cooperazione internazionale. Il mondo invece, anche se deviato da due anni di dibattito sbagliato sulla globalizzazione, avrebbe bisogno di più azione multilaterale e di più globalizzazione governata. Nulla é ineluttabile. Si uscì dalla prima guerra mondiale, gestita dagli europei, con Versailles, le crudeli riparazioni economiche e l’’umiliazione della Germania. Si uscì dalla seconda guerra mondiale, gestita dagli americani, con il piano Marshall, Bretton Woods e la Nato.
Chi ha assistito in diretta televisiva alla commemorazione avvenuta nello Yankee Stadium, non può non essere stato profondamente colpito da quella straordinaria sintesi di orgoglio civico, di patriottismo nazionale di sincretismo religioso e di recupero di valori universali che ha caratterizzato tutta la cerimonia. Con grande  sforzo di tensione morale un paese  multiculturale cercava la mobilitazione, nel dolore, intorno a valori condivisi. Non credo che esistano precedenti nella storia. Non é detto che ciò produca buoni risultati, ma lo sforzo é impressionante. Dobbiamo lucidamente dirci che é difficile immaginare che una simile tensione morale una simile proiezione verso il futuro, potrebbe prodursi oggi in un qualsiasi paese europeo. Il momento della cerimonia che strappò gli applausi più scroscianti fu la dichiarazione del Sindaco Giuliani: “Dicono che New York non sarà più quella di prima. È vero; sarà migliore”. È probabile che l’uccello da cui si devono guardare gli americani sia il falco. Per l’Europa non é la colomba, ma lo struzzo. Negli ultimi giorni i governanti europei hanno detto e fatto tutte le cose giuste. Spenta la televisione con la cerimonia di New York, rimane però la preoccupazione per l’assenza, in Europa, di un analogo messaggio unificante e mobilizzante. Come se i nostri governanti ci volessero dire che la situazione é certamente grave, ma che cercheremo di gestirla con un equilibrato dosaggio di pragmatismo, di determinazione e di buon senso.  Che, al di là della retorica, questa é una “guerra americana”. Il rischio é che questo atteggiamento, così profondamente europeo, non riesca a dare all’opinione pubblica né tranquillità né coraggio
 Mai come nelle tragedie, siamo nelle mani dei leader. Il guaio é che scopriamo solo in ritardo se erano all’altezza o no. Ma non dimentichiamo che conta anche moltissimo il comportamento di ogni singola persona. Dipenderà anche da ognuno di noi se cederemo alla paura, o se continueremo a viaggiare, a consumare, a lavorare. Dipenderà da ognuno di noi se faremo sentire al nostro vicino mussulmano il peso della nostra paura. Dipenderà da ognuno di noi se i nostri governanti saranno, o non saranno, tentati di fare, come in passato, vigliacchi accordi con i terroristi per guadagnarsi un po’ di tranquillità e, se continueranno a fare dell’anti-americanismo, o del filo-americanismo, per pura strumentalizzazione della politica interna.

In ultima analisi vale sia per noi che per i governanti il principio kantiano dell’unica morale che riesce a conciliare la ragione e il cuore: agire come se il principio che ci guida avesse valore di legge universale. Facile.
*Dirigente Pirelli

 

