308 - 26.10.06


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Il nostro Partito Democratico:
un milione di iscritti in una
casa liberalsocialista

Giuliano Amato e Piero Fassino
in dialogo con "Reset"


Reset: Sembra più vicina la realizzazione del Partito Democratico e dunque si fa anche più esplicito il confronto sul modo: sui fini, sull’ispirazione culturale, sul rapporto con la società, sui gruppi dirigenti e si presentano diversi spartiacque: chi lo vuole più riformista e capace di una sterzata liberale, dinamica, anticorporativa su una Italia ingessata, su una economia in declino e chi lo vuole più mediatore, cauto, “di sinistra”; c’è poi chi vuole andare speditamente a sciogliere i vecchi blocchi e apparati politici nella nuova formazione (Salvatore Vassallo: una testa un voto) e chi vuole un cammino più federativo. Molti vedono coincidere le due innovazioni, quella del partito con la capacità di innovare le politiche. Ma che cosa garantisce questa coincidenza?

Amato: Innovazione nelle politiche e cambiamento della forma partito possono coincidere se c’è un gruppo dirigente forte e ben motivato. Sono sicuro della necessità di dar vita a un processo di formazione del futuro Partito Democratico che riesca a essere coinvolgente, in primo luogo per quello che chiamiamo il popolo delle primarie. Sarebbe impensabile se lo si concepisse come un semplice processo federativo in cui si mettono insieme organismi di partito. Sarebbe visto come una mera aggregazione di pezzi inadeguati. Tuttavia, non è l’immissione della cosiddetta società civile che fa trovare di per sé la strada attraverso la quale la stessa società può essere governata. Questo lo fa una cultura politica di cui sia portatrice la classe dirigente di un partito. Questo dobbiamo saperlo, dobbiamo esserne consapevoli. Una classe dirigente, che finalmente, grazie alla formazione di un nuovo partito, ha la grande occasione di dimostrare che non assolve solo alla funzione di provvista di personale pubblico nelle istituzioni in cui la nomina consegue non a concorso ma alla vittoria politica, bensì sa anche esprimere un progetto, una visione, capace di essere condivisa dai tanti e frammentati segmenti sociali che rappresenta.

Fassino: Ci sono due domande strettamente connesse tra loro. La prima: perché facciamo il Partito Democratico? La seconda: come e con chi lo facciamo? Il seminario di Orvieto, che per la prima volta ha raccolto un ampio gruppo dirigente di mille esponenti politici e di società per discutere su ragioni e obiettivi del nuovo soggetto politico, ha il merito di aver messo insieme le prime risposte a queste due domande, trovando una piattaforma che, adesso, ci consente di aprire un largo confronto coinvolgendo la politica e la società.

Reset: Perché, dunque, si deve fare il Partito Democratico?

Fassino: La risposta è relativamente semplice: lo facciamo perché avvertiamo che i cambiamenti intervenuti nell’ultimo quindicennio sul piano economico, sociale, culturale, demografico e politico, hanno modificato tutte le variabili intorno a cui, per quasi un secolo, si sono costruite l’identità e le esperienze dei nostri partiti e del riformismo italiano.
Pensiamo, ad esempio, come la storia e la cultura della sinistra abbiano nel lavoro un valore fondativo. E pensiamo a come la flessibilità abbia soppiantato l’organizzazione del lavoro fordista, su cui nel ‘900 si sono plasmate l’identità e le esperienze delle grandi organizzazioni di massa della sinistra.
Pensiamo a come nel secolo scorso le forze riformiste di questo paese siano cresciute e abbiano realizzato le loro conquiste nell’involucro dello Stato nazionale, al riparo del protezionismo che era la normale modalità di gestione dell’economia e di relazioni tra gli Stati. Oggi, invece, siamo nell’epoca dei mercati aperti, della globalizzazione, dell’interdipendenza, che ogni giorno spiazzano la funzione regolativa dello Stato, le modalità redistributive e perfino le forme della democrazia.
Pensiamo a come all’inizio di questo nuovo millennio, la parola che più entra nel nostro lessico quotidiano sia “sostenibilità”, sollecitandoci a fare i conti con uno sviluppo che non può guardare soltanto più alla crescita quantitativa, ma anche e sempre di più alla qualità, all’alimentazione, all’ambiente, all’energia, alla rinnovabilità delle risorse del pianeta.
Insomma facciamo il Partito Democratico perché abbiamo bisogno di un nuovo pensiero per nuove sfide in un nuovo secolo che ci pone nuove domande.

Reset: Ma che cosa garantisce che un partito nuovo in cui confluiscono i vecchi sappia produrre quelle risposte nuove che i vecchi non hanno saputo dare da separati?

