Reset:
Sembra più vicina la realizzazione del Partito
Democratico e dunque si fa anche più esplicito
il confronto sul modo: sui fini, sull’ispirazione
culturale, sul rapporto con la società, sui gruppi
dirigenti e si presentano diversi spartiacque: chi lo
vuole più riformista e capace di una sterzata
liberale, dinamica, anticorporativa su una Italia ingessata,
su una economia in declino e chi lo vuole più
mediatore, cauto, “di sinistra”; c’è
poi chi vuole andare speditamente a sciogliere i vecchi
blocchi e apparati politici nella nuova formazione (Salvatore
Vassallo: una testa un voto) e chi vuole un cammino
più federativo. Molti vedono coincidere le due
innovazioni, quella del partito con la capacità
di innovare le politiche. Ma che cosa garantisce questa
coincidenza?
Amato: Innovazione nelle politiche
e cambiamento della forma partito possono coincidere
se c’è un gruppo dirigente forte e ben
motivato. Sono sicuro della necessità di dar
vita a un processo di formazione del futuro Partito
Democratico che riesca a essere coinvolgente, in primo
luogo per quello che chiamiamo il popolo delle primarie.
Sarebbe impensabile se lo si concepisse come un semplice
processo federativo in cui si mettono insieme organismi
di partito. Sarebbe visto come una mera aggregazione
di pezzi inadeguati. Tuttavia, non è l’immissione
della cosiddetta società civile che fa trovare
di per sé la strada attraverso la quale la stessa
società può essere governata. Questo lo
fa una cultura politica di cui sia portatrice la classe
dirigente di un partito. Questo dobbiamo saperlo, dobbiamo
esserne consapevoli. Una classe dirigente, che finalmente,
grazie alla formazione di un nuovo partito, ha la grande
occasione di dimostrare che non assolve solo alla funzione
di provvista di personale pubblico nelle istituzioni
in cui la nomina consegue non a concorso ma alla vittoria
politica, bensì sa anche esprimere un progetto,
una visione, capace di essere condivisa dai tanti e
frammentati segmenti sociali che rappresenta.
Fassino: Ci sono due domande strettamente
connesse tra loro. La prima: perché facciamo
il Partito Democratico? La seconda: come e con chi lo
facciamo? Il seminario di Orvieto, che per la prima
volta ha raccolto un ampio gruppo dirigente di mille
esponenti politici e di società per discutere
su ragioni e obiettivi del nuovo soggetto politico,
ha il merito di aver messo insieme le prime risposte
a queste due domande, trovando una piattaforma che,
adesso, ci consente di aprire un largo confronto coinvolgendo
la politica e la società.
Reset: Perché, dunque, si deve fare
il Partito Democratico?
Fassino: La risposta è relativamente
semplice: lo facciamo perché avvertiamo che i
cambiamenti intervenuti nell’ultimo quindicennio
sul piano economico, sociale, culturale, demografico
e politico, hanno modificato tutte le variabili intorno
a cui, per quasi un secolo, si sono costruite l’identità
e le esperienze dei nostri partiti e del riformismo
italiano.
Pensiamo, ad esempio, come la storia e la cultura della
sinistra abbiano nel lavoro un valore fondativo. E pensiamo
a come la flessibilità abbia soppiantato l’organizzazione
del lavoro fordista, su cui nel ‘900 si sono plasmate
l’identità e le esperienze delle grandi
organizzazioni di massa della sinistra.
Pensiamo a come nel secolo scorso le forze riformiste
di questo paese siano cresciute e abbiano realizzato
le loro conquiste nell’involucro dello Stato nazionale,
al riparo del protezionismo che era la normale modalità
di gestione dell’economia e di relazioni tra gli
Stati. Oggi, invece, siamo nell’epoca dei mercati
aperti, della globalizzazione, dell’interdipendenza,
che ogni giorno spiazzano la funzione regolativa dello
Stato, le modalità redistributive e perfino le
forme della democrazia.