Spettatori, vittime e attori
Elena Pulcini*

La prima sensazione che si prova nell’accingersi a fare una riflessione sull’attentato terroristico negli USA è il timore di diventare immediatamente obsoleti, di essere rapidamente superati dagli eventi. La “velocizzazione del tempo”, che è una delle cifre della nostra epoca, ha raggiunto il suo apice laddove la realtà diventa vertiginosamente anticipatrice dell’immaginazione.
L’ingresso nell’ètà globale si è simbolicamente e traumaticamente compiuto nello choc e nello stupore collettivo davanti al fuoco che divampa nelle Twin Towers, che ci strappa dal passivo ruolo di “spettatori”, nel quale finora potevamo, sia pure illusoriamente, rifugiarci alla ricerca di un luogo, di un punto di osservazione immune dagli eventi del mondo. Neppure il filtro massmediale che ancora agiva con il suo impatto derealizzante durante la Guerra del golfo, rendendola, nonostante tutto, astratta e lontana, funziona più di fronte all’immagine di corpi che si lanciano nel vuoto; rendendo improvvisamente cruenta l’immagine familiare e patinata della metropoli americana.
L’immunità, su cui la modernità aveva costruito il suo progetto e fondato la sua legittimità, affidando allo Stato e alla politica la salvaguardia della vita umana e la possibilità della convivenza pacifica, è ora irrimediabilmente finita. Non solo perché è stata colpita al cuore la sovranità dello Stato più potente dell’Occidente; non solo perché ne è stata minata la mitica capacità di controllo e di previsione; ma anche perché è immediatamente emersa la consapevolezza di una condizione di insicurezza globale, che si fa beffe di frontiere nazionali e di confini territoriali, coinvolgendo bruscamente l’intero “genere umano” nei futuri scenari possibili. Se la globalizzazione è interdipendenza, “compressione spazio-temporale”, perdita dei confini e del controllo, e contagio planetario, in virtù del quale un evento “locale” produce effetti mondiali e, viceversa, decisioni mondiali possono trascinare nel proprio gorgo le più remote realtà locali, le Twin Towers ne sono evidentemente il simbolo che autorizza, come è stato fatto, a parlare dell’inizio di una nuova era.
Guerra globale, si ripete sempre più spesso; senza forse rendersi sufficientemente conto che per la prima volta viene detto l’indicibile, viene “pensato l’impensabile”, viene agitato nella domestica quotidianità delle nostre vite inermi e quasi meccanicamente fiduciose nella saggezza della ragione, quello che finora era solo uno spettro virtuale, una minaccia tanto più spaventosa quanto più facilmente sottoponibile a rimozione: quella dell’autodistruzione del genere umano.
Ma l’inverarsi di questa possibilità dovrebbe spingerci ad una presa di coscienza più profonda, che non si lasci sedurre, come mi pare stia accadendo, dal ricorrere a facili dicotomie tra bene e male, tra civiltà e barbarie, tra ragione e irrazionalità. L’efficacia del terrorismo trae alimento dalle passioni “disinteressate” di popoli che rivendicano il loro diritto all’identità religiosa e culturale, e che non è possibile liquidare con frettolose accuse di arcaismo o anacronismo. Ma non solo. La violenza del terrore si serve dell’uso freddo e sapiente dei più sofisticati strumenti prodotti dallo sviluppo occidentale moderno (dalla tecnica, alla rete di informazioni, alla speculazione finanziaria). La globalizzazione crea queste contaminazioni paradossali, in virtù delle quali l’attuale, efferato nemico dell’Occidente trae forza parassitariamente da ciò che l’Occidente ha di fatto reso possibile. S’impone allora una assunzione di responsabilità che ci spinga tutti ad interrogarci sul senso e sulla legittimità di un modello di sviluppo e di sapere che ha generato, come sua possibilità endemica e spettralmente reale, la distruzione dell’umanità e del pianeta. Il terrorismo è solo la punta dell’iceberg costituito dai “rischi globali” (minaccia nucleare, disastri ambientali, epidemie virali, global warming): effetto spesso invisibile e irreversibile del potere economico e tecnologico che varca ogni confine, e del suo automatismo prometeico, ormai libero di scatenarsi in assenza di efficaci istanze di controllo e di previsione.
La politica, certo, svolge ancora il suo ruolo, soprattutto se si è disposti a riconoscere il vuoto creato dalla crisi della sovranità degli Stati e la necessità di una governance transnazionale; purché questa sia capace non solo di assumere l’onere dell’emergenza, ma anche di aprire nuovi spazi di contrattazione e di decisione tesi a future operazioni preventive. Ma la posta in gioco è troppo alta per affidarla unicamente a soluzioni istituzionali. I pericoli della globalizzazione esigono una mobilitazione soggettiva, in cui ciascuno si riconosca, al di là delle legittime differenze, membro di uno stesso genere umano e si pensi come nodo di una rete, coesa e fragile allo stesso tempo; in cui ciascuno sappia vedersi nella triplice e simultanea funzione di spettatore, vittima ed attore.
Nella sua terribile crudezza, l’evento americano cela forse al suo interno un’immagine simbolica rivelatrice di questa possibilità o, se si preferisce, di questa speranza: l’immagine di quei passeggeri dell’aereo che hanno consapevolmente scelto, sulla base di una drammatica e lucidissima deliberazione comune, di opporre resistenza al terrore, votandosi a morte certa e salvando così molte vite umane; l’immagine di un piccolo scampolo di umanità che “di fronte all’estremo”, non ha esitato a varcare la soglia dell’individualismo compiendo il salto verso un agire disperatamente solidale.
* Docente di Filosofia politica all’Università di Firenze

 

 