Fassino: C’è chi sostiene che non c’è bisogno di unirsi ad altre forze per trovare nuove risposte. Perché – si chiede – i Ds non potrebbero da soli rappresentare un nuovo riformismo? come da sola potrebbe farlo la Margherita o le altre singole forze. Perché farlo insieme? Per una ragione intanto. Nel novecento i nostri riformismi erano divisi perché avevano letture diverse della società e proposte alternative alle sue domande. Non solo, ma quella divisione era poi enfatizzata e resa più rigida dalla divisione del mondo e dell’Europa in due.
Oggi non è più così. Il muro di Berlino è caduto e ha liberato riformismi che si sono uniti nell’Ulivo, che ha dimostrato di essere il luogo dell’incontro e della contaminazione tra riformismi che a lungo sono stati distinti e separati. In quella contaminazione abbiamo costruito una comune lettura dell’Italia e un’elaborazione comune su molti temi, tanto che oggi ci divide più la storia da cui veniamo che non la visione che abbiamo dell’Italia e del suo futuro. I Congressi dei partiti dovranno rispondere a questa domanda: esistono le condizioni perché il riformismo italiano, plurale nelle culture e a lungo diviso, possa oggi avere rappresentanza politica unitaria? La nostra risposta a questa domanda si chiama Partito Democratico.

Amato: Il processo di aggregazione è un processo che è di per sé modificatore e innovativo in qualche modo della stessa cultura. Si tenga conto che quanto più i partiti sono frammentati tanto più strutturalmente tendono a rappresentare una parte minore della società. Questa è la ragione per la quale il negoziato è così complesso. Quanto più i partiti si aggregano, tanto più scatta un meccanismo ancora una volta strutturale di composizione. Qui caso mai occorre che la ricerca di una tale composizione non avvenga con gli occhi rivolti al passato. Si parla di un dilemma fra posizioni più liberali presenti nella Margherita e posizioni più cautamente stataliste e corporative che prevarrebbero nella nostra famiglia socialista. Ad oggi il dilemma ha un fondamento di verità, ma davanti alla realtà in cui stiamo entrando, una realtà nella quale lo statalismo risulterà sempre più impraticabile chiunque lo voglia, esso perderà necessariamente di peso. E prevarrà, per amore o per forza, la cultura liberal-socialista come collante naturale di un moderno partito progressista.

Reset: Una delle questioni emerse a Orvieto è il meccanismo, la procedura concreta di costituzione di questa nuova formazione politica unitaria.

Fassino: Vero, si tratta di capire come vogliamo realizzare il Partito Democratico e con chi, superando quel falso dilemma che è la presunta contrapposizione tra partiti e società. L’Ulivo è nato ed è cresciuto perché lo hanno voluto i partiti. E il Partito Democratico nascerà perché i partiti hanno deciso di misurarsi con un progetto così ambizioso. E aggiungo che se l’intesa tra Ds e Margherita è indispensabile, serve anche coinvolgere chi esprime sensibilità riformiste, socialiste, repubblicane e socialdemocratiche. Al tempo stesso ci capita sempre di più di constatare come i partiti incontrino crescente difficoltà a interpretare la società e come spesso in essi prevalga una logica autoreferenziale. Il nodo della questione non è nel contrapporre i partiti alla società, ma nel cercare di capire come costruire un partito moderno, che coniughi un forte radicamento e una grande apertura alla società.

Reset: Le proposte di Salvatore Vassallo, sintetizzate dalla formula “una testa un voto”, sono il giusto punto di partenza?

Fassino: Ho trovato stimolante la relazione di Vassallo. Vi ho notato una serie di proposte simili a quelle che avanzai io stesso nel 1990 per il nascente Pds: le primarie per scegliere i candidati, il ricorso periodico a referendum con cui consultare i cittadini, il voto segreto quale criterio permanente di elezione dei dirigenti, i mandati a termine degli incarichi. Arrivai anche a proporre l’anno sabbatico per coloro che facevano politica a tempo pieno.

