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La guerra sprecata

David Bidussa


Questo articolo è apparso sul quotidiano il Secolo XIX il 4 giugno 2007

Quaranta anni fa, la mattina del 5 giugno 1967, scoppiava la guerra dei “sei giorni”, un conflitto che ancora non ha trovato una soluzione. La vittoria bruciante sul piano militare non ha prodotto una soluzione definitiva, a differenza di ciò che tutti pensarono allora. La guerra dei sei giorni, al di là di essere un classico da studiare sulla tattica militare, dunque è stata una vittoria di Pirro? L’Economist di questa settimana risponde di sì, anzi più precisamente la chiama “una vittoria sprecata”. Saver Plocker, su Yedihot Ahronot, il quotidiano più venduto in Israele gli risponde di no (una versione italiana è consultabile alla pagina www.israele.net). Che senza quella guerra non avremmo avuto la soluzione Onu 242 approvata il 22 novembre 1967), inapplicata ma che sanziona il minimo in maniera definitiva: l’impossibilità di dichiarare l’inesistenza dello Stato di Israele; che il Pil è cresciuto da allora del 163% che da 2,1 milioni di abitanti si è passati a 7,1 milioni. Sono tutti dati veri, materialmente incontrovertibili. Sono sufficienti?

Quarant’anni dopo la guerra dei sei giorni la carta geografica del Medio Oriente non ha trovato ancora un aspetto definitivo. Lo stesso si può dire della geografia umana.
Questo conflitto ormai è chiaro non riguarda solo una questione di confine, comunque se un tempo era circoscrivibile al tema dello spazio politicamente contrattabile, riguarda come si risolve una lunga inimicizia, e una storia che non è solo quella delle guerre locali, ma anche dell’immaginario che questi quaranta anni hanno prodotto. Per certi aspetti la sfida “Territori in cambio di pace” appartiene a un tavolo di trattative che si è dissolto, o che temporaneamente è stato sospinto sullo sfondo.

“La vittoria sprecata” è dunque una guerra vinta sul campo di battaglia, ma bloccata sul piano degli esiti e completamente modificata dalla mutazione strutturale del sistema di relazioni internazionali. Infatti una guerra nata nel clima della guerra fredda, in cui il confronto era sulle posizioni e sulle linee di faglia dello scontro, solo surrettiziamente diventata nell’immaginario collettivo, quella del conflitto antimperialista, e ora divenuta invece l’espressione di un nuovo conflitto.

E’ un conflitto che a lungo abbiamo guardato come l’opposizione tra occidente e “terzo mondo” tra un pezzo di occidente che lì si era trapiantato, magari espulso da qui, e un pezzo di medio oriente che subiva questa nuova presenza.
Era una spiegazione molto semplicistica già all’inizio perché si basava sulla idea che tutta la popolazione palestinese fosse locale e tutta quella ebraica fosse un innesto occidentale, trapiantato con un atto di forza.
Questa spiegazione è falsa. Per due motivi: 1) Perchè una parte consistente della popolazione israeliana è anche il risultato dell’espulsione dai paesi arabi; 2) perché dopo quattro generazioni tutti i protagonisti di questa storia hanno un loro radicamento in un territorio.

Perciò non si tratta di rivendicare primogeniture, ma di garantire, stabilizzare e far procedere convivenze e di costruire una cultura politica non essenzialistica sul piano della geografia storica. In questo senso la questione israelo-palestinese non è un banco di prova sulle politiche per la pace, è anche un indicatore di quanto oggi la politica democratica sia in grado di pensare le culture ibride, un’idea non naturalista della geografia e della politica e una lettura post-moderna delle identità.

Quaranta anni dopo la “guerra dei sei giorni” chiunque punti a una situazione strabile ha l’obbligo di accompagnare e favorire un atto di giustizia, - quello che i palestinesi abbiano un proprio Stato ed il riconoscimento non solo formale del diritto all’esistenza dello Stato di Israele – ma anche di riaprire un ragionamento su che cosa significhi oggi esprimere una società politica, in un mondo globale. E forse di ricondurre su un territorio di razionalità un conflitto che sembra averla smarrita.

Il problema non è solo che uno Stato palestinese nasca, che quello di Israele abbia frontiere sicure e riconosciute. Perché questo scenario sia possibile non è più sufficiente convincere i due contendenti a sedersi a un tavolo o dimostrare che quella scelta è conveniente. Quella scelta è solo conseguente al rifiuto del conflitto di civiltà. Per questo il problema è la formazione di una nuova classe dirigente. Anzi della nascita di una nuova classe politica.
La soluzione di quel conflitto non è prossima. Dobbiamo saperlo. Quella attuale è una condizione che durerà a lungo. Anche per questo, e non solo per chi allora vinse militarmente, quella è una guerra che nel tempo lungo si è rivelata sprecata.

 

 

 

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