L’ultima parola
Sergio Rostagno*

Personalmente non riesco a pensare ad altro. Non ci sono mezzi più civili per far valere le proprie ragioni? Veramente esiste solo questo mezzo, l'attacco terroristico efferato? Queste sono domande che poniamo agli autori dell'atroce gesto, ma che dovremmo farci per primi. Non sono per caso stati i nostri governi occidentali a ironizzare su ogni sforzo per il riavvicinamento dei popoli? Davvero l'Onu andava indebolita e scavalcata ogni volta che fosse possibile? Governi e Servizi segreti non stanno forse raccogliendo quel che hanno essi stessi seminato? Tutte le volte che il mondo si trova sull'orlo di un baratro, ci si ricorda dei buoni propositi; passato lo spavento, si comincia come prima. Il terrorismo è colpevole illusione di poter arrivare da soli e direttamente, laddove le persone ragionanti impiegano tempo. Sono scorciatoie irresponsabili, oltreché atroci. Ma per essere meno cinici, occorre anche trovare interlocutori. 
Giorni fa su “Repubblica” Augias, se non ricordo male, invocava un messaggio risoluto da parte delle tre religioni monoteistiche. Qualche cosa gli deve essere rimasto nella penna: che c'entra essere tre o cinque, essere o non essere monoteisti? E non sarebbe meglio dare qualche notizia su ciò che le religioni hanno già detto e fatto da decenni? Forse che le religioni aspettano l'11 settembre per parlare? Sono sveglie da tempo. Chi non lo è, invece, dovrebbe essere svegliato. Sono anni che le religioni avvertono che sarebbe finito così. Le religioni possono dire (e dicono) quel che nessun politico si può permettere: chi è causa del suo mal, pianga se stesso. Certo c'è modo e modo di dirlo; e piangere con le vittime fa anche parte del conforto religioso. 
Accanto a ciò, deve starci un richiamo fermo rivolto alla propria parte e al proprio paese. Non vi è dubbio che l'assassino tale resta e va fermato. Ma nessuno può lavarsi le mani come se fosse innocente. Questo le religioni non hanno difficoltà a dirlo, sia pure nel loro linguaggio sempre un po' velato e liturgico. Più difficile, per loro, denunciare il fondamentalismo interno. Si è sempre tentati di identificare la propria causa con la causa di Dio. Si aspetta anche il buon momento per lanciare messaggi 'profetici', talvolta ambigui. Altre sono le necessità, per esempio la maturazione efficace di un messaggio di umanesimo: non vi è altra soluzione. 
Ma quante volte è stato detto questo dal Dalai Lama, dalle assemblee ecumeniche cristiane, dai pulpiti più modesti o più autorevoli? È stato detto in tutti i toni. Non ci avete mai dato ascolto e ora venite a chiederci di parlare. Il futuro è preoccupante abbastanza. Non si può tornare indietro, e non si sa dove si stia andando. Alla mossa dei terroristi, si risponde con contromosse. Ammettiamo che ci sia qualche ragione tattica per farlo; sicuramente non è una soluzione di lungo respiro. Il mondo non può essere governato così. Occorrono politici lungimiranti. Il crimine non giova alle iniziative lungimiranti delle persone laiche o religiose che vogliono costruire. Taglia loro le gambe e allontana da loro il consenso. Gli atti terroristici non giovano mai al pensiero umanistico, capace di distinguere laicità e religione, che vuole rispetto delle convinzioni per la causa comune dell'umanità, che crede nella scuola per informare correttamente e aumentare la duttilità e la profondità delle convinzioni stesse. Il terrorista non vuole niente di questo. Il mondo ora pare suo. Speriamo che non abbia l'ultima parola. 
Ma perché non l'abbia, occorre che le parole ritrovino il potere di analizzare, convincere, illuminare. Mi è accaduto sentire in treno una persona augurarsi che vengano mandati a combattere i giovani dei motorini e telefonini, perché "provino un po' anche loro cosa vuol dire". Altri parlano di "pace" solo per poter continuare a vivere come se nulla fosse stato. Queste insensatezze vanno prese sul serio e confutate con l'informazione. *Ordinario di teologia sistematica, Facoltà Valdese di Teologia, Roma.

 

 


 

L'incontro mancato con la modernità
Di Emanuele Severino*

 