Amato: Io non vedo difficoltà ad applicare il principio una testa un voto ai fini della scelta dei delegati. Il problema delicato è: chi presenta le candidature per la scelta dei delegati alla Costituente del nuovo partito. Qui i partiti hanno un ruolo naturale. E tuttavia ben si può definire un quorum, non infimo, degli stessi cittadini dotati di elettorato attivo ai fini della sottoscrizione di candidature. Mi sembra poi importante che la struttura interna del nuovo partito sia democratica e per questo si possono prendere diverse delle proposte di Vassallo in modo da evitare che vi sia da un lato una delega permanente ai dirigenti e dall’altro la mancanza di una verifica effettiva delle loro decisioni: se non c’è un meccanismo democratico di gestione del partito c’è demotivazione a partecipare. I partiti possono attrarre e diventare più grandi di quanto non siano oggi se c’è una effettiva partecipazione. Questi aspetti di democrazia interna li si può imparare, prima ancora che dalla indiscriminata società civile, da diversi partiti dell’Europa centro-settentrionale, che la praticano con efficacia. Io ho assistito a congressi nei quali i delegati modificavano con il loro voto decisioni degli organi direttivi anche in tema di candidature. A condizioni del genere, non sono solo i tradizionali “quadri” ad aver voglia di partecipare.

Reset: Eppure, in molti a sinistra hanno criticato l'impostazione “una testa un voto”.

Fassino: Vedete, quello che non convince di quella relazione non sono le proposte di apertura alla società, ma l’idea che per realizzarle non sia necessario un partito organizzato e strutturato. Io penso esattamente il contrario: per realizzare davvero una politica aperta ai cittadini c’è bisogno di un partito forte e radicato. Io voglio un Partito Democratico che abbia almeno un milione di aderenti, visto che oggi ne guido uno di 600.000 e non vedo perché devo lavorare a formare un soggetto più piccolo; voglio un partito presente in tutti gli ottomila comuni della penisola, perché solo così sarà un soggetto di riferimento per l’intera società; voglio un partito strutturato, forte, con un’attività politica permanente e non solo una somma di comitati elettorali. E, al tempo stesso, voglio un partito in grado di fare le primarie quando deve scegliere i suoi candidati, di chiamare i cittadini a pronunciarsi su singole scelte di grande rilievo (per esempio: dobbiamo mandare i soldati in Libano?), capace di usare le tecnologie informatiche della comunicazione, di utilizzare le innovazioni della democrazia, come quelle sperimentate dal socialista Papandreou in Grecia per individuare i candidati alle recenti elezioni amministrative.
Insomma: non credo alla contrapposizione tra i partiti e la società civile, perché serve un partito radicato, diffuso, organizzato, che abbia l’intelligenza, la forza, la saggezza e la capacità di essere aperto e innovativo, attivando un circuito positivo di partecipazione democratica, di ricambio delle classi dirigenti, di osmosi con la società.

Reset: In pratica, qual è la strada da seguire per arrivare là dove tutti volete arrivare?

Fassino: Il Partito Democratico nasce per volontà dei partiti, ma non si esaurisce nella loro somma. E di questa doppia matrice – i partiti e l’elettorato – si dovrà tenere conto nella transizione che condurrà alla realizzazione definitiva del Partito Democratico. A Orvieto, ho suggerito di riferirci alle modalità con cui si è costruita l’integrazione europea, che procede secondo il doppio binario della comunitarizzazione e dell’intergovernatività. L’obiettivo è un Partito Democratico, in cui siano gli iscritti a decidere e a scegliere – sulla base del principio “una testa, un voto” – con le regole della democrazia. Ma per arrivarci, nella transizione, sono necessarie intese e accordi tra i partiti e le associazioni che daranno vita al Partito Democratico. Insomma partiti e società civile devono comporre le loro volontà, coinvolgere i cittadini e costruire una koinè, un linguaggio, una cultura, una proposta comune. La costruzione di un partito è processo complesso e bisogna esserne consapevoli. Non per rallentare. Al contrario se si vuole procedere con tempestività e determinazione, lo si può fare se non si banalizza il processo.

Reset: Le primarie per la scelta del candidato premier sono state un primo importante passo per l'aggregazione di un popolo del Partito Democratico.

Fassino: Certo e sono stato tra i più convinti sostenitori delle primarie del 16 ottobre. Anche perché il primo esempio di primarie italiane risale al 1985 quando nella federazione torinese del Pci, che guidavo, 37.000 iscritti furono chiamati a scegliere gli 80 candidati al Consiglio Comunale. Io sono favorevole a generalizzare quegli strumenti di partecipazione. Si potrebbe stabilire per statuto che i candidati nelle elezioni siano scelti con le primarie, che questioni di grande rilevanza siano decise ricorrendo a consultazioni referendarie degli iscritti e degli elettori, che le leadership siano scelte con voto segreto. In questo modo avremmo già creato innovazioni partecipative molto importanti.

Reset: In Italia, però, non pesa tanto l’esigenza di un’alternativa tra politica e società civile, quanto invece la percezione che i partiti siano incapaci di fare riforme, di fare un passo indietro, di arretrare dall’economia, dalla Rai, di ridurre i costi della politica. Siamo sicuri che ci sia abbastanza slancio innovativo? E come mai le organizzazioni giovanili non sono in prima linea nella costruzione del Partito Democratico?

