La sinistra e la violenza digitale
Michele Mezza* Valentino Filippetti**


 Se Bin Ladin fosse morto cosa cambierebbe per il popolo dei mullah?  A questo punto bisogna rispondere assolutamente nulla. Le sue parole continuerebbero ad infiammare le praterie del fondamentalismo islamico. Probabilmente qualcuno  continuerebbe a consegnare a questa o a quella catena televisiva le cassette registrate nella caverna al neon del   talebano miliardario.Il cui messaggio, virtualmente, sopravviverebbe ad ogni destino .
Con la comparsa , meno di due ore dopo l’inizio del bombardamento dell’Afganistan domenica notte,sugli schermi del mondo delle diafane immagini dell’ intero  vertice di Al Quaida che faceva da corona al proprio leader che con voce placida e sicura lanciava il maleficio contro  i sogni dell’occidente è cambiato radicalmente lo scenario  della guerra.Anzi è mutata l’idea stessa di conflitto, ereditata dal passato millenio.
Per la prima volta  lo strapotere comunicativo del mondo anglo americano  trova sulla sua strada  un’entità che  intende  contrapporsi sullo stesso terreno. Anzi quest’entità  sembra voler   costruire il proprio primato espressamente sul terreno della comunicazione globale. Del resto già dalla terribile mattina del 11 settembre, di fronte alla scenografica precisione del feroce piano terrorista, si era capito  quale  linguaggio e quali interlocutori aveva scelto  il regista della strage: una platea globale da ipnotizzare con la  spietata  evidenza di messaggi  comunicativi.
Quella iniziata  in quella  limpida mattinata newyorkese  sarà una guerra di media più che un conflitto di missili.Un clash of media più che un clash of civilization. L’immancabile  cronicizzazione delle emergenze militari, con  l’alternanza fra operazioni belliche e annunci di obbiettivi, porterà fra non molto l’attenzione del pianeta a concentrarsi  sulla scacchiera geo politica, dove Islam e occidente, inevitabilmente si troveranno a misurare le proprie capacità di egemonizzazione. Qui sarà decisivo l’uso dei media.Tanto più se proprio Bin ladin dovesse giocare la carta della mediazione. Proprio  nelle pieghe delle sue parola trasmesse da “Al Jazeera” domenica sera si intravvede una inconsueta mossa del cavallo. Combatteremo fino alla fine, almeno fino a quando Palestina ed Arabia saudita non saranno liberate. Si tratta di un  obbiettivo non fantascientifico, se è vero che la Casa Bianca da tempo  è impegnata ad una soluzione del conflitti  attorno a Gerusalemme e che in Arabia  Saudita la presenza militare statunitense può essere sostituita da altri intermediari.A questo punto c’è da capire allora cosa è realmente avvenuto l’11 settembre? Cosa  ha portato all’ecatombe delle Twuin Towers? Se davvero si dovesse ipotizzare una soluzione intermedia  fra l’apocalittica minaccia della caverna e  il proposito di soluzione finale sostenuto dai più duri fra i collaboratori di Bush, come leggere l’evento che ha cambiato il mondo? Sicuramente aiuterebbe capire quali siano le conseguenze più macroscopiche e da dove è potuta venire  la possibilità di realizzare una simile violenza globale.
Per potenza d’impatto storico, siamo di fonte ad un avvenimento simile al colpo di pistola  che uccise l’arciduca Francesco Ferdinando a Serajevo, nel 1914, o al colpo di cannone che partì dall’incrociatore Aurora a  S.Pietroburgo nel novembre del ’17, o ancora a quel buco nero che  ingoiò il presidente Kennedy a Dallas nel ’64. Eventi che  squassarono  anch’essi il pianeta, riclassificandone le categorie  geo-politiche e culturali. Eventi che saldarono, ognuno  con una combinazione  diversa  fra i singoli elementi, determinazione, lucidità operativa e sorpresa. Insieme ad un altro decisivo fattore, la capacità di concepire e far crescere l’evento nel ventre stesso del sistema che si voleva colpire.In tutti i casi citati, ovviamente con le  tipicità del diverso momento storico e della diversa qualità dell’avvenimento, chi sferrò il pugno nello stomaco al mondo poté muoversi come pesce nell’acqua. L’anarchico che attraversò l’atlantico, dopo aver dichiarato ai quattro venti cosa andasse a fare in Italia, gli ufficiali della marina zarista, da mesi in rivolta, i  mille mister  personaggi senza volto ma con  espliciti interessi che si mossero  lungo un viale assolato di Dallas   , ebbero modo di agire proprio perché contigui e riconosciuti dal sistema.
L’attacco all’America  presenta un elemento in più, dirompente  nella sua  geometrica efficacia: il sapere.Chi ha pensato  quell’insieme di azioni, millimetricamente riuscite,  ha potuto contare su una massa di sapere non disponibile sul mercato ordinario. I livelli di competenze e di formazione che sono entrati in gioco, combinati con  moduli organizzativi e di penetrazione negli apparati americani,dovrebbero far pensare.Così come il gusto della trama multimediale ci porta a qualcosa di convergente e non dirompente con la cultura occidentale.
Colpiscono in questi giorni i continui riferimenti del segretario di Stato  statunitense Colin Powel alla natura  “interna” dell’azione. In pochi giorni , per più volte, il responsabile della politica estera americana che nella Casa Bianca sembra colui  che meglio e con più prontezza abbia decifrato  aspetti nevralgici dell’attacco, è ritornato sul concetto. L’ultima volta dicendo che il livello di violenza e di devastazione interna subita dagli Usa 11 settembre è possibile rapportarlo solo a quanto  accaduto nella guerra civile. Non si tratta di giocare con le parole per dare corpo all’ennesimo spettro  cinematografico dell’attacco al Potere o del nemico interno. Powel , forse, si riferiva proprio a quei livelli di dimestichezza con strati alti del sapere  di apparato che non sono  normalmente accessibili, e non lo sono  senza rendersi visibili.