I modi specifici in cui si è sviluppata la violenza dell'integralismo islamico non erano certo prevedibili, ma era prevedibile che il Sud del Pianeta avrebbe esercitato una pressione crescente e sempre più violenta sui popoli del Nord. Una quindicina di anni fa osservavo che "i paesi arabi sono i meno poveri dei paesi sottosviluppati e possono assumersi il compito di battistrada nella pressione che i paesi poveri esercitano e sempre più eserciteranno su quelli ricchi. ("La tendenza fondamentale del nostro tempo", Adelphi 1998"). E quasi quattro anni fa scrivevo che la "globalizzazione" produce un contraccolpo sulla civiltà occidentale che per estendersi ovunque "ha dovuto aprire vie di comunicazione e produrre mezzi di trasporto che più o meno direttamente favoriscono il movimento in senso inverso, quello migratorio dei popoli del Terzo Mondo che premono ai confini dell'Occidente. Aggiungevo: "tale pressione costituisce un problema non soltanto etnico, ma anche e soprattutto culturale. È la religiosità non cristiana, in particolar modo quella islamica, a introdursi nei paesi dell'Occidente insieme alle grandi masse migratorie. E l'Islam è qualcosa di molto diverso dal Cristianesimo. Non tanto per i suoi contenuti, ma perché la religiosità islamica (tra l'altro senza confronto più aggressiva di quella indù, buddista o taoista) non è stata ancora sottoposta a quel pensiero critico - di tipo filosofico, scientifico e in genere culturale - che nell'età moderna e contemporanea in Occidente ha fatto retrocedere il Cristianesimo dalle sue posizioni di dominio e ne ha ridimensionato valore e portata (Pro Brixia, pubblicato dalla Camera di Commercio di Brescia, marzo 1998). Richiamando un'analisi che vado sviluppando da trent'anni osservavo inoltre che la razionalità scientifico-tecnologica e il tipo di pensiero filosofico da essa presupposto sono destinati a portare al tramonto le grandi forme tradizionali occidentali, e innanzitutto cristiane (ibid.). Su questa destinazione si tratta di riflettere, e sull'essere essa stessa destinata a farsi sempre più chiara nella coscienza dei popoli. Ma il tramonto del Cristianesimo è in atto da secoli e occorrerà del tempo perché esso giunga al suo compimento. E in quello scritto aggiungevo "mentre il Cristianesimo si trova in condizione di conoscere da vicino il suo avversario, cioè la modernità", "l'Islam è ancora lontano da questa condizione. La diffusione dell'integralismo nel mondo islamico è una conferma di questa lontananza. Anche qui, dunque: è inevitabile che anche l'Islam a contatto con la modernità scientifico-tecnologica e critico-filosofica dell'Occidente perda terreno e si avvii al tramonto. Ma anche in questo caso si tratta di un processo che richiede tempo. Inoltre la crescente pressione migratoria del Terzo Mondo fa sì che tale processo si svolga ormai non solo nei paesi di origine ma anche nei paesi occidentali in cui l'Islam riesce a introdursi insieme alle masse umane che ne sono portatrici" (ibid.). E in quello scritto degli inizi del '98 concludevo dicendo "non può essere un processo indolore perché è il processo di decomposizione di un organismo" - l'Islam, appunto - "che compie ogni sforzo, lotta con ogni mezzo per sopravvivere il più a lungo possibile - anche perché è ancora convinto di non essere lui a dover soccombere, ma il suo avversario cioè quella ideologia della modernità occidentale che dall'Islam è sempre stata considerata come l'elemento negativo e anzi "diabolico" per eccellenza".

* Professore ordinario di Filosofia Teoretica all'Università di Venezia

Ipocrisia di governo
Paolo Sylos Labini *

La tragedia di New York e Washington e le sue conseguenze potrebbero portarci a ragionare intorno a molte cose, dal conflitto di civiltà alle guerre di religione, ma ritengo che spostare lo sguardo all’interno dei nostri confini possa aiutarci a fotografare la situazione e a mettere in evidenza alcuni aspetti della politica italiana.
Il crollo delle torri del World Trade Center e l’aereo abbattutosi sul Pentagono portano all’evidenza della nostra attenzione un disegno di legge progettato prima dell’11 settembre, ma che da questi eventi trae nuova e, ritengo, più forte rilevanza. Si tratta del provvedimento, già approvato al Senato e che tra poco sarà discusso alla Camera, che renderebbe le rogatorie internazionali molto complicate. In sostanza, a pochi giorni dgli attentati terroristici, una tra le massime priorità del governo italiano è di portare in porto un disegno di legge che di fatto pone ostacoli ad indagini che, al di fuori dei confini nazionali, riguardino persone sospettate di reati gravi, come quelli connessi al terrorismo, al riciclaggio di denaro, al traffico di stupefacenti, a crimini di mafia.
Come può, questa situazione, non suscitare l’imbarazzo di chi, all’interno della maggioranza o dell’opposizione, si rende conto della estrema gravità che pesa sull’approvazione di questo provvedimento, della vergogna che ne scaturirebbe per gli italiani di fronte alla comunità internazionale proprio in giorni come questi, in cui non si parla che di collaborazione dei Paesi civili in una lotta senza frontiere al terrorismo.
E come non vedere allora, e mettere in evidenza, l’ipocrisia di coloro che da una parte deprecano il terrorismo come uno tra i più grandi mali da debellare dalla nostra società, mentre dall’altra si privano di uno strumento efficace, come quello delle rogatorie internazionali, per portare a compimento questa lotta.
Se quella che stiamo cercando, di fronte allo sconcerto degli attentati terroristici, di fronte alla paura e all’orrore, è una risposta razionale, la risposta del governo italiano, con la volontà di approvare in tempi brevi questo disegno di legge, non ha nulla a che fare con la razionalità, ma rappresenta, al contrario, la negazione della ragione.