Pensiamo a come all’inizio di questo nuovo millennio,
la parola che più entra nel nostro lessico quotidiano
sia “sostenibilità”, sollecitandoci
a fare i conti con uno sviluppo che non può guardare
soltanto più alla crescita quantitativa, ma anche
e sempre di più alla qualità, all’alimentazione,
all’ambiente, all’energia, alla rinnovabilità
delle risorse del pianeta.
Insomma facciamo il Partito Democratico perché
abbiamo bisogno di un nuovo pensiero per nuove sfide
in un nuovo secolo che ci pone nuove domande.
Reset: Ma che cosa garantisce che un partito
nuovo in cui confluiscono i vecchi sappia produrre quelle
risposte nuove che i vecchi non hanno saputo dare da
separati?
Fassino: C’è chi sostiene
che non c’è bisogno di unirsi ad altre
forze per trovare nuove risposte. Perché –
si chiede – i Ds non potrebbero da soli rappresentare
un nuovo riformismo? come da sola potrebbe farlo la
Margherita o le altre singole forze. Perché farlo
insieme? Per una ragione intanto. Nel novecento i nostri
riformismi erano divisi perché avevano letture
diverse della società e proposte alternative
alle sue domande. Non solo, ma quella divisione era
poi enfatizzata e resa più rigida dalla divisione
del mondo e dell’Europa in due.
Oggi non è più così. Il muro di
Berlino è caduto e ha liberato riformismi che
si sono uniti nell’Ulivo, che ha dimostrato di
essere il luogo dell’incontro e della contaminazione
tra riformismi che a lungo sono stati distinti e separati.
In quella contaminazione abbiamo costruito una comune
lettura dell’Italia e un’elaborazione comune
su molti temi, tanto che oggi ci divide più la
storia da cui veniamo che non la visione che abbiamo
dell’Italia e del suo futuro. I Congressi dei
partiti dovranno rispondere a questa domanda: esistono
le condizioni perché il riformismo italiano,
plurale nelle culture e a lungo diviso, possa oggi avere
rappresentanza politica unitaria? La nostra risposta
a questa domanda si chiama Partito Democratico.
Amato: Il processo di aggregazione
è un processo che è di per sé modificatore
e innovativo in qualche modo della stessa cultura. Si
tenga conto che quanto più i partiti sono frammentati
tanto più strutturalmente tendono a rappresentare
una parte minore della società. Questa è
la ragione per la quale il negoziato è così
complesso. Quanto più i partiti si aggregano,
tanto più scatta un meccanismo ancora una volta
strutturale di composizione. Qui caso mai occorre che
la ricerca di una tale composizione non avvenga con
gli occhi rivolti al passato. Si parla di un dilemma
fra posizioni più liberali presenti nella Margherita
e posizioni più cautamente stataliste e corporative
che prevarrebbero nella nostra famiglia socialista.
Ad oggi il dilemma ha un fondamento di verità,
ma davanti alla realtà in cui stiamo entrando,
una realtà nella quale lo statalismo risulterà
sempre più impraticabile chiunque lo voglia,
esso perderà necessariamente di peso. E prevarrà,
per amore o per forza, la cultura liberal-socialista
come collante naturale di un moderno partito progressista.
Reset: Una delle questioni emerse a Orvieto
è il meccanismo, la procedura concreta di costituzione
di questa nuova formazione politica unitaria.
Fassino: Vero, si tratta di capire
come vogliamo realizzare il Partito Democratico e con
chi, superando quel falso dilemma che è la presunta
contrapposizione tra partiti e società. L’Ulivo
è nato ed è cresciuto perché lo
hanno voluto i partiti. E il Partito Democratico nascerà
perché i partiti hanno deciso di misurarsi con
un progetto così ambizioso. E aggiungo che se
l’intesa tra Ds e Margherita è indispensabile,
serve anche coinvolgere chi esprime sensibilità
riformiste, socialiste, repubblicane e socialdemocratiche.