La volontà devastatrice e nichilista della rete di Bin  Laden è fuori discussione. La capacità di quell’area di fondamentalismo islamico di predisporre azioni mortali, anche ad alto livello è acquisita. La nuova disponibilità di kamikaze  con un alta formazione - dato questo non da considerare  normale e su cui andrebbe riflettuto per capire cosa significa che gente studia per anni per poi ammazzarsi  pur di ammazzare - rende micidiale la determinazione di chi vuole colpire.Ma nonostante tutto  non possiamo non rilevare  che il livello di penetrazione  nelle pieghe di un sistema informatizzato e blindato , quale quello realizzato, non è cosa da hacker. Prima ancora dell’azione, vi si rintracciano  scie di un pensiero, di una riflessione, sulle nuove flessibilità del sapere, sulla permeabilità di un sistema a rete, sull’abbassamento della soglia di uso di competenze strategiche, che  in altri tempi erano esclusivamente riservati alla dimensione statale, che non possono non essere colte e decifrate. È questo un pensiero che rivela  una  stretta appartenenza culturale all’occidente.Una continuità fisica, un comune traspirare.Chi ha dato forma alle pulsioni criminali  dell’ 11 settembre ha potuto contare su questa increspatura della levigata superficie di silicio del primo mondo.
Ci rendiamo conto che anni e anni di riflessi complottardi  portano molti a voltarsi dall’altra parte alla ricerca di una semplificazione bellica, risolvendo tutto con il nemico che tutto può, da solo. È altrettanto vero  che la nuova dinamica dei rapporti di forza, lo stesso terreno dove questi rapporti possono misurarsi, dovrebbe consigliare una maggiore attenzione al nuovo.Dall’11 settembre è in campo una  nuova idea di forza, anzi di potenza. Un’idea che può persino prescindere da un territorio e da una ideologia. Ma non da un sapere, ne da una capacità di comunicare. È l’idea di una potenza virtuale che incombe, e che potrebbe incombere per molto tempo, se non addirittura per sempre.Una potenza generata dal possesso indiscriminato e antagonistico del sapere.Parallelamente alla risposta militare, che deve disarmare quanti offrono a quest’idea strumenti  per colpire, dobbiamo intervenire su questo terreno strategico per non rimanere subalterni  ai messaggi della caverna. È il terreno che si apre specificatamente alla sinistra: una riflessione  di lungo termini, un pensiero non lungo ma lunghissimo, sulla qualità e sulla natura dello sviluppo moderno. Una riflessione che è già stata avviata dai sensori più avvertiti del sistema. Proviamo a confrontare   i ragionamenti  del “Wall Street Journal”, o di “Newsweek”, o del “Financial Time” pubblicati  prima dell’ 11 settembre  con quelli pubblicati successivamente. In poche ore si è assistito ad una rivoluzione copernicana. Proprio in termini lessicali. Il termine mercato  pare stupefacentemente sostituito, quasi con un correttore computerizzato, dal termine stato o politica.Non si tratta certo solo della nostalgica rivincita dei “politicisti” nei confronti del  “mercantilisti”. È in atto qualcosa di più profondo. Si è misurato  il limite di una  cultura, di cui si sono intravisti istinti paurosi. È singolare ad esempio che proprio i capisaldi del liberismo oggi  discutano  disinvoltamente di come scambiare quote di libertà per quote di  sicurezza, e solo qualche mese fa a chi, come ad esempio Bill Joy, il vice presidente della Sun Microsystem, non Leone Trosky,che chiedeva una riflessione sulla natura dei meccanismi tecnologici che si sono innestati, preludendo ad una catastrofe planetaria proprio per la  dimensione anarchica dello svilupp, si rispondeva che nulla poteva frenare la libertà di chi intraprende.Una nuova idea di sviluppo, legato alla cooperazione fra individui può oggi trovare interlocutori più pragmatici. La stessa metafora dell’open source oggi può rivelarsi qualcosa di più di una geniale trovata di marketing. Si tratta di riaprire il confronto sul rapporto fra uomo e sapere, fra consumo e sviluppo.
L’occidente oggi, identificandosi solo con un modello intensivo,si ritrova indiscutibilmente più vulnerabile. E non basteranno certo le incursioni dei fanti della montagna americana del pamshir per rassicurarlo in futuro.Tanto più che proprio chi lo colpisce mostra di essersi alimentato  alla parte peggiore del primo mondo.Siamo oggi infatti minacciati da chi è troppo simile a noi e non da chi  rivendica una diversità. L’11 settembre si è rotto qualcosa di intimo   nella consapevolezza del sistema, la sua mappa del menoma .Ha segnalato una malformazione congenita, localizzandola proprio  nella spirale dello sviluppo. Bin Laden mostra di aver  percepito  il malessere e vuole amplificarlo, diventando egli stesso  il cancro che divora. La sinistra potrebbe trovare nella sua cassetta attrezzi  adatti ad intervenire, ridando spazio alla speranza, non solo per se stessa, ma all’intera comunità umana. E  offrire speranza,  non solo a noi stessi, ma a chiunque oggi abbia molto da perdere, è proprio la magia che abbiamo smarrito. Fino ad ora.