*Economista

 


Vittime del nostro egoismo
Laura Toscano*

Quelle immagini in diretta dell’11 settembre sono ancora nei nostri occhi. Quell’urlo collettivo dalle macerie di una civiltà è ancora nelle nostre orecchie. Il mito dell’indistruttibilità non esiste. Non esiste più. Fino a ieri il catastrofismo di certe immagini sembrava solo un’ostentazione hollywoodiana. Ma dentro a quelle torri non c’erano eroi. C’erano vite, amori, problemi. C’erano segretarie, camerieri, studenti, pompieri, poliziotti, non i guardiani, dei destini del mondo. Potevamo esserci noi. Tragica forza dei media. Quando l’emozione sarà passata, e passerà, perché la nostra memoria ha un passo corto, forse cominceremo a farci domande. Ci chiederemo come sia potuto succedere, ci chiederemo come sia possibile che la maggiore potenza mondiale si sia fatta beffare da un centinaio di uomini armati di temperini, ci chiederemo perchè l’Occidente è considerato l’Impero del Male? Da dove viene tanto odio?  La colpa di quali ingiustizie passate e presenti stiamo pagando?
Oggi si pensa “ad una necessaria reazione armata degli Stati Uniti e degli alleati”. Contro chi? Osama Bin Laden? I Talebani? Afghanistan? E  chi altri? Sulla base di quali prove? Possibile che improvvisamente a pochi giorni da quei tragici fatti che hanno colto di sorpresa il mondo intero, ora sia tutto chiaro? È pacifico che un attentato così grave non possa restare impunito ma i “venti di guerra” che emotivamente spirano in tutto l’Occidente fanno temere la possibilità di altri “errori” di altre orrende ingiustizie: fanno temere reazioni. Si parla di nucleare, di guerra chimica.
Da qui lo smarrimento. Giusto quindi orientare la ragione, riflettere, capire. Giusto quindi che , al di là dell’ovvia partecipazione ad una tragedia così esecrabile, qualcuno ci spieghi.
Giusto quindi ribadire con fermezza un no alle vendette affrettate, alla compensazione vendicativa con altre vittime innocenti.
E chiederci se la radice del male non sia in un senso di “giustizia” troppo utilitaristica che spesso ha mosso l’Occidente in direzione di esclusiva opportunità, a scapito dei più deboli, di quelli senza voce. Altrimenti perché correre in soccorso del Kuwait e non del popolo curdo da anni disperso, massacrato dalla Turchia? Il terrorismo e l’ideologia fanatica trovano fertile terreno proprio là dove le ingiustizie sono più gravi e plateali.
E se questa operazione “giustizia infinita” dovesse diventare solo la guerra del ricco Occidente contro i diseredati del mondo, avremmo già perso. Almeno nel profondo delle nostre coscienze. Si dice che dall’11 settembre la nostra vita è cambiata. Non me ne sono accorta. L’attimo dell’orrore e dell’incredulità è passato scavalcato da altre preoccupazioni.
De l resto la nostra vita non è cambiata per i sei milioni di ebrei trucidati dai nazisti. Non è cambiata per le vittime dell’atomica di Hiroscima e Nagasaki. Non è cambiata per il milione di bambini iracheni morti in seguito all’embargo. Abbiamo una capacità di adattamento agli eventi che solo una grande tragedia collettiva può mutare. La nostra miopia circoscrive gli orizzonti, ci porta a credere che le colonne d’Ercole delle abitudini del nostro quotidiano siano invalicabili. Ci siamo chiusi sempre di più in un egoismo esistenziale che di tanto in tanto viene smosso da  violente scariche di adrenalina. I problemi privati si enfatizzano. La televisione è il nostro unico interlocutore. Se l’attentato dell’11 settembre servisse a riaprire la nostra mente alle emozioni collettive, alla solidarietà, al dialogo, alla comprensione della diversità, all’equanimità di giudizio sulle tante ingiustizie del mondo, invece che alla vendetta cieca, allora forse il terrorismo nascerebbe sconfitto e i Bin Laden della terra e gli altri folli assassini come lui non avrebbero seguito né scampo.
*sceneggiatrice
 

 

