Da un
dossier pubblicato su Reset
numero 95, maggio giugno 2006, pubblichiamo questo forum
sul tema del negazionismo. Allora la discussione prendeva
spunto dal caso delle vignette danesi e da una provocazione
lanciata dall’intellettuale egiziano Sayed
Yassin sul reato di negazionismopunito con il carcere
in alcuni paesi europei.
Reset: Abbiamo sullo sfondo un argomento
molto difficile da trattare: la visione dell’Olocausto
nel mondo arabo, un tema storico da analizzare tuttavia
all’interno dello scenario dei conflitti attuali.
Non è un tema che riguardi solo alcuni studiosi
o portatori di posizioni estremiste o radicali, che
hanno l’espressione più forsennata nel
presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad. Queste posizioni
estremiste cercano di agganciare una visione più
comune e diffusa in forme più moderate nel mondo
musulmano. Il tema è quello posto da una domanda
dell’intellettuale egiziano Sayed Yassin, che
critica la sensibilità per il tema della libertà
di espressione del mondo occidentale a proposito delle
vignette anti-islamiche di Copenaghen. E invece trova
contraddittoria con questa sensibilità la legislazione
che ha mandato in carcere lo storico David Irving.
Colombo: Non conosco un solo nome
di prestigio, di credibilità e di livello nel
mondo intellettuale liberale – liberal e democratico
– che abbia sostenuto il diritto e il privilegio
di quella stampa danese a pubblicare tali vignette.
Quindi il discorso dei due pesi e delle due misure,
del fatto che si proibisce agli islamici di dire cose
che invece gli occidentali possono dire, cade già
all’inizio. Vorrei poi ricordare che il giornale
danese che le ha pubblicate è già noto
per aver pubblicato ripetutamente parecchie vignette
antisemite. Si tratta di un giornale di destra e, probabilmente,
di una destra che nell’Italia berlusconiana andrebbe
subito al governo, ma che in Europa non ci va, neanche
quando un governo è di destra. Stiamo quindi
parlando di un brutto fenomeno che ha provocato brutte
conseguenze, ma che non rappresenta la cultura, l’abitudine,
la prassi, l’accettazione, la soglia di tolleranza
di quello che noi chiamiamo Occidente e, comunque, delle
democrazie dei paesi industriali.
Reset: Tuttavia queste posizioni sono
circolate. Prendiamo Adriano Sofri, per esempio. E sono
state comunque percepite nel mondo arabo come molto
diffuse da noi.
Colombo: Di Sofri ho visto che a differenza
del suo modo di operare tradizionale, per cui è
pensoso e ri-pensoso, non è mai più tornato
sul primo guizzo di posizione. Mai più. Devo
dunque dedurre che si tratti di un giudizio azzardato
e sospeso. Per il resto, ripeto, non conosco episodio
rispettabile in questo senso. Credo che le cose più
stroncanti le abbia dette Umberto Eco, con la sua conoscenza
della Danimarca in cui ha anche insegnato. Certo, siamo
pieni di junk press, che è arrivata nel mondo
islamico ed è stata raccolta dalle frange estreme
che l’hanno prontamente utilizzata. Si tratta
di dialoghi tra fascisti, dialoghi tra estreme destre
di una parte e dell’altra. Questo è quello
che è avvenuto. Il giornale delle famose vignette
anti-islamiche era di tipo parafascista. Quindi questo
giornale si è comportato perfettamente in linea
con le sue posizioni. Come accadrebbe anche da noi se
esistesse una cultura della Lega: la Lega avrebbe un
giornale un po’ più rispettabile e internazionale
de “La Padania”, su cui comparirebbero vignette
di quel genere. Ma noi certo non le difenderemmo.
Reset: Cosa significa associare Stato
di Israele e Shoah?
Colombo: L’aggancio immediato e automatico della
Shoah all’esistenza dello Stato d’Israele
è un evento molto recente. Nient’affatto
all’origine. Ero nella guerra dei Sei giorni ed
ero presente in ciascun fronte. Tanto da sapere che
si è trattato di una guerra di attacco. E non
di una guerra preventiva di Israele, come ci dicono
tutte le propagande accettate anche dalle sinistre in
Europa e particolarmente in Italia. Ho visto nelle scuole
egiziane, siriane e giordane che ho potuto visitare,
grandi lavagne con disegni ed illustrazioni che mostravano
il progetto di buttare gli ebrei in mare. Quindi non
si sta parlando di Shoah, ma di quello che viene interpretato
come una guerra di liberazione. E in quel momento gli
israeliani rivendicano il loro diritto di esistere in
nome della consacrazione che hanno ricevuto dalle Nazioni
Unite, ma anche dalla tradizione sionista.