* Giornalista Rai
**Presidente Associazione NetWok



 

Cambia il rapporto Usa - Europa
 Antonio Missiroli*

È facile dire che il mondo è cambiato l’11 settembre. Meno facile è immaginare come, in quali possibili direzioni, e con quali prevedibili effetti. Anche perché il mondo cambierà soprattutto in base alla risposta che verrà data alla sfida terroristica. Ad esempio, la solidarietà e la collaborazione (anche militare) offerte a Washington dagli alleati europei nella “guerra” dichiarata dal presidente Bush avranno implicazioni importanti nelle relazioni transatlantiche, soprattutto per quanto riguarda la sicurezza internazionale. Fino all’attacco contro le Twin Towers e il Pentagono, infatti, Stati Uniti ed Europa si erano trovati a dissentire su un numero crescente di temi: dal protocollo di Kyoto alla non-proliferazione, dallo “scudo” antimissile all’eurodifesa. I dissensi non erano cominciati con l’elezione di Bush, si badi. Ma l’approccio adottato dalla nuova amministrazione americana - il “multilateralismo à la carte”, come l’ha definito un suo autorevole esponente, l’ambasciatore Richard Haass – aveva senz’altro accentuato le divergenze. Gli Stati Uniti apparivano sempre più reticenti ad assumersi responsabilità complesse (dal Medio Oriente ai Balcani) e sempre più concentrati su se stessi, dai tagli fiscali alla difesa strategica.
Lo shock dell’11 settembre ha quanto meno rimescolato le carte. Innanzitutto, purtroppo, gli Stati Uniti si sono scoperti più vulnerabili che mai, e ad opera di un aggressore che non ha certo usato missili nucleari intercontinentali ma, più semplicemente, le linee aree interne americane: un aggressore assieme primitivo nella sua violenza e post-moderno nella sua condotta - usando strumenti civili contro simboli economici e politici - in un’azione che è stata allo stesso tempo messaggio, mezzo e fine. Nel dichiarargli “guerra”, gli Stati Uniti si sono accorti di aver bisogno di collaborazione – anche da parte di paesi non proprio amici – e di dover perfino svolgere proprio quel ruolo di “sceriffo globale” che avevano appena dichiarato di rifiutare. In questo contesto, gli europei hanno fatto la cosa giusta: hanno offerto appunto una solidarietà incondizionata e un sostegno invece più mirato, basato anche sulla loro esperienza. Un’esperienza di lotta, più che di guerra, contro i terrorismi – al plurale, endogeni come esogeni – che li hanno afflitti nei decenni passati. Una lotta che puntava più a contenere e a prevenire (e qualche volta dirottare altrove) il terrorismo esogeno che a cancellarlo, ben conoscendone le capacità di rigenerazione, e che accettava un certo livello di vulnerabilità. Certo, gli europei hanno anche assunto un rischio: quello di partecipare ad un’azione che difficilmente potranno determinare in tutti i suoi aspetti e di cui potrebbero comunque subire le conseguenze. Ma, appunto, hanno presentato agli alleati americani la loro ‘carte’ del multilateralismo, che comprende collaborazione diretta, condivisione delle responsabilità e dei rischi ma anche, sperabilmente, una qualche influenza sul corso dell’azione comune.
Difficile al momento indovinare cosa accadrà allo “scudo” antimissile, o alla stessa Nato, soprattutto se sarà chiamata a svolgere un ruolo militare diretto nella risposta all’11 settembre. Ma è probabile che, se gli Stati Uniti dovranno trovare un equilibrio diverso fra unilateralismo e multilateralismo, l’Europa dovrà trovarlo fra protezione e proiezione, accelerando sia la sua integrazione interna sia la sua capacità di azione esterna. Ciò vale tanto per le politiche antiterrorismo - da condurre sempre più su scala transnazionale, superando le schermaglie bilaterali sull’estradizione e sullo scambio di dati - quanto per le operazioni di mantenimento della pace. È quasi inevitabile, infatti, che l’impegno americano nella “campagna” (forse il termine più appropriato) contro il terrorismo finirà per lasciare sempre più l’Europa agli europei - a cominciare dai Balcani - rafforzando in questo caso, più che modificando, una tendenza già in atto, ad esempio in Macedonia. Per diventare un attore internazionale degno di questo nome e un partner credibile per gli Stati Uniti, l’Europa sarà dunque costretta a fare i conti con le sue esitazioni e incoerenze interne – il che non significa necessariamente che vi riuscirà.

* Ricercatore presso l’Institute for Security Studies, Western European Union (Ueo - Unione Europea Occidentale), Parigi.

 

 


Uno scontro tra cattivi?
Stefano Nespor*

 “All’improvviso, ho visto un missile contro il palazzo, tutto ha preso fiamme, ho visto gente che si buttava fuori dalle finestre e cadere, cadere; poi l’edificio è crollato. Sono morte centinaia di persone”.
Non stiamo parlando del World Trade Center.
Questa è la deposizione di una donna che ha assistito alla distruzione di un condominio residenziale nel centro di Panama City, colpito da un bombardamento durante l’attacco degli Stati Uniti, per ordine del presidente Bush (il primo), per catturare il presidente\delinquente Noriega, portato al potere dagli stessi Stati Uniti in precedenza. Vi ricordate di Panama, o televisione e quotidiani non ne hanno parlato abbastanza?
È stato un atto di polizia, di autodifesa, di aggressione, di guerra o di terrorismo?
Certamente, non è stato un caso isolato.
Questo significa che non siamo in presenza di uno scontro tra buoni e cattivi. Siamo in presenza di uno scontro tra cattivi, anche se di diverso grado e intensità.
Chi perde, in questo scontro, gli sconfitti, le vittime, sono sempre gli incolpevoli.
A Panama, al World Trade Center  e con buona probabilità in Afganistan.
 Eppure, il terrorismo e l’attacco al Wtc non sono la conseguenza della politica militare, economica, ambientale degli Stati Uniti?
Il terrorismo e l’attacco al Wtc sono molto di più. Sono un attacco al pensiero occidentale, allo stato di diritto, all’idea non tanto di libertà quanto di tolleranza che il pensiero occidentale ha faticosamente conquistato, dopo secoli di guerre di religione e di contrapposti fanatismi. Sono questi i valori che ai fondamentalisti religiosi (non necessariamente fanatici, e non necessariamente islamici)  non piacciono.
È uno scontro non di politiche, ma di religione Bush (il secondo) lo ha capito e per questo ha detto che Dio è con noi (rispolverando parole in disuso dalla prima guerra mondiale).
 Il Wtc marca qualcosa che tutti avevamo più o meno sottovalutato (e che la Gran Bretagna ben aveva compreso nel XIX secolo, allorché aveva perseguito l’obiettivo primario di mantenere l’Europa continentale frazionata), e cioè la fragilità, l’instabilità e l’imprevedibilità di un sistema monopolare di governo del mondo. 

*Avvocato

 

 