Fassino: Tra gli obiettivi del Partito Democratico c’è una politica che torni alla sua missione di soggetto politico, capace di prospettare progettualità politica, visione ideale, dimensione culturale. E rispettando l’autonomia di imprese, enti pubblici, soggetti istituzionali.
Quanto al coinvolgimento dei giovani, è vero che le organizzazioni giovanili tendono spesso a riprodurre le strutture di partito. Anche se spesso si sottostima l’azione che le organizzazioni giovanili hanno, in primo luogo nelle scuole. Quello che in ogni caso mi colpisce è che i giovani che ci seguono sono tantissimi. Ho capito che avremmo vinto le elezioni guardando le piazze: anno dopo anno, ho visto crescere la partecipazione dei giovani alle manifestazioni, un indice che ci indicava il mutamento del sentimento politico e della temperatura.
La costruzione del Partito Democratico è l’occasione per offrire a questi giovani la possibilità di essere protagonisti di un’Italia che offra loro opportunità e speranze.

Reset: Cerchiamo di chiarire il cambiamento che dovrebbe avvenire con il Partito Democratico usando lo schema di Ulrich Beck delle quattro sinistre: la neoliberale, la protezionista, la sinistra-cittadella e quella cosmopolitica

Amato: Il vero punto di unità di questo partito dal quale a cascata possono emergere una serie di conseguenze non è tanto – come già ho detto – quello della contrapposizione tra liberali e ingessati, ma sta proprio nella distinzione fatta da Beck tra “sinistra cittadella” e “sinistra cosmopolita”. Questo è il vero dilemma. Da questo punto di vista la presenza di una forte componente di matrice socialista nel futuro Partito Democratico, è portatrice in realtà non di ingessatura statalista, ma di una storica propensione a collocare il problema nazionale in un quadro più ampio ed è una propensione attualissima nel mondo di oggi. E che quindi guarda al problema italiano come parte di un problema europeo, come parte di un problema mondiale. D’altra parte, le caratteristiche d’insieme della stessa Margherita, il valore in essa del valore “solidarietà” portano a loro volta verso il cosmopolitismo. Allora come ho sostenuto a Orvieto, se si ha una profonda convinzione “cosmopolita”, lo statalismo te lo scordi proprio. Più che altro perché non ha senso comune, perché non ottieni nulla: che cosa statalizzi quando l’economia fugge dallo Stato e ha gambe vitali che la portano al di fuori.

Fassino: La sociologia e la letteratura hanno la capacità di innovare parole che descrivono fenomeni persistenti nel tempo. In realtà da quando Marx ha scritto il Manifesto del Partito Comunista, due anime hanno sempre percorso l’intera storia della sinistra: una tensione all’innovazione ha sempre convissuto con una tendenza più rigida e più preoccupata di difendersi. Le quattro sinistre di cui parla Beck sono in realtà una duplice coppia: sinistra radicale e cosmopolita; o sinistra cittadella e protezionista.

Reset: La sinistra cittadella e quella cosmopolita sarebbero dunque sempre esistite?

Fassino: Sì. Sono convissute e convivono nelle organizzazioni e anche nei singoli individui. Ciascuno di noi è attratto dall’innovazione; al tempo stesso ciascuno di noi vuole per la propria vita quotidiana un sistema di sicurezze e garanzie. In momenti in cui si avverte un eccesso di protezione, emerge una tensione innovativa. Quando questa poi cresce di intensità fino a rischiare di compromettere diritti fondamentali, torna a riaffermarsi il bisogno di tutele. La risposta non sta nello scegliere alternativamente tra innovazione e tutele sociali, ma nel costruire un sistema sufficientemente equilibrato da non privilegiare un aspetto a discapito dell’altro.
La storia della sinistra ha sempre vissuto al suo interno questo bisogno di conciliare con equilibrio esigenze di innovazione e di tutele. È una storia che procede seguendo la dinamica delle maree che salgono e crescono per poi ritirarsi, e lo stesso movimento operaio ha vissuto fasi in cui è prevalsa una logica innovativa che ha ridotto la capacità protettiva, e fasi in cui una forte logica di protezione si è imposta a scapito del cambiamento.
Questa alternanza, però, non si risolve mai in astratto, dipende dal contesto sociale, come possiamo notare guardando al sistema politico italiano degli ultimi anni. Prendiamo, ad esempio, le politiche del lavoro: cinque o sei anni fa, nel periodo iniziato con l’opera di Treu e terminato con Biagi, è prevalsa una spinta fortemente innovativa in direzione della flessibilizzazione del mercato del lavoro. Poi in anni più recenti il tema della lotta alla precarietà è divenuto il leitmotiv di tutte le forze politiche, perché si è dovuto prendere atto che la flessibilità è esposta al rischio della precarietà e quindi avvertiamo oggi l’esigenza di introdurre un sistema di ammortizzatori che, senza negare la flessibilità necessaria alle imprese, garantisca condizioni più sicure di lavoro.