Al tempo stesso ci capita sempre di più di constatare
come i partiti incontrino crescente difficoltà
a interpretare la società e come spesso in essi
prevalga una logica autoreferenziale. Il nodo della
questione non è nel contrapporre i partiti alla
società, ma nel cercare di capire come costruire
un partito moderno, che coniughi un forte radicamento
e una grande apertura alla società.
Reset: Le proposte di Salvatore Vassallo, sintetizzate
dalla formula “una testa un voto”, sono
il giusto punto di partenza?
Fassino: Ho trovato stimolante la
relazione di Vassallo. Vi ho notato una serie di proposte
simili a quelle che avanzai io stesso nel 1990 per il
nascente Pds: le primarie per scegliere i candidati,
il ricorso periodico a referendum con cui consultare
i cittadini, il voto segreto quale criterio permanente
di elezione dei dirigenti, i mandati a termine degli
incarichi. Arrivai anche a proporre l’anno sabbatico
per coloro che facevano politica a tempo pieno.
Amato: Io non vedo difficoltà
ad applicare il principio una testa un voto ai fini
della scelta dei delegati. Il problema delicato è:
chi presenta le candidature per la scelta dei delegati
alla Costituente del nuovo partito. Qui i partiti hanno
un ruolo naturale. E tuttavia ben si può definire
un quorum, non infimo, degli stessi cittadini dotati
di elettorato attivo ai fini della sottoscrizione di
candidature. Mi sembra poi importante che la struttura
interna del nuovo partito sia democratica e per questo
si possono prendere diverse delle proposte di Vassallo
in modo da evitare che vi sia da un lato una delega
permanente ai dirigenti e dall’altro la mancanza
di una verifica effettiva delle loro decisioni: se non
c’è un meccanismo democratico di gestione
del partito c’è demotivazione a partecipare.
I partiti possono attrarre e diventare più grandi
di quanto non siano oggi se c’è una effettiva
partecipazione. Questi aspetti di democrazia interna
li si può imparare, prima ancora che dalla indiscriminata
società civile, da diversi partiti dell’Europa
centro-settentrionale, che la praticano con efficacia.
Io ho assistito a congressi nei quali i delegati modificavano
con il loro voto decisioni degli organi direttivi anche
in tema di candidature. A condizioni del genere, non
sono solo i tradizionali “quadri” ad aver
voglia di partecipare.
Reset: Eppure, in molti a sinistra hanno criticato
l'impostazione “una testa un voto”.
Fassino: Vedete, quello che non convince
di quella relazione non sono le proposte di apertura
alla società, ma l’idea che per realizzarle
non sia necessario un partito organizzato e strutturato.
Io penso esattamente il contrario: per realizzare davvero
una politica aperta ai cittadini c’è bisogno
di un partito forte e radicato. Io voglio un Partito
Democratico che abbia almeno un milione di aderenti,
visto che oggi ne guido uno di 600.000 e non vedo perché
devo lavorare a formare un soggetto più piccolo;
voglio un partito presente in tutti gli ottomila comuni
della penisola, perché solo così sarà
un soggetto di riferimento per l’intera società;
voglio un partito strutturato, forte, con un’attività
politica permanente e non solo una somma di comitati
elettorali. E, al tempo stesso, voglio un partito in
grado di fare le primarie quando deve scegliere i suoi
candidati, di chiamare i cittadini a pronunciarsi su
singole scelte di grande rilievo (per esempio: dobbiamo
mandare i soldati in Libano?), capace di usare le tecnologie
informatiche della comunicazione, di utilizzare le innovazioni
della democrazia, come quelle sperimentate dal socialista
Papandreou in Grecia per individuare i candidati alle
recenti elezioni amministrative.
Insomma: non credo alla contrapposizione tra i partiti
e la società civile, perché serve un partito
radicato, diffuso, organizzato, che abbia l’intelligenza,
la forza, la saggezza e la capacità di essere
aperto e innovativo, attivando un circuito positivo
di partecipazione democratica, di ricambio delle classi
dirigenti, di osmosi con la società.
Reset: In pratica, qual è la strada
da seguire per arrivare là dove tutti volete
arrivare?