“Impariamo a conoscerci”
Sergio Noja Noseda*

Mi ha sinceramente colpito la chiarezza della domanda-affermazione di Reset  nell’invitarmi a scrivere queste poche righe sugli avvenimenti – gli aggettivi, pur centrati, si sprecano – dell’11 settembre 2001 .
Sì, gli attentati di quel giorno hanno modificato la nostra ordinaria visione del mondo . Senza analizzarne le ragioni non fu tale il bombardamento di Guernica, podromo tecnico alla distruzione di Coventry e ai bombardamenti su Londra. Questi furono solo esempi per l’ avversario: gli aerei alleati risposero con lo stessa tecnica su Dresda e le altre città tedesche e in minima parte anche su quelle italiane. Ma la coscienza della nostra civiltà , e secondo me di tutte le civiltà disegnate dall’Huntington , compresa, è bene dirlo subito, quella islamica si rifiuta di imitare quell’esempio riempendo di missili edifici ed inermi cittadini .
L’incredibile infausto momento che abbiamo vissuto mentre gli stragisti, che si suppongono di matrice islamica, uccidevano con la loro pazza azione combinata migliaia di americani ignari di cosa stava accadendo: dal super manager davanti alla sua scrivania onusta di video terminali alla donna delle pulizie con il suo carrello carico di scopette e di detersivi, non mi fa deviare di un millimetro da ciò che ho lentamente elaborato nel mio pensiero: l’Islam non è solo una religione ma una civiltà con tutti gli estremismi del pensiero, estremismi che all’uomo risalgono e non al mondo nel quale è stato educato e vive tanto è vero che anche le efferatezze naziste fanno parte della civiltà europea. L'Islam caratterizza con questo nome tutto ciò che congloba: lo si può addirittura vedere come uno stato più che una religione nel senso che ormai diamo in occidente a quest’ultimo termine e tutto ciò di quel mondo è figlio e da quel mondo promana va chiamato "islamico".
L’Islam è una civiltà che nasce dalla religione islamica, come la civiltà occidentale deriva dalla religione cristiana. Ma la civiltà occidentale contiene in sé Voltaire come Hitler. E così l’Islam è una civiltà composita, articolata che al suo interno contiene anche un grande poeta come Abu-Nuwas che, come altri, cantava il vino, proibito dalla religione. La religione islamica è una religione di Legge, legge divina naturalmente. Alcuni Stati all’interno di questa ecumene hanno stabilito che l’unica legge in vigore sia la legge divina. Ma questo nulla ha a che vedere con gli attacchi terroristici scatenati contro l’America. Il giovane che uccise il generale Kléber durante la ritirata dei francesi in Egitto, lo fece su un preciso disegno "politico" che a lui era stato spacciato per religioso".
Confondendo gli stragisti ( sono orgoglioso di usare questa parola coniata da Montanelli su “Il corriere della sera” e ristampato su “Oggi” del 19 settembre nel nobile tentativo, riuscito solo in parte, di eliminare dalla nostra lingua “bombarolo” e “kamikaze”: bombarolo è sparito ma kamikaze è sopravvissuto) di New York e di Washington , ancorché nati nell’Islam, musulmani e ispiratisi all’Islam, con la civiltà islamica si commette un errore madornale. Basta pensare che solo un piccolo numero di abitanti dell’Africa è cannibale !
L’Occidente non cada nella trappola dello scontro fra civiltà. Samuel Huntington ha fatto un bellissimo lavoro nel disegnare le civiltà ma ha commesso l’errore di porre nel titolo del suo libro la parola clash ovvero ‘scontro’.
Sono sempre stato convinto, ed oggi più che mai, che questa parola vada sostituita con "contrapposizione", sfida, competizione, che non necessariamente devono essere armate. Il pericolo risiede ancora nell’ignoranza, perché le masse arabo-musulmane vivono per quello che gli hanno trasmesso e insegnato gli avi e oggi i media e non per quello che realmente è la nostra e al limite la loro civiltà".
Si parla tanto di aggressività della “civiltà islamica”. Certamente lo è ma nel senso che intende portare l’Islam al mondo, cioè convertirlo. Ma questa non è prerogativa dell’Islam: anche la religione cristiana, infatti, è missionaria, tende al proselitismo, cosa che non è, per fare un esempio, la religione ebraica. Ci sono peraltro religioni missionarie, come quella buddista, che non prevedono la lotta armata: i tibetani erano un popolo guerriero e crudelissimo ma che, convertito al buddismo, è diventato un popolo pacifico e pacifista.
Non possiamo praticare oggi quella che una volta, buona per lo spirito dei tempi, fu "la politica delle cannoniere" di sua Maestà Britannica. Non possiamo usare la tragedia di Manhattan per regolare i conti con l’Islam, fosse anche solo con la sua parte più radicale. È questo, ancorché capace di cambiare il modo di fare la guerra su base planetaria , il comportamento di un limitato numero di persone fondamentalmente in malafede, rispetto all’Islam – ma anche da noi: chi non ricorda il film Il Dottor Stranamore ? - e che, come molte volte nella sua storia, hanno strumentalizzato la religione per fini di potere. Questo anche e proprio all’interno dell’Islam dove la religione è stata spesso e volentieri strumentalizzata da gruppi di potere per uno scontro politico alla mors tua vita mea tra le varie fazioni. A ciò va aggiunto che oggi la cosiddetta “Guerra Santa” - tralascio le spiegazioni pseudo-filologiche – è una “bufala” che piace molto in occidente a chi ama vedere l’Islam fatto di minareti, lune, e cammelli mentre l’Islam ha imparato a gestire sofisticatissime tecnologie con una fantasia e una creatività andata al di là di ogni nostra , purtroppo statica , immaginazione.
Entrando nel particolare vi è un grosso – uso quest’aggettivo per dire che il fenomeno è più “grossolano” che “grande”’ – ostacolo che non è facile rimuovere: quello della “conoscenza reciproca” .
Di qui e di là, diciamo del Mediterraneo, si studia poco l’altro e comunque di più in Occidente l’Islam di quanto non si studi l’Occidente in Oriente.
Gli è che le Chiese cristiane si sono sempre occupate, e a loro modo a ragione, di essere missionarie e di mostrarsi felici della conversione dei musulmani . Il materiale pubblicato nei secoli è stato ed è sempre missionario. Basti pensare che questi libri nelle lingue dell’Islam, massimamente l’arabo, furono sempre stampati a Roma in dimensioni ridotte per essere occultati in dogana e che, quando nel 1922 si parlò di “repubblica” nell’ex Impero Ottomano la stampa cattolica si aspettò milioni di convertiti che, con tristezza in Vaticano, furono solo due!
Rimanendo in questo campo le difficoltà corrono all’ estremo con il cosiddetto “colloquio tra le religioni” portato avanti dal Vaticano a Roma con il Pisai, il Pontificio Istituto di Studi arabo islamici, e da molti vescovi come a Milano con il misero caso del Cadr, il Centro Ambrosiano di documentazione per le religioni . Ancora una volta si batte sul tasto “religione” - anche se la prima frase del documento illustrativo del Cadr dice “alle soglie del terzo millennio, l’incontro fra le diverse culture e tradizioni rinnova il volto delle società -- e non su quello della “civiltà”.
Tra le religioni non si può e non si deve “dialogare”. Questo è il mio pensiero. Ogni dialogo porta con se sempre una nube ove si nasconde , e anche malamente, un “tentativo di conversione” .
L’unica possibilità di dialogo è uno sforzo dei governi e delle istituzioni ad esso legate per promuovere la conoscenza reciproca senza parlare di religione. E qui vedremo .

