Si sapeva
da un pezzo che la questione europea (il Pse di cui
fanno parte i Ds, il Pde di cui fa parte la Margherita,
con Rutelli copresidente insieme a Bayrou) non era un
ostacolo alla nascita del Partito democratico. Le soluzioni
organizzative possibili e congrue, che non violentano
storia e identità di alcuno, sono molte e si
troveranno. Ma era chiaro – ed era anche stato
detto nei dialoghi che abbiamo tenuto anche su queste
pagine con Rutelli, Amato,
Fassino– che i non possumus che inalberavano
insegne europee, quasi che fossero la prova di un’eterna
incompatibilità, erano il paravento di resistenze
politiche.
Quello europeo era un alibi, sia pure ricco di giustificazioni
psicologiche e di ragionamenti non proprio campati per
aria. Ma sempre un alibi. E c’è da rammaricarsi
che sulla scacchiera dei preliminari sia stato utilizzato
così a lungo anche da chi alla fine si è
deciso a dare il via al Partito democratico. Ha fatto
bene D’Alema a introdurre una nota “autocritica”.
Se ci sono dubbi, questi riguardano il ritardo non la
fretta con cui si è proceduto in questi anni.
Troppo si è tergiversato dunque sulla questione
europea. E ancora adesso si rischia di creare qualche
equivoco. Prodi, Rutelli e Marini non dovranno diventare
socialisti così come Fassino e compagni non dovranno
chiedere la tessera a Bayrou. Quella che si costruirà
è un’alleanza.
Il Partito socialista sul piano europeo non riesce
a raggiungere la maggioranza, mentre il gruppo liberal-progressista
rappresenta una novità interessante e di peso
crescente, un potenziale alleato capace di spingere
verso un rinnovamento degli schieramenti europei. Le
stesse elezioni presidenziali francesi, nelle quali
corrono al primo turno due candidati – Royal e
Bayrou – che dividono, in proiezione italiana,
Ds e Margherita, potrebbero offrire al secondo turno
una prova di quel genere di alleanze tra riformisti
socialisti, liberali, laici e cattolici di cui molto
si parla per il futuro prossimo Pd italiano.
Le resistenze che hanno messo in questi anni il vestito
della “obiezione europea” erano in realtà
resistenze di un’identità protettiva –
e peraltro del tutto legittima – da parte di settori
della sinistra che hanno voluto impiegare le proprie
“radici socialiste” per difendersi nel vecchio
guscio più che per innovare. È probabile
che questa resistenza trovi corrispondenza in una quota
del corpo elettorale e che fornisca una certa rendita
per qualche tempo. Ma tanto più è da apprezzare
il coraggio di chi ha deciso, come Fassino e Rutelli,
contro le opposizioni rispettive.
L’operazione non è senza rischi nel centrosinistra
italiano e in un sistema politico che tradizionalmente
premia i conservatori. È da notare che le molte
scissioni accumulate negli anni passati hanno continuato
a fornire seggi in Parlamento e sopravvivenza a gruppi,
che dal punto di vista del bipolarismo, non avrebbero
ragione d’essere. Si tratta di persistenze del
proporzionalismo. Il che ci deve ricordare che il futuro
del Partito democratico dipenderà anche dal sistema
elettorale con cui si voterà alle prossime elezioni
politiche.
La natura difensiva delle trincee socialiste è
oltremodo evidente sia nella posizione dello Sdi che
nelle posizioni della frazione che seguirà Fabio
Mussi: la strada vecchia è più sicura,
quella nuova più rischiosa.
Questa considerazione è fondata e mi fa apprezzare
il coraggio di chi affronta l’impresa più
promettente e ambiziosa. Senza nulla togliere alla qualità
umana di chi rimane sul vecchio tracciato, è
indispensabile ricordare che gli scommettitori sul vecchio
hanno registrato in passato trionfi spropositati. Non
è vero che innovare coi leader ripaghi sempre
l’investimento. Niente affatto. Basti ricordare
che hanno ancora un ruolo di rilievo nella sinistra
italiana personalità come Armando Cossutta, che
hanno coerentemente investito le loro energie nel resistere
alle innovazioni e agli “strappi” da Mosca
di Berlinguer e più tardi contro lo scioglimento
del Pci, mentre Achille Occhetto, che fece lo strappo
più violento e decisivo, con lo scioglimento
del Pci, è quasi uscito di scena. Dimenticato
da Fassino nel giorno della relazione, è stato
ringraziato il giorno dopo da Veltroni.
Nella storia della sinistra italiana chi si è
abbarbicato all’identità e alle radici
è spesso riuscito ad avere la meglio, sempre
imponendo rinvii all’ala riformista. E le radici
sono sempre state impugnate dalle correnti più
radicali, fin dai tempi di Ingrao. Il risultato è
un ritardo che si trascina nei decenni.
Ma la novità dei congressi dei Ds e della Margherita
è che entrambi i gruppi dirigenti, nel linguaggio,
nella scelta dei temi, delle immagini, degli slogan,
hanno finalmente deciso di puntare sul futuro, sull’“alfabeto
del nuovo secolo”, sulla necessità di dialogare
e di “condividere” più che di dividere
per distinguersi. E questo vale sia per la futura collocazione
europea sia per i temi dell’etica, della famiglia,
del rapporto tra “laici credenti e laici non credenti”,
per usare la formula di Rutelli.
Ora la prova si sposta di fatto sul terreno della natura
e delle regole della costituente del Pd, che andrà
a congresso nella primavera dell’anno prossimo,
sulla scelta della leadership attraverso un voto individuale
e segreto. E non possiamo non registrare con soddisfazione
che Fassino abbia accolto l’idea, propugnata da
questa rivista sull’esempio dell’esperimento
condotto ad Atene dal Pasok e da Andreas Papandreu,
di impiego della “democrazia deliberativa”,
e cioè dei sondaggi “informati” per
la scelta dei candidati del futuro Partito democratico.
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