Fassino: Il Partito Democratico nasce
per volontà dei partiti, ma non si esaurisce
nella loro somma. E di questa doppia matrice –
i partiti e l’elettorato – si dovrà
tenere conto nella transizione che condurrà alla
realizzazione definitiva del Partito Democratico. A
Orvieto, ho suggerito di riferirci alle modalità
con cui si è costruita l’integrazione europea,
che procede secondo il doppio binario della comunitarizzazione
e dell’intergovernatività. L’obiettivo
è un Partito Democratico, in cui siano gli iscritti
a decidere e a scegliere – sulla base del principio
“una testa, un voto” – con le regole
della democrazia. Ma per arrivarci, nella transizione,
sono necessarie intese e accordi tra i partiti e le
associazioni che daranno vita al Partito Democratico.
Insomma partiti e società civile devono comporre
le loro volontà, coinvolgere i cittadini e costruire
una koinè, un linguaggio, una cultura, una proposta
comune. La costruzione di un partito è processo
complesso e bisogna esserne consapevoli. Non per rallentare.
Al contrario se si vuole procedere con tempestività
e determinazione, lo si può fare se non si banalizza
il processo.
Reset: Le primarie per la scelta del candidato
premier sono state un primo importante passo per l'aggregazione
di un popolo del Partito Democratico.
Fassino: Certo e sono stato tra i
più convinti sostenitori delle primarie del 16
ottobre. Anche perché il primo esempio di primarie
italiane risale al 1985 quando nella federazione torinese
del Pci, che guidavo, 37.000 iscritti furono chiamati
a scegliere gli 80 candidati al Consiglio Comunale.
Io sono favorevole a generalizzare quegli strumenti
di partecipazione. Si potrebbe stabilire per statuto
che i candidati nelle elezioni siano scelti con le primarie,
che questioni di grande rilevanza siano decise ricorrendo
a consultazioni referendarie degli iscritti e degli
elettori, che le leadership siano scelte con voto segreto.
In questo modo avremmo già creato innovazioni
partecipative molto importanti.
Reset: In Italia, però, non pesa tanto
l’esigenza di un’alternativa tra politica
e società civile, quanto invece la percezione
che i partiti siano incapaci di fare riforme, di fare
un passo indietro, di arretrare dall’economia,
dalla Rai, di ridurre i costi della politica. Siamo
sicuri che ci sia abbastanza slancio innovativo? E come
mai le organizzazioni giovanili non sono in prima linea
nella costruzione del Partito Democratico?
Fassino: Tra gli obiettivi del Partito
Democratico c’è una politica che torni
alla sua missione di soggetto politico, capace di prospettare
progettualità politica, visione ideale, dimensione
culturale. E rispettando l’autonomia di imprese,
enti pubblici, soggetti istituzionali.
Quanto al coinvolgimento dei giovani, è vero
che le organizzazioni giovanili tendono spesso a riprodurre
le strutture di partito. Anche se spesso si sottostima
l’azione che le organizzazioni giovanili hanno,
in primo luogo nelle scuole. Quello che in ogni caso
mi colpisce è che i giovani che ci seguono sono
tantissimi. Ho capito che avremmo vinto le elezioni
guardando le piazze: anno dopo anno, ho visto crescere
la partecipazione dei giovani alle manifestazioni, un
indice che ci indicava il mutamento del sentimento politico
e della temperatura.
La costruzione del Partito Democratico è l’occasione
per offrire a questi giovani la possibilità di
essere protagonisti di un’Italia che offra loro
opportunità e speranze.