*docente di Lingua e Letteratura araba presso l'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano

 

 

La democrazia come la dittatura?
Corrado Ocone*

Abbiamo visto, in questi giorni, tante immagini. E abbiamo letto tanti commenti e interpretazioni. I punti fermi alla fine, a mio modo di vedere, sono pochi. Ne enuclerei sostanzialmente due: l’attacco alle Torri Gemelle di Manhattan è forse il primo eclatante episodio di un nuovo tipo di guerra (new war), che io chiamerei la guerra postmoderna; l’Occidente, o ciò che approssimativamente chiamiamo tale, si è trovato sprovviste di armi concettuali e pratiche atte ad affrontare questo nuovo tipo di guerra.
L’attentato di New York è, per vari motivi, qualcosa di più di un tradizionale atto terroristico. Ma è pure, da un altro punto di vista, qualcosa di meno, o meglio qualcosa di diverso, da una guerra, o almeno dalla guerra come siamo abituati a concepirla.
Rispetto ai tradizionali atti terroristici, quello dell’11 settembre presenta caratteristiche nuove. Ha destato meraviglia il fatto che i terroristi abbiano dimostrato una profonda maestria nell’utilizzo delle più sofisticate possibilità offerte dal progresso occidentale ( possibilità tecniche, economico- finanziarie, di comunicazione mediatica). Ma è secondo me importante sottolineare anche il fatto che, almeno fino ad oggi, sia mancata, da parte dei terroristi,  una formale rivendicazione dell’attentato: che anzi i talebani abbiano detto: “all’America ben gli sta, ma non siamo stati noi”. La strategia di chi ha colpito è quella di seminare panico, di diffondere paura, di generare incertezza. Di trasmettere un messaggio ambiguità: un messaggio insieme di lontananza (“siamo diversissimi da voi”), ma anche di vicinanza (“siamo fra voi, stiamo assediando la vostra cittadella che nonostante tutta la vostra potenza non è affatto così sicura come credevate” ).
I terroristi uniscono l’estremamente arcaico di un’interpretazione quasi “rurale” della religione con l’estremamente contemporaneo del sapersi muovere con destrezza fra i nostri più raffinati e sofisticati strumenti. D’altronde il postmoderno è proprio questo: la capacità di muoversi fra vecchio e nuovissimo, fra locale e globale, fra misticismo e razionalismo astratto.
Le domande che ora sorgono sono tutte inquietanti: ammesso e non concesso che Bin Laden sia l’unico mandante dell’operazione, quanti Bin Laden potenziali o reali, quanti stati e quante organizzazioni intra e interstatali, possono presto agire con uguale impeto e forza? E il fatto stesso che l’impensabile sia accaduto non allarga per ciò stesso lo spettro delle possibilità? E come può l’America colpire un nemico che, anche se distrutto, può riemergere come un araba fenice (nomen omen) in un altro posto; che, come è stato detto, non è solo altro da noi ma anche fra noi (studia nelle nostre università, fa affari con noi, conosce meglio di noi le tecniche della comunicazione simbolica e politica)? E un eventuale attacco all’Afghanistan come può essere di esempio se in molti non temono, anzi cercano, la propria morte e la morte della gente comune? Si consideri a tal proposito un fatto: se la morte dei civili era nelle guerre antiche rara; se poi nel “secolo breve” è diventata un semplice “effetto collaterale”, detestabile ma comunque da mettere in conto; ora, nella nuova guerra, nella guerra del nuovo secolo, i civili sono di proposito l’obiettivo che si vuole colpire. E perciò, come a New York, si colpisce dove ( come nei grattacieli ) ve ne sono di più. Noto en passant: un misticismo religioso così radicale non è poi tanto lontano dal nichilismo cinico di tanti giovani occidentali, di tanti gruppi da “Arancia meccanica” che per noia o indifferenza, senza un motivo, uccidono.
Cosa fare? Come agire? Quali alleanze deve cercare chi finora ha creduto nella ragione e nel liberalismo e vuole continuare a credervi anche nella postmodernità?
Per agire, secondo me, dobbiamo iniziare a capire. Comincio con l’osservare, a tal proposito, che una volta tanto Berlusconi ha ragione (d’altronde non c’è da preoccuparsi nel dare ragione al Cavaliere: i leader politici tutto sommato contano poco e passano, mentre i valori rimangono). La civiltà occidentale è superiore alle altre: non diversa, ma superiore. Solo se anche noi di sinistra avremo il coraggio di dire ciò, di dirlo a voce alta, avremo un futuro.
Capiamoci. L’Occidente ha commesso e commette non solo tanti errori, come qualsiasi individuo o aggregato di individui, ma ha commesso e commette continuamente nefandezze e porcherie. Ma il problema è un altro. In certi casi, se si vuole comprendere a fondo qualcosa, bisogna tenere rigorosamente distinto l'ambito empirico da quello ideale. E, sul terreno ideale, l’Occidente, ripetiamolo, è superiore. Il suo principio è infatti etico: l’Occidente promuove sempre in primo luogo il dialogo, il confronto, la soluzione ragionata, persino l’onorevole compromesso. Di fronte all’altro da sé l’Occidente inteso come concetto ideale non si pone mai, all’inizio, di petto, ma sfodera subito le armi della critica e dell’argomentazione. Dal diverso trae fuori tutto quanto è accettabile e condivisibile e lo metabolizza. Trasforma l’altro e ne è trasformato. L’Occidente non è un’ipostasi, non è nulla di statico, non è un insieme fisso di valori. E’ piuttosto un insieme di valori in continua trasformazione. Ma di valori appunto si tratta. Ha ragione Panebianco ahimé (anche questa volta bisogna dar ragione a chi spesso non ci convince). Il nemico dell’Occidente è il relativismo, cioè un modo falso di intendere i suoi valori. Che sono valori forti e che vanno fortemente difesi, anche se sono i valori del pluralismo, della tolleranza, della democrazia. L’Occidente non può porsi in modo paritario verso il suo contrario né verso chi ritiene che tutto sia uguale, la democrazia come la dittatura. L’Occidente offre spazio al diverso, il suo contrario lo demonizza. Per poter continuare a dare spazio al diverso l’Occidente deve perciò combattere il suo contrario.
D’altronde, il fatto stesso che tanti antioccidentali a buon mercato siano fra gli abitanti dell’Occidente, soprattutto fra i giovani, è un segno della sua forza: l’Occidente dà così tanto spazio alla critica  da permettere che persino i superficiali e gli irriflessivi dicano la loro. Sarebbe però auspicabile che almeno le élites intellettuali abbandonino una volta tanto la facile strada del “politicamente corretto” e che comincino a ragionare senza atavici preconcetti. Nell’arte del capire, cioè nella messa in opera della sua essenza più profonda, consiste l’unico contributo che l’Occidente può dare in questo momento.
Il sapere può dare un importante contributo alla battaglia che tutti combattiamo, e va da tutti accuratamente coltivato. Ancora una volta è però essenziale che siano i chierici a dare l’esempio e a non tradire.
*Giornalista

 

 