Libertà contro paura
Marco Vitale*

I nemici di uno sforzo serio per un nuovo ordine all'altezza delle grandi sfide alle quali ci troviamo di fronte sono l'ignoranza, la mistificazione, i fondamentalismi, le "elite" che prive del potere satrapesco che derivava loro dai regimi collettivismi cercano, attraverso il caos dei rispettivi paesi, di impadronirsi del potere economico (James parla di "elite sponsored caos"),coloro che, nell'incertezza delle nuove prospettive, temono di trovarsi tra i perdenti e tanti altri. Sufficienti per permetterci di concludere che la speranza di una evoluzione verso una globalizzazione "soft", che pure avevamo nutrito, è da ripiegare e mettere ordinatamente nel cassetto. Come tutti i grandi processi della storia dobbiamo mettere in cantiere passaggi molto dolorosi. E' questo che fa dire, ben prima di Genova e di New York, a James: "vi sono almeno quattro ragioni per pensare che una violenta reazione (al processo di globalizzazione) "sia inevitabile". E dunque dobbiamo prepararci, organizzativamente ma ancor più moralmente, a fronteggiarle.
E questo mi sembra che sia anche il significato principale dell'immane tragedia di New York e Washington. Non voglio aggiungere troppe parole alle tante che sono già state dette. Mi sembra che la natura dell'attacco e la responsabile risposta dell'America non lascino spazi al minimo dubbio. Dobbiamo essere tutti al fianco, senza la minima esitazione, dell'America. L'11 settembre ho inviato al console americano a Milano un messaggio di condoglianze dicendo: oggi mi sento newyorkese. Ed ancora lo sono, anzi sempre di più osservando gli ammirevoli comportamenti dei cittadini di quella meravigliosa città. Dirò di più. Non di una solidarietà astratta contro un terrorismo senza volto si tratta. Ma di una presa di posizione aperta contro il fondamentalismo islamico e contro le sue radici culturali e religiose. E' vero che dobbiamo evitare lo scontro di civiltà o indebite e grottesche classifiche di superiorità tra civiltà? Come è vero che la civiltà ed il pensiero islamico sono cosa ben diversa dal pensiero di questi assassini. Ma il fondamentalismo islamico se non è l'Islam fa pur parte dell'Islam . E quindi è necessario contrastarlo anche sul piano culturale, religioso e politico, senza timori. Dobbiamo chiamare il pensiero islamico serio a fare passi avanti sulla via della libertà, dei diritti civili, del laicismo, come noi abbiamo fatto, circa mille anni fa rigettando per sempre i tentativi di imporre un regime teocratico, che pure ci sono stati anche nei paesi cattolici. E dobbiamo chiamare i saggi dell'Islam, i tanti personaggi di grande cultura di questi paesi a prendere posizione aperta e non equivoca nei confronti di questi loro concittadini e compagni di fede che si buttano contro le Twin Towers con aerei pieni di vittime sacrificali, pronunciando le magiche parole Allah Akbar. Sono loro e non noi che devono dirci e soprattutto dire ai loro concittadini e compagni di fede se Allah è d'accordo e questa è la Jihad di cui parla la loro religione, e se non lo è che cosa è. Ma non devono dirlo solo con le parole di solitari studiosi. Lo devono dire pubblicamente, ufficialmente, rumorosamente, affinché i popoli odano e comprendano.
Ma tutto ciò non deve impedirci di riflettere e di fare anche le nostre autocritiche. Pochi giorni dopo l'attentato sono andato a Bombay e questo mi ha dato la possibilità di guardare alla tragedia anche da un punto di vista indiano. Anche qui tutti quelli che ho incontrato erano a fianco dell'America. Il governo ha indetto, per il 18 settembre, il giorno della solidarietà contro il terrorismo; tutti i partiti sono stati compatti su queste posizioni; il capo di governo ha fatto pubblicare sui giornali intere pagine contro il terrorismo, affermando: "ogni indiano deve essere parte di questa guerra globale contro il terrorismo. Noi dobbiamo scacciare, e ci riusciremo, questo demonio dalla nostra terra e dal mondo". Ma le stesse pagine pongono l'immagine dell'attacco alle Twin Towers al termine di una serie di altre immagini che rappresentano altri gravi attentati terroristici, subiti dall'india, dalle stesse fonti terroristiche, negli ultimi dieci anni; per sottolineare l'unitarietà della lotta e dell'impegno comune.
Vi sono tre punti sui quali dobbiamo riflettere e tentare delle nuove risposte mi hanno detto degli amici indiani: l'America ha contribuito a creare personaggi come Osama Bin Laden e come Sadam Hussein; perché? Quali sono le forze ed i motivi che inducono tante persone a sacrificare la loro vita e di tanti altri per dare una lezione all'America? Perché l'America si muove solo quando il terrorismo la colpisce direttamente; lo sapete che l'India ha avuto 53.000 vittime del terrorismo e nessuna solidarietà? Queste domande non sono poste con intenzione polemica ma come necessità di riflessione, per costruire una solidarietà mondiale vera, una globalizzazione, anche di pensiero, vera, contro i mali del mondo. La speranza di una nuova più costruttiva politica non può non passare anche attraverso una riflessione critica di questo tipo. Qui, oltre che nell'azione di polizia internazionale, può radicarsi la speranza.- Se non vogliamo che tutto il mondo si riduca come si è ridotto Israele nel suo confronto senza fine con i Palestinesi.