Reset: Cerchiamo di chiarire il cambiamento
che dovrebbe avvenire con il Partito Democratico usando
lo schema di Ulrich Beck delle quattro sinistre: la
neoliberale, la protezionista, la sinistra-cittadella
e quella cosmopolitica
Amato: Il vero punto di unità
di questo partito dal quale a cascata possono emergere
una serie di conseguenze non è tanto –
come già ho detto – quello della contrapposizione
tra liberali e ingessati, ma sta proprio nella distinzione
fatta da Beck tra “sinistra cittadella”
e “sinistra cosmopolita”. Questo è
il vero dilemma. Da questo punto di vista la presenza
di una forte componente di matrice socialista nel futuro
Partito Democratico, è portatrice in realtà
non di ingessatura statalista, ma di una storica propensione
a collocare il problema nazionale in un quadro più
ampio ed è una propensione attualissima nel mondo
di oggi. E che quindi guarda al problema italiano come
parte di un problema europeo, come parte di un problema
mondiale. D’altra parte, le caratteristiche d’insieme
della stessa Margherita, il valore in essa del valore
“solidarietà” portano a loro volta
verso il cosmopolitismo. Allora come ho sostenuto a
Orvieto, se si ha una profonda convinzione “cosmopolita”,
lo statalismo te lo scordi proprio. Più che altro
perché non ha senso comune, perché non
ottieni nulla: che cosa statalizzi quando l’economia
fugge dallo Stato e ha gambe vitali che la portano al
di fuori.
Fassino: La sociologia e la letteratura
hanno la capacità di innovare parole che descrivono
fenomeni persistenti nel tempo. In realtà da
quando Marx ha scritto il Manifesto del Partito
Comunista, due anime hanno sempre percorso l’intera
storia della sinistra: una tensione all’innovazione
ha sempre convissuto con una tendenza più rigida
e più preoccupata di difendersi. Le quattro sinistre
di cui parla Beck sono in realtà una duplice
coppia: sinistra radicale e cosmopolita; o sinistra
cittadella e protezionista.
Reset: La sinistra cittadella e quella cosmopolita
sarebbero dunque sempre esistite?
Fassino: Sì. Sono convissute
e convivono nelle organizzazioni e anche nei singoli
individui. Ciascuno di noi è attratto dall’innovazione;
al tempo stesso ciascuno di noi vuole per la propria
vita quotidiana un sistema di sicurezze e garanzie.
In momenti in cui si avverte un eccesso di protezione,
emerge una tensione innovativa. Quando questa poi cresce
di intensità fino a rischiare di compromettere
diritti fondamentali, torna a riaffermarsi il bisogno
di tutele. La risposta non sta nello scegliere alternativamente
tra innovazione e tutele sociali, ma nel costruire un
sistema sufficientemente equilibrato da non privilegiare
un aspetto a discapito dell’altro.
La storia della sinistra ha sempre vissuto al suo interno
questo bisogno di conciliare con equilibrio esigenze
di innovazione e di tutele. È una storia che
procede seguendo la dinamica delle maree che salgono
e crescono per poi ritirarsi, e lo stesso movimento
operaio ha vissuto fasi in cui è prevalsa una
logica innovativa che ha ridotto la capacità
protettiva, e fasi in cui una forte logica di protezione
si è imposta a scapito del cambiamento.
Questa alternanza, però, non si risolve mai in
astratto, dipende dal contesto sociale, come possiamo
notare guardando al sistema politico italiano degli
ultimi anni. Prendiamo, ad esempio, le politiche del
lavoro: cinque o sei anni fa, nel periodo iniziato con
l’opera di Treu e terminato con Biagi, è
prevalsa una spinta fortemente innovativa in direzione
della flessibilizzazione del mercato del lavoro. Poi
in anni più recenti il tema della lotta alla
precarietà è divenuto il leitmotiv
di tutte le forze politiche, perché si è
dovuto prendere atto che la flessibilità è
esposta al rischio della precarietà e quindi
avvertiamo oggi l’esigenza di introdurre un sistema
di ammortizzatori che, senza negare la flessibilità
necessaria alle imprese, garantisca condizioni più
sicure di lavoro.
Reset: È una cultura plurale che tuttavia
non riesce, o non è ancora riuscita, a mettersi
d'accordo a sinistra. Ci sarà una cultura politica
condivisa nel Partito Democratico?
Fassino: Il riformismo non è
semplice superamento di vecchie formule, e non è
nemmeno moderatismo, come spesso si dice. Il riformismo
è l’ambizione di obiettivi alti, perseguiti
con la gradualità dei mezzi.