Meno libertà per tutti
Massimo Paci,*

Ripensare a quanto è successo è già un momento di sconcerto e la prima osservazione non può che essere personale: in queste poche settimane io stesso ho subito una sorta di riposizionamento etico-pratico e vedo come misere e insignificanti alcune questioni della vita quotidiana che prima mi sembravano momenti cruciali della mia vita o grandi temi, grandi battaglie sulle quali spendersi, compresi i difficili e complessi consigli di amministrazione del grande ente che oggi presiedo, l'Inps. Ma queste incombenze quotidiane mi appaiono ben diverse, oggi, dai problemi di fondo del mondo d'oggi: è come se mi risvegliassi da una situazione d'assenza dei valori fondamentali dell'esistenza. Bisogna che noi tutti rimettiamo nel giusto e dovuto ordine le cose, anche noi scienziati, intendo.
Del resto, se il distacco dalle cose minori della vita è proprio dello scienziato, bisogna capire di quale scienziato stiamo parlando. Lo scienziato classico (il filosofo o il naturalista) osserva le cose senza lasciarsi coinvolgere (è un classico l'esempio del "naufragio con spettatore") con un atteggiamento che può portare a guardare a un terremoto come inevitabile conseguenza degli sconvolgimenti naturali (come Plinio il Vecchio davanti alla distruzione di Pompei). Poi c'è un altro tipo di scienziato, quello sociologico, che ha una visione altrettanto distaccata, ma meno coinvolta dalla politologia o dalla storia perché studia la scienza del comportamento irrazionale degli uomini, la scienza degli effetti inattesi. Il sociologo non è un osservatore neutrale, ma partecipante e lo sforzo dovrebbe essere proprio quello di riuscire a capire cosa succederà adesso e quali effetti avranno sul futuro le risposte che cerchiamo di dare. Ecco, ad esempio io credo che la guerra sia una risposta sbagliata in quanto non c'è un esercito nemico evidente da combattere, ma credo anche che le restrizioni alle nostre libertà saranno sempre maggiori. Il crollo dei consumi, persino la limitazione di certe forme di pubblicità, che è uno degli effetti di questa guerra, anche forme salutari di autocontrollo e di autoriduzione dei propri sprechi, si accompagna però ai rischi di una popolazione civile limitata e autoregolamentata nelle proprie scelte. Controlli sempre più stringenti sugli aerei, negli stadi, persino nella circolazione automobilistica, limitazione alla privacy negli Usa, l'introduzione della carta d'identità nel Regno Unito, alcune tentazioni censorie presenti persino nel nostro Paese, rischiano di essere un rimedio peggiore del male e non aiutano a fare il vuoto attorno ai terroristi ma aumentano il controllo occhiuto dello Stato sulle vite delle persone e spingono i cittadini a chiudersi a doppia mandata a casa propria. Del resto, è lo Stato stesso - nella sua concezione classica, nazionalistica, territoriale - che non è in grado di combattere un terrorismo che è ovunque, che si riproduce su scala mondiale, mentre il pericolo di un'involuzione radicale delle libertà nella società moderna si fa, anche grazie a questi tragici fatti, via via più concreto. Temo che questo attitudine al controllo dall'alto non potrà che crescere e dunque il terrorismo finisce per manifestare il suo vero volto, quello di strozzare la "globalizzazione buona", che ne esce sconfitta. Dunque, avremo più barriere e più controlli, si ridurranno la mobilità delle persone e lo scambio d'informazioni. Una catena di effetti perversi e inattesi, è la dote del terrorismo, e pericolosissima.

*sociologo e presidente dell'Inps

 

La ragione democratica
Gianfranco Pasquino*

Dove come quando abbiamo sbagliato noi occidentali, democratici, progressisti? E, adesso, possiamo rimediare, e come? Sì, credo che quello fra il mondo arabo-musulmano e l’Occidente sia effettivamente uno “scontro di civiltà”. Non è tale perché si contrappongono due religioni, l’islamismo e il cristianesimo, che entrambe contengono radicati pericolosi sanguinosi fondamentalismi. E’ tale, invece, nell’accezione più pregnante di civiltà: usanze, credenze sociali, aspettative, comunioni di storia e memoria, stili di vita.
   A fatica e mai completamente, in Occidente siamo riusciti a separare la politica dalla religione e a renderla un’attività per lo più autonoma dai dettami religiosi e da coloro che, purtuttavia, continuano a pretendere di dettare i comportamenti. Non mi risulta che l’interpretazione prevalente del Corano consenta, faciliti, accetti la separazione fra politica e religione.
   A fatica e incompiutamente, in Occidente siamo riusciti a costruire sistemi politici nei quali il potere viene affidato, temporaneamente, a chi vince le elezioni, e viene utilizzato secondo regole precise che stabiliscono, fra l’altro, che l’opposizione deve avere suoi spazi e non deve mai essere eliminata. Non mi risulta che esista un solo Stato arabo nel quale il potere è stato acquisito da governanti che hanno vinto libere elezioni e nel quale gli oppositori hanno qualche possibilità e qualche probabilità di conquistare pacificamente il potere di governare.
   A fatica e contraddittoriamente, in Occidente abbiamo esteso i diritti civili, politici e sociali a tutti i cittadini e, spesso, anche ai non-cittadini. Non mi risulta che esista eguaglianza di diritti in nessuno Stato arabo persino a prescindere (ma perché mai?) dalla deplorevole condizione delle donne in Afghanistan, in Iran, in Arabia Saudita. In Occidente critichiamo le inadeguatezze dei nostri sistemi politici e dei nostri governi e le violazioni che continuano ad avvenire, e di cui siamo acutamente consapevoli, in nome di principi e di criteri formulati in Occidente, ma che, in qualche modo, possiamo oramai considerare universali. Non è certamente un caso se, dal Pakistan di Benazir Bhutto all’Algeria, dall’Egitto alla Birmania del Premio Nobel Aung San Suu Kyi, gli oppositori facciano costante e tenace riferimento ad una concezione di democrazia, di diritti, di giustizia sociale che è nata in Occidente ed è, anche grazie a loro, diventata universale.
   Condividendo questi principi, questi diritti, queste concezioni noi europei e americani, perché non abbiamo provato ad esportarli? Abbiamo forse sbagliato nel pensare che “loro”, gli altri, gli arabi hanno tradizioni che debbono essere rispettate, che sono ugualmente valide, anche quando mutilano le loro donne, lapidano gli adulteri, tagliano mani e teste a ladri e oppositori? Abbiamo forse sbagliato a pensare che non esistano effettivamente diritti umani universali? Abbiamo forse sbagliato a disinteressarci perché, in fondo, era un problema loro, dell’arabo della strada, quello di detronizzare elites corrotte, violente, ingiuste che si appropriano di tutte o quasi le ricchezze dei loro paesi e mantengono le “loro” masse in uno stato di impoverimento brutale per meglio asservirle e manipolarle? Crediamo, in maniera etnocentrica, che quei popoli non siano capaci di costruire e praticare la democrazia?  Siamo assertori di un deprecabile e fallimentare relativismo etico e culturale?
   Per fare un buon uso collettivo della ragione, credo che dovremmo cominciare a discutere del valore universale della democrazia, dei diritti, della giustizia sociale (magari sapendo e dicendo che le società giuste sono abitualmente molto più sviluppate delle società ingiuste). Dovremmo abbandonare un malposto, malformulato, fuorviante etnocentrismo che è, in effetti, razzismo, più o meno consapevole (noi, sì, sappiamo fare funzionare una democrazia, loro, no, non sono adatti). Senza rinunciare alla punizione dei terroristi, che è un principio cardine dei sistemi giudiziari di qualsiasi democrazia, dovremmo lanciare una potente e pressante offensiva diplomatico-culturale. In assenza di una critica delle idee rimarrà soltanto la critica delle armi. Si giungerebbe ad uno scontro di fondamentalismi, che sono l’esatto contrario del ragionare discreto, argomentato, prolungato che l’Occidente ha imparato spargendo per secoli il suo sangue, il sangue dei suoi dissenzienti, dei suoi democratici.
*Politologo  

