Questo
articolo è apparso sul quotidiano il
Secolo XIX il 4 giugno 2007
Quaranta anni fa, la mattina del 5 giugno 1967, scoppiava
la guerra dei “sei giorni”, un conflitto
che ancora non ha trovato una soluzione. La vittoria
bruciante sul piano militare non ha prodotto una soluzione
definitiva, a differenza di ciò che tutti pensarono
allora. La guerra dei sei giorni, al di là di
essere un classico da studiare sulla tattica militare,
dunque è stata una vittoria di Pirro? L’Economist
di questa settimana risponde di sì, anzi più
precisamente la chiama “una vittoria sprecata”.
Saver Plocker, su Yedihot Ahronot, il quotidiano più
venduto in Israele gli risponde di no (una versione
italiana è consultabile alla pagina www.israele.net).
Che senza quella guerra non avremmo avuto la soluzione
Onu 242 approvata il 22 novembre 1967), inapplicata
ma che sanziona il minimo in maniera definitiva: l’impossibilità
di dichiarare l’inesistenza dello Stato di Israele;
che il Pil è cresciuto da allora del 163% che
da 2,1 milioni di abitanti si è passati a 7,1
milioni. Sono tutti dati veri, materialmente incontrovertibili.
Sono sufficienti?
Quarant’anni dopo la guerra dei sei giorni la
carta geografica del Medio Oriente non ha trovato ancora
un aspetto definitivo. Lo stesso si può dire
della geografia umana.
Questo conflitto ormai è chiaro non riguarda
solo una questione di confine, comunque se un tempo
era circoscrivibile al tema dello spazio politicamente
contrattabile, riguarda come si risolve una lunga inimicizia,
e una storia che non è solo quella delle guerre
locali, ma anche dell’immaginario che questi quaranta
anni hanno prodotto. Per certi aspetti la sfida “Territori
in cambio di pace” appartiene a un tavolo di trattative
che si è dissolto, o che temporaneamente è
stato sospinto sullo sfondo.
“La vittoria sprecata” è dunque
una guerra vinta sul campo di battaglia, ma bloccata
sul piano degli esiti e completamente modificata dalla
mutazione strutturale del sistema di relazioni internazionali.
Infatti una guerra nata nel clima della guerra fredda,
in cui il confronto era sulle posizioni e sulle linee
di faglia dello scontro, solo surrettiziamente diventata
nell’immaginario collettivo, quella del conflitto
antimperialista, e ora divenuta invece l’espressione
di un nuovo conflitto.
E’ un conflitto che a lungo abbiamo guardato
come l’opposizione tra occidente e “terzo
mondo” tra un pezzo di occidente che lì
si era trapiantato, magari espulso da qui, e un pezzo
di medio oriente che subiva questa nuova presenza.
Era una spiegazione molto semplicistica già all’inizio
perché si basava sulla idea che tutta la popolazione
palestinese fosse locale e tutta quella ebraica fosse
un innesto occidentale, trapiantato con un atto di forza.
Questa spiegazione è falsa. Per due motivi: 1)
Perchè una parte consistente della popolazione
israeliana è anche il risultato dell’espulsione
dai paesi arabi; 2) perché dopo quattro generazioni
tutti i protagonisti di questa storia hanno un loro
radicamento in un territorio.
Perciò non si tratta di rivendicare primogeniture,
ma di garantire, stabilizzare e far procedere convivenze
e di costruire una cultura politica non essenzialistica
sul piano della geografia storica. In questo senso la
questione israelo-palestinese non è un banco
di prova sulle politiche per la pace, è anche
un indicatore di quanto oggi la politica democratica
sia in grado di pensare le culture ibride, un’idea
non naturalista della geografia e della politica e una
lettura post-moderna delle identità.
Quaranta anni dopo la “guerra dei sei giorni”
chiunque punti a una situazione strabile ha l’obbligo
di accompagnare e favorire un atto di giustizia, - quello
che i palestinesi abbiano un proprio Stato ed il riconoscimento
non solo formale del diritto all’esistenza dello
Stato di Israele – ma anche di riaprire un ragionamento
su che cosa significhi oggi esprimere una società
politica, in un mondo globale. E forse di ricondurre
su un territorio di razionalità un conflitto
che sembra averla smarrita.
Il problema non è solo che uno Stato palestinese
nasca, che quello di Israele abbia frontiere sicure
e riconosciute. Perché questo scenario sia possibile
non è più sufficiente convincere i due
contendenti a sedersi a un tavolo o dimostrare che quella
scelta è conveniente. Quella scelta è
solo conseguente al rifiuto del conflitto di civiltà.
Per questo il problema è la formazione di una
nuova classe dirigente. Anzi della nascita di una nuova
classe politica.
La soluzione di quel conflitto non è prossima.
Dobbiamo saperlo. Quella attuale è una condizione
che durerà a lungo. Anche per questo, e non solo
per chi allora vinse militarmente, quella è una
guerra che nel tempo lungo si è rivelata sprecata.
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