Reset: È una cultura plurale che tuttavia non riesce, o non è ancora riuscita, a mettersi d'accordo a sinistra. Ci sarà una cultura politica condivisa nel Partito Democratico?

Fassino: Il riformismo non è semplice superamento di vecchie formule, e non è nemmeno moderatismo, come spesso si dice. Il riformismo è l’ambizione di obiettivi alti, perseguiti con la gradualità dei mezzi.
E in questi anni di Ulivo abbiamo già cominciato a costruire una cultura riformista comune nuova, figlia dell’incontro e della reciproca contaminazione tra le diverse culture riformiste che nel corso del 900 si sono spesso aspramente combattute.
Necessità di una governance globale per dare una guida alla mondializzazione; assunzione di responsabilità di ogni paese per affermare pace, diritti e libertà; impresa e mercato come fattori essenziali per produrre la ricchezza e realizzare redistribuzione; un welfare che offra universalità non solo di prestazioni, ma anche di opportunità; una democrazia dei cittadini che eviti una deriva plebiscitaria e populista delle istituzioni.
In tutto questo già oggi l’Ulivo espone una progettualità comune e condivisa.
E anche sui temi etici non è impossibile costruire sintesi, se si adotta un criterio di vera laicità, che consiste non nel negoziare principi – che in sé non sono negoziabili – ma nel costruire soluzioni condivise.

Amato: Non è che dopo che avremo realizzato il Partito Democratico dobbiamo andare tutti a fare un corso di una nuova cultura politica per imparare qual è la cultura. Non stanno così le cose, se il processo funziona fa scattare integrandoli una serie di ingredienti culturali che noi abbiamo già, ma che condizionati dal contesto passato e tuttora presente non producono l’impatto che invece potrebbero produrre.

Reset: Eppure, sembra che esistano ancora alcune divergenze politiche profonde tra coloro che dovrebbero partecipare all’avventura.

Amato: C’è un terreno sul quale io continuo a vedere una difficoltà, quello del tradizionale confronto in Italia fra credenti e non credenti, laicismo, ruolo delle religioni e sfera pubblica. Ecco, qui bisogna fare dei passi avanti non facili e non ce la caviamo dicendo: “il Partito Democratico è un partito unito nel quale c’è però una libertà di coscienza per tutti”. Quello che aspira ad essere uno dei maggiori partiti italiani deve essere in grado di offrire, come ha detto Roberto Gualtieri a Orvieto, non delle giustapposizioni, ma delle composizioni; composizioni che fra l’altro su questo terreno sono possibili, come dimostra il lavoro proficuo di alcuni di noi, ma che ancora devono fare strada per rimuovere vecchie e radicate diffidenze da entrambe le parti.

Fassino: Noi dobbiamo essere in grado di guidare e gestire l'alternanza di maree, ma non possiamo immaginare che si fermino. La più straordinaria intuizione Marx – aldilà di altre che sono invece cadute perché il tempo le ha logorate o le ha estinte – è che “il movimento fa la storia”, cioè sono l’innovazione, il dinamismo, la mobilità sociale, il cambiamento a produrre dinamiche di emancipazione, crescita, rotture in avanti. Nonostante ciò, la sinistra non si è mai liberata da una contraddizione: quando si manifesta un cambiamento la prima reazione istintiva è mettere le mani avanti per proteggersi, perché ovviamente ciò che non si conosce fa paura e non si sa come affrontarlo.
E, invece, io credo che una sinistra moderna è una “sinistra che non ha paura”. Una sinistra che di fronte alla flessibilità del lavoro non dica semplicemente no, ma si batta per quelle tutele che evitino alla flessibilità di trasformarsi in precarietà. Una sinistra che non abbia paura della globalizzazione, ma si proponga di guidarla secondo criteri di giustizia e di redistribuzione. Una sinistra che non abbia paura delle tecnologie e della scienza, ma le guidi a rendere sicura la vita e la natura. Una sinistra che non abbia paura di ciò che cambia in una società e si proponga, anzi, di guidare il cambiamento. Ecco a questo serve il Partito Democratico.


 


 


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