 

Il centro e la periferia dell’Impero
Pasquale Pasquino*

La mattina dell’11 settembre stavo andando al mio ufficio nella School of Law della New York University, dove insegno, quando la torre est del World Trade Center mi è scoppiata davanti agli occhi. Ci ho messo più di qualche ora a capire che la combustione del carburante dell’aereo aveva prodotto una temperatura di 2000 gradi, e che ne bastano mille per fondere le putrelle d’acciaio, che sostenevano l’impalcatura delle Twin Towers.
Quando allo stupore dinanzi al crollo si è sostituito l’orrore per i morti sono scappato a casa di un amico non per paura, ma per il bisogno insopprimibile di non essere solo e di poter parlare con qualcuno di ciò che stava accadendoci addosso.
Nei giorni che hanno seguito l’attentato terroristico a New York abbiamo diviso il tempo fra il forzarci a riprendere, al più presto ed al meglio, le nostre attività quotidiane ed il parlare di quello che, in un terso mattino d’estate, aveva stralunato le nostre vite.
La prima reazione è stata, insieme ai gesti della solidarietà, la parola. Non solo come tentativo di articolare una risposta razionale agli eventi, ma come un mezzo di sfogo delle paure, di condivisione delle angosce, di tentativi, confusi, dolenti o furiosi di anticipare lo sviluppo degli eventi.
Ieri sera, però, il paese si è fermato e si è messo all’ascolto. Il 20 di settembre, il Presidente Bush ha parlato dinanzi al Congresso per l’America; e, volenti o nolenti, questa è ormai la voce che riassume per il prossimo futuro la volontà della nazione colpita.
G.W. Bush ha parlato il linguaggio del primo impero senza più frontiere. Michael Walzer, una delle voci più limpide della cultura liberale americana, ha richiamato stamattina sulle colonne del New York Times la necessità in questo momento di definire il "campo di battaglia" di una strana guerra che non conosce frontiere. A me sembra che il carattere saliente di questo scontro sia che esso proviene al tempo stesso dal centro e dalla periferia dell’impero. Dall’interno degli Stati Uniti, perché è qui che vivevano i terroristi che hanno abbattuto il World Trade Center ed è in questo paese che hanno imparato a guidare gli aerei, usati nel loro attacco come missili da guerra contro i simboli del nostro mondo. Dalla periferia, perché non c’è più un luogo altro, come negli anni della guerra fredda e fino alla fine dell’illusione comunista, che identifichi un’alternativa possibile alla nostra concezione della civiltà, un altrove con cui l’occidente debba misurarsi, fare i conti o proteggere frontiere comuni. Nemmeno la Cina pseudocomunista rappresenta più un’alterità di questo genere, affaccendata com’è a costruire la sua versione predemocratica di una società di mercato.
Sono rimaste ai confini dell’impero solo lande desolate: le città morte dell’Afganistan, i milioni di poveri cristi oppressi dal tiranno di Bagdad, i palestinesi abbandonati a loro stessi in Cisgiordania e nella striscia di Gaza. E altri luoghi di inenarrabile miseria, dai villaggi del Magreb alle baraccopoli dei più poveri fra i paesi abbandonati da dio e dagli uomini.
Questa periferia dell’impero soffre, sempre, in silenzio come nell’Africa nera. Essa talvolta maledice e brucia le nostre bandiere; raramente produce, purtroppo per noi e per loro, una forza d’odio che va oltre la soglia della vita, nutrendo squadre di dannati che gridano di nuovo, contro di noi e contro se stessi, il vecchio ritornello di "viva la muerte".
Il nemico dell’occidente è questa palude infetta dove si confondono povertà materiale, miseria morale di ogni specie, e l’assenza feroce di ogni speranza.
L’impero colpito, e sia chiaro che io con esso io mi identifico perfettamente, ieri sera ha ruggito ed è pronto oggi a combattere ed a pagare il prezzo di una lotta lunga e difficile contro gli insetti feroci che infestano la palude e che portano altrove, fino alle nostre case, la peste della morte nostra e loro. E certo questo combattimento di emergenza è dolorosamente inevitabile. Anche se nessuno ci può promettere che sarà condotto in modo intelligente ed efficace.
Ma se la palude non sarà bonificata, se le lande non verranno un po’ alla volta ricoperte di alberi, se la nostra ricchezza non diventerà, in qualche misura, anche la loro, se gli sbatteremo in faccia le porte della speranza, ai nostri figli e ai figli dei nostri figli capiterà di dover dire: guai a noi, per colpa di quei nostri padri che hanno vinto.
* Docente alla School of Law della New York University.