Nella fermezza, dunque, ma dobbiamo avviare una revisione critica profonda di tante cose. Come scrive Harold James:
"Questi mutamenti ci rendono consapevoli di come la nostra attività è ormai legata con il destino di altri miliardi di esseri umani nel mondo. Il dramma delle trasformazioni economiche che stiamo vivendo richiede un riordino sostanziale delle nostre istituzioni, non un loro abbandono ma un ripensamento completo delle politiche tradizionali, come esse si sono sviluppate nel corso del secolo scorso"
Nell'immensa tragedia che ci ha colpito io vedo anche dei segnali potenzialmente positiva. Innalzi tutto la natura allucinante dell'attentato stesso mi sembra espressione più di un delirio che di una forza; mi sembra un atto di disperazione di chi non ha un disegno ed una prospettiva (come le BR con l'uccisione di Moro; come la mafia con l'assassinio di Falcone e Borsellino). Vedo, invece, un maturo equilibrio nei governi, un desiderio diffuso di tornare a pensare; una maggiore consapevolezza che il mondo richiede maggiore responsabilità ed unione; una apertura nuova in certi paesi islamici; la stupita amarezza degli americani nello scoprire che non tutti li amano; la sensazione che una fatica lunga e dolorosa ci aspetta ma che può trattarsi di una fatica positiva, illuminata da una luce, da un senso: costruire veramente un mondo più unito in una globalizzazione più seria e profonda; la riscoperta profonda dei nostri valori più autentici ed universali, quelli che fecero dire a Truman nel suo discorso inaugurale, il 20 gennaio 1949, sulla collina di Washington:
"Il popolo americano desidera, e per questo è pronto a lavorare, un mondo in cui tutte le nazioni e tutti i popoli siano liberi di governarsi come meglio credono e di raggiungere una vita decente e soddisfacente. Sopra ogni altra cosa il nostro popolo desidera, e per questo è pronto a lavorare, la pace nel mondo - una pace immediata e duratura - basata sullo spontaneo accordo liberamente raggiunto tra uguali…
Il nostro scopo dovrebbe essere quello di aiutare i popoli liberi del mondo, attraverso i loro stessi sforzi, a produrre più cibo, più vestiti, più materiali per costruire le loro case e più energia per alleggerire il peso delle loro vite.
Noi invitiamo gli altri Paesi a mettere insieme le loro risorse tecnologiche per realizzare questa impresa. Ogni loro contributo sarà caldamente benvenuto. Questa dovrebbe essere un'impresa di cooperazione in cui tutte le nazioni lavorano perfettamente insieme attraverso le Nazioni Unite e la le loro agenzie specializzate. Deve essere uno sforzo che coinvolga il mondo intero per il raggiungimento della pace, della ricchezza e della libertà.
Tutti i Paesi, compreso il nostro, trarrà enormi benefici da un costruttivo programma per un migliore uso delle risorse, umane e naturali, del mondo. L'esperienza ci insegna che il nostro commercio con altri paesi si espande se questi paesi progrediscono a livello industriale ed economico.
Solo aiutando il meno fortunato dei suoi membri ad aiutare se stesso, la famiglia degli esseri umani può raggiungere una vita decente e soddisfacente che è diritto di ogni individuo.
Soltanto la democrazia può fornire la forza vitalizzante necessaria a sollevare individui di tutto il mondo verso azioni trionfanti dirette non solo contro i loro oppressori umani, ma anche contro i loro antichi nemici come la fame, la miseria e la disperazione….
Noi siamo aiutati da tutti coloro che desiderano vivere liberi dalla paura, ed anche da coloro che oggi vivono oppressi per la paura verso i loro governanti ..."
Forse questo appello può suonare un po' retorico oggi. Ma non era retorico allora. E può ritornare a non suonare retorico oggi. Parte importante degli impegni assunti in quell'appello (la ricostruzione dell'Europa; la resistenza sino alla vittoria contro il terrore comunista) sono stati portati a termine.
Altri devono essere ripresi, nello stesso spirito e la stessa convinzione, oggi. E noi Europei, che allora non esistevamo più ma che oggi esistiamo di nuovo, anche grazie all'America ed a quell'appello, dobbiamo fare la nostra parte. Senza viltà ed astuzie e sapendo rimettere in gioco un po' del nostro futile modo di vivere.
Se così sarà, allora se è vero, come tanti hanno scritto, che l'11 settembre 2001 ha cambiato il mondo, si potrà aggiungere: ma, come è di tutte le grandi prove e tragedie, forse non lo ha, necessariamente, cambiato in peggio.