E in questi anni di Ulivo abbiamo già cominciato
a costruire una cultura riformista comune nuova, figlia
dell’incontro e della reciproca contaminazione
tra le diverse culture riformiste che nel corso del
900 si sono spesso aspramente combattute.
Necessità di una governance globale per dare
una guida alla mondializzazione; assunzione di responsabilità
di ogni paese per affermare pace, diritti e libertà;
impresa e mercato come fattori essenziali per produrre
la ricchezza e realizzare redistribuzione; un welfare
che offra universalità non solo di prestazioni,
ma anche di opportunità; una democrazia dei cittadini
che eviti una deriva plebiscitaria e populista delle
istituzioni.
In tutto questo già oggi l’Ulivo espone
una progettualità comune e condivisa.
E anche sui temi etici non è impossibile costruire
sintesi, se si adotta un criterio di vera laicità,
che consiste non nel negoziare principi – che
in sé non sono negoziabili – ma nel costruire
soluzioni condivise.
Amato: Non è che dopo che avremo
realizzato il Partito Democratico dobbiamo andare tutti
a fare un corso di una nuova cultura politica per imparare
qual è la cultura. Non stanno così le
cose, se il processo funziona fa scattare integrandoli
una serie di ingredienti culturali che noi abbiamo già,
ma che condizionati dal contesto passato e tuttora presente
non producono l’impatto che invece potrebbero
produrre.
Reset: Eppure, sembra che esistano ancora alcune
divergenze politiche profonde tra coloro che dovrebbero
partecipare all’avventura.
Amato: C’è un terreno
sul quale io continuo a vedere una difficoltà,
quello del tradizionale confronto in Italia fra credenti
e non credenti, laicismo, ruolo delle religioni e sfera
pubblica. Ecco, qui bisogna fare dei passi avanti non
facili e non ce la caviamo dicendo: “il Partito
Democratico è un partito unito nel quale c’è
però una libertà di coscienza per tutti”.
Quello che aspira ad essere uno dei maggiori partiti
italiani deve essere in grado di offrire, come ha detto
Roberto Gualtieri a Orvieto, non delle giustapposizioni,
ma delle composizioni; composizioni che fra l’altro
su questo terreno sono possibili, come dimostra il lavoro
proficuo di alcuni di noi, ma che ancora devono fare
strada per rimuovere vecchie e radicate diffidenze da
entrambe le parti.
Fassino: Noi dobbiamo essere in grado
di guidare e gestire l'alternanza di maree, ma non possiamo
immaginare che si fermino. La più straordinaria
intuizione Marx – aldilà di altre che sono
invece cadute perché il tempo le ha logorate
o le ha estinte – è che “il movimento
fa la storia”, cioè sono l’innovazione,
il dinamismo, la mobilità sociale, il cambiamento
a produrre dinamiche di emancipazione, crescita, rotture
in avanti. Nonostante ciò, la sinistra non si
è mai liberata da una contraddizione: quando
si manifesta un cambiamento la prima reazione istintiva
è mettere le mani avanti per proteggersi, perché
ovviamente ciò che non si conosce fa paura e
non si sa come affrontarlo.
E, invece, io credo che una sinistra moderna è
una “sinistra che non ha paura”. Una sinistra
che di fronte alla flessibilità del lavoro non
dica semplicemente no, ma si batta per quelle tutele
che evitino alla flessibilità di trasformarsi
in precarietà. Una sinistra che non abbia paura
della globalizzazione, ma si proponga di guidarla secondo
criteri di giustizia e di redistribuzione. Una sinistra
che non abbia paura delle tecnologie e della scienza,
ma le guidi a rendere sicura la vita e la natura. Una
sinistra che non abbia paura di ciò che cambia
in una società e si proponga, anzi, di guidare
il cambiamento. Ecco a questo serve il Partito Democratico.
Vi e' piaciuto questo articolo? Avete dei commenti
da fare? Scriveteci il vostro punto di vista a
redazione@caffeeuropa.it
|