 

 


Il sapere, un bimbo che deve crescere
Luigi Pedrazzi*

Di fronte al terrorismo, che dall’11 settembre sembra divenuto una potenza mondiale di tipo nuovo, e alla guerra crociata che gli Usa si propongono di condurre cercando l’appoggio di una larghissima e difficile alleanza internazionale, la vostra domanda, coraggiosamente (o ingenuamente?), chiede quale sia il valore del “sapere” .
Modestissimo, direi, almeno al fine di preparare e dirigere azioni politiche. Altri aspetti dell’interiorità umana, molto diversi qualitativamente dal sapere (la paura, il pregiudizio, le abitudini comode, l’ambizione, l’arroganza ideologica, i calcoli di interesse) prevalgono nel determinare le decisioni umane, senza  che sia utilizzato gran che del sapere esistente: quel sapere che già è in atto nella mente degli uomini più riflessivi, o sta disseminato silenzioso nelle nostre biblioteche, o oggi è potenzialmente accessibile in migliaia di siti, file, link. Per tacere dei cuori che sono sapienti per l’esperienza del dolore e della semplice bontà di voler bene al prossimo.
Sono prevalenti tra noi decisioni che utilizzano solo un minimo del sapere esistente (e quasi nulla della fraternità sperimentata): Esse prendono forza piuttosto dalle ondate delle emozioni e si incanalano in improvvisazioni sovente pericolose: avviene ad opera di singoli uomini, nell’ambito delle loro responsabilità private, e, in misura ancora più abbondante, ad opera delle persone che hanno responsabilità pubbliche, al vertice delle nostre istituzioni, sotto la pressione di tanti “sondaggi” delle opinioni: con conseguenze pesantissime, quali emergono in tempi medi e durano poi a lungo.
Anche per questo il “sapere”, tra noi, è sempre un bimbo che deve crescere, aspettando che nella storia prendano un volto più adulto gli eventi che di continuo entrano nel nostro cronotopo, talvolta con una irruenza  che lacera schemi a lungo prevalenti. Oggi, in particolare, dobbiamo riconoscerci in attesa di “aggiornamenti” indispensabili.
La potenza terroristica che ha organizzato l’attacco agli Usa teletrasmesso al mondo l’11 settembre dalla organizzazione mediatica che ci avvolge, ripeterà altri attacchi? Dove localizzati? Con quali esiti?
O dovranno passare molti mesi e anni, prima che un 11 settembre si ripeta? E , allora intanto, la guerra crociata di Bush ne prenderà il posto nei media, con tutte le sue vicende e le sue canzoni? La grande guerra americano –internazionale, già dichiarata ma per ora combattuta solo con un raffica di cento annunci, si svolgerà davvero per anni contro il terrorismo internazionale, che ha nel fondamentalismo islamico la sua internazionale, la sua cellula staminale? Salderà con i suoi dolori, e qualificherà con le sue vittorie, un diverso ordine internazionale, necessariamente più pluralistico e più equilibrato di quello di ieri e di oggi? O svelerà che gli Usa, nonostante tutto, sono un gigante d’argilla zeppo di illusioni, e  quindi un vero ordine internazionale arretrerà quasi all’anno zero?
O, restano del tutto lontani da sviluppi di tipo “pluralistico”, la celebrazione e la verifica dei rapporti di forza prodotti dalla guerra e dai suoi risultati obiettivi, confermeranno che l’attuale fase storica è tutta nel segno del primato statunitense e della prima egemonia culturale, oltre che economica e militare?
Gli interrogativi, in attesa della risposta dei fatti che saranno davvero compiuti dai protagonisti in campo, sono troppo numerosi e densi di alternative radicali per caricare il “sapere” di cui disponiamo di un valore con qualche analogia con la scienza. Non a caso, siamo del tutto privi di poteri previsionali e ordinatori, che ci mettono in grado di esprimere giudizi affidabili in dimensione storica: oggi inutilmente evocata dai media quotidiani, fastidiosamente loquacissimi.
Quanto a giudizi etici di qualche dignità, li possiamo attingere solo congiungendo le informazioni essenziali con il piccolissimo patrimonio di onestà e di equità di cui eventualmente riusciamo a disporre nei confronti dei popoli e continenti.
Con buona pace dell’ottimismo di Bacone, il sapere e l’informazione, di per sé, non ci consegnano nessuna “potenza”: anzi, ciò che veramente si sa già , se lo guardiamo in volto, ci consegna piuttosto ad una grande debolezza pratica, sostenibile con l’abito dell’umiltà piuttosto che con la divisa del coraggio e delle sfide gridate.
 È vero: quanto è avvertito l’11 settembre va condannato come inaccettabile e irripetibile.Va posto fuorilegge, come è già fuori mercato. Ma la ricerca, l’arresto e la punizione dei colpevoli di quel crimine esige un ordinamento giuridico, o almeno una capacità di accordi, mediazioni, progettazioni e operazioni, che lo stesso Bush, pur gettato e proiettato ad agire da un dolore nazionale enorme, ha indicato non percorribili in tempi brevi: ma allora, con quali energie morale con quali poteri istituzionali ne potremo sostenere una praticabilità necessariamente lunga? E la sua dinamica, a quali modelli giuridici darà luogo nel suo svolgimento? Tra sei mesi, o dodici, o diciotto, saremo più forti nell’alleanza che gli Usa propongono all’Occidente di allestire e gestire nel mondo?
È possibile, anche se tutt’altro che sicuro. In questo caso, fortunato o assolutamente il più augurabile, sarà cresciuta la sola egemonia della forza americana o, augurabilmente e solo sorprendentemente, avremo anche visto svilupparsi un profondo riequilibrio internazionale? In questo ultimo e migliore caso, cose nuove dovrebbero consolidarsi, di grande interesse, tra Usa e Russia, tra Nato e Ue; in Medio Oriente, tra arabi ed ebrei; nel mondo e all’Onu, tra ricchi e poveri; con le religioni che assumono in comune un ruolo grande di pace, in tutte crescendo la distanza dall’errore integralista e dall’eresia fondamentalista. Sarebbe di fatto, una sorta di rifondazione dell’Onu, per aver finalmente una istituzione adeguata ai bisogni crescenti di legalità e parità del genere umano.
Ma se,  invece Dio non lo permetta, le cose dovessero profilarsi drammatiche e pesantissime, per tutti, per la guerra santa di Bin Laden e per la  crociata di Bush: se, dopo tante parole sovrabbondanti, le iniziative concrete non ottenessero risultati significativi; se a lungo rimanessimo con Bin Laden non catturato, e la resistenza dei Talebani sufficientemente forte per destabilizzare paesi islamici entrati avventurosamente  nell’alleanza promossa dagli Stati Uniti: con Israele e Palestina in fiamme più di quanto non siano già ora; con morti innocenti orribilmente più numerosi in Asia di quelli già contati con dolore e umiliazione nelle torri di Manahattan e negli uffici di Washington: che cosa potremmo dire di “sapere”?

*Saggista, editorialista

 

La parola ai lettori