*Economista d'impresa


      

 

Prima definiamo il campo di battaglia
Michael Walzer*

C’è una vecchia vignetta di Bill Mauldin nella quale due attempati gentiluomini siedono in un club per signori.  Uno si piega verso l’altro e fa: “Ti dico che è guerra,  Throckmorton, e ti dico anche : “Combattiamo!”
A Washington dall’11 settembre si sono sentiti molti discorsi del genere.  E si sono sentiti anche in tutta la nazione:  ci sentiamo un po’tutti come l’amico di Throckmorton.  Ma c’è la guerra? E se c’è, come dobbiamo apprestarci a combatterla?
Di certo tutti noi abbiamo un nemico, qualunque sia la nostra ideologia politica, qualunque sia la nostra fede religiosa. Le nostre esistenze e il nostro modo di vivere sono stati attaccati – lo dicono tutti, ma è vero. Quest’attacco può aver avuto le sue origini più dirette nella Guerra del Golfo; può essere stato alimentato dai risvolti  fanatici e profondamente distorti del blocco Iracheno e del conflitto tra Palestinesi e Israeliani.
Ma le sue cause sono molto più profonde: il rancore verso la potenza americana e l’odio per i valori che a volte, almeno, guidano la sua politica. Comunque questa non è una “guerra di civiltà”, dal momento che il nostro nemico non rappresenta una civiltà.  Non siamo in guerra con l’Islam, anche se i terroristi sfruttano il fervore  religioso Islamico.
E’ dunque guerra? Il termine è inoppugnabile, purchè coloro che lo utilizzano si rendano conto che è una metafora. Non c’è, in questo preciso momento, uno stato nemico, non c’è un ben definito campo di battaglia.  Il termine “guerra”, comunque, si può prestare bene come metafora che stia a significare lotta, impegno, resistenza. L’azione militare, sebbene possa arrivare, non è la prima cosa a cui dobbiamo pensare.  Piuttosto, in questa “guerra” al terrorismo, altri tre aspetti hanno la precedenza: un lavoro intensivo delle forze di polizia al di là dei confini nazionali, una campagna ideologica per impadronirsi di tutti gli argomenti e le giustificazioni a favore del terrorismo ed eliminarli, ed uno sforzo diplomatico serio e sostenuto.
Ciò che le forze di polizia devono fare è ovvio, ma c’è un compito anche per i capi religiosi e gli intellettuali, perché l’ambiente intellettuale in molte parti del mondo non è sufficientemente ostile al terrorismo.  I terroristi vengono protetti moralmente come fisicamente, ed il solo rimedio è la discussione politica.  I  nostri diplomatici devono fare molto di più di quanto hanno fatto nel costruire la coalizione che ha combattuto la Guerra del Golfo.  Quella era un’alleanza scadente, adatta al momento ma non alle lunghe distanze.  L’alleanza contro il terrorismo dev’essere strutturata per durare: deve riposare su patti esigenti e che possano essere fatti rispettare.
Ma ciò di cui tutti vogliono parlare è l’azione militare – non la metafora della guerra, ma la guerra vera. Che cosa possiamo fare, quindi?  Ci sono due condizioni da soddisfare prima che si possa combattere in maniera giusta.  Dobbiamo identificare dei validi obiettivi – persone effettivamente impegnate nell’organizzazione, nel supporto o nell’esecuzione delle attività terroristiche.  E dobbiamo essere in grado di colpire tali bersagli senza uccidere un gran numero di innocenti.
A dispetto delle critiche per gli “assassinii” Israeliani da parte di ufficiali statunitensi, io non credo che importi, da un punto di vista morale, se gli obiettivi sono gruppi di persone o singoli individui, a patto che queste due condizioni vengano rispettate.  Se non riusciamo a rispettarle, difenderemo la nostra civiltà semplicemente imitando i terroristi che la stanno attaccando.
Da questi due criteri consegue che le incursioni dei reparti d’assalto sarebbero verosimilmente meglio di attacchi con missili e bombe.  Quando il bersaglio è, per dire, un piccolo e sparpagliato gruppo di terroristi durante le esercitazioni, un soldato armato di fucile è più abile della bomba più efficace.  Ma cosa succede se lo scopo del nostro attacco è quello di costringere i governi che appoggiano le attività terroristiche a consegnare i terroristi o a smettere di finanziarli? Questo è certamente un valido scopo – in realtà uno scopo necessario per qualsiasi alleanza che si opponga al terrorismo. Ma le nostre capacità coercitive in tale sfera sono moralmente limitate.  Non possiamo convincere i governi terrorizzando le loro popolazioni civili. In paesi disperatamente poveri come l’Afghanistan, noi non possiamo cominciare a distruggere sistematicamente ogni infrastruttura rimasta.  Reti elettriche e impianti di purificazione delle acque non sono obiettivi legittimi.
Possiamo bombardare gli edifici governativi, che probabilmente saranno stati evacuati.  E forse se il bombardamento sarà spettacolare e i piloti eroici, quest’atto simbolico ci consentirà di andare avanti con ciò che realmente bisogna fare. Gli stati terroristi devono essere isolati, ostracizzati e messi sotto embargo; bisogna chiudere le loro frontiere; bisogna penetrare le loro organizzazioni segrete; bisogna rifiutare dovunque le loro giustificazioni ideologiche.
Il pericolo più grande in questo preciso momento è che dopo aver realizzato danni sufficienti – da qualche parte- ci allontaniamo da quei compiti e da quell’impegno di risorse necessari per sconfiggere il terrorismo.
Dobbiamo perseguire la guerra metaforica;  aspettiamo, per quella vera.

* Filosofo della politica all’ Institute for Advanced Study  di Princeton e co-direttore della rivista “Dissent”.

Questo articolo di Michael Walzer è stato pubblicato sul New York Times

 

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