Vorrei poi ricordare la resistenza cattolica al riconoscimento
d’Israele. È stata una resistenza durata
decenni, nella quale si è continuamente affermato
che Israele non avrebbe garantito l’indipendenza
degli insediamenti cattolici o degli insediamenti cristiani.
Sono gli anni nei quali si teorizza l’esistenza
delle Nazioni Unite come governo ebraico mondiale. Sono
gli anni delle milizie armate cristiane che fanno capo
a due grandi organizzazioni semiclandestine americane:
Order e Christian Identity alle quali la giustizia americana
fa risalire l’esplosione di Oklahoma City e i
168 morti nel palazzo federale di Oklahoma. A questo
fenomeno l’Europa ha risposto con un risorgere
dei fascismi, di cui siamo testimoni noi stessi in Italia,
anche se finte asfaltature d’improvvisata politica
estera hanno fatto apparentemente sparire certe tracce.
Reset: Parlare di questa destra fascista
e antisemita europea e americana potrebbe essere utile
per ristabilire delle proporzioni nella visione che
gli arabi hanno del mondo occidentale?
Colombo: Credo che sia importante
ricordarla. In particolare bisogna dire che quella europea
è rimasta ai margini. E soltanto Berlusconi si
affrettava a portarla al centro con un’operazione
che per fortuna non gli è riuscita. Ma da storico
sarebbe quasi da rimpiangere, perché non si è
potuto vedere tutto l’orrore e tutto l’errore
che avrebbe potuto portare, approfittando anche di una
stampa compiacente, sempre piegata. Dove sarebbe andata
a finire la possibilità d’espressione una
volta arrivati al governo questi personaggi? Resta comunque
il fatto che, con voti non indifferenti, Le Pen ha sostenuto
in Francia la stessa irrilevanza della Shoah. Il giornale
danese delle vignette anti-islamiche, poi, è
un giornale di costante attacco al sionismo e di costante
svilimento della Shoah.
Reset: Cosa ne pensa De Luna?
De Luna: Sono tre i punti su cui vorrei
fare delle osservazioni. Innanzitutto trovo del tutto
incongruo il confronto tra la libertà che s’invoca
per le vignette e i provvedimenti contro il negazionismo.
Perché sono due fenomeni inconfrontabili: le
vignette appartengono decisamente a una dimensione di
storia del costume, mentre invece il negazionismo e
la Shoah appartengono alla nostra storia e alla riflessione
sui fondamenti della nostra civiltà occidentale.
Quella contraddizione che viene colta è una contraddizione
i cui termini non sono confrontabili. Devo dire che
sulle vignette io ho un atteggiamento che non mette
in campo le mie categorie di analisi, che non mi sollecita
a mettere in campo i miei percorsi disciplinari, quello
che riguarda il mio abito di storico. Mi ci confronto
sulla base del mio gusto personale e della mia sensibilità.
Ogni volta che una vignetta di Forattini sfiorava l’antisemitismo
sulla “Stampa” io avevo un sussulto di sdegno
e però lo metabolizzavo all’interno di
un percorso individuale, di un percorso che apparteneva
a me come cittadino e alla mia sensibilità. Ma
per quanto riguarda noi, per quanto riguarda la nostra
storia, la nostra identità non possiamo avvicinarci
a quelle vignette con lo stesso atteggiamento di grande
circospezione e di grande tensione intellettuale che
abbiamo invece nei confronti dell’altro nodo,
perché il nodo del negazionismo è quello
che ci mette in campo noi, noi occidentali, direttamente,
perché lì si gioca una partita più
nostra che non è dei paesi arabi, dell’Iran,
ma è una questione nostra.
Reset: Ci può spiegare il senso
di questa differenza tra vignette e condanna per legge
del negazionismo?
De Luna: La Shoah nasce qui, nasce
nel cuore dell’Europa industrializzata, nel cuore
di una società capitalistica sviluppata, nel
cuore di una cultura come quella europea e occidentale
e ha tutte le sue ragioni, tutta la sua esplicitazione
sul piano della sua realizzazione storica qui, in Europa.
Questa è una delle contraddizioni che più
sgomenta e che fa emergere con chiarezza la strumentalizzazione
delle posizioni iraniane. Cioè una pseudoguerra
tra civiltà all’interno della quale la
civiltà occidentale mette in campo le ragioni
di una sua legittimazione proprio sul piano delle ragioni
ultime della civiltà; e una delle contraddizione
più profonde è che questa civiltà
che si presuppone migliore dell’altra ha partorito
la Shoah, ha dentro questo buco nero novecentesco che
nessuna altra civiltà può vantare. Il
fatto che in Iran venga negato, disconosciuto l’Olocausto
in qualche modo sembra riabilitare questa civiltà
occidentale con cui loro si sentono in contraddizione
e in confronto. È un’operazione talmente
contraddittoria rispetto alle loro stesse ragioni che
dimostra tutta la strumentalità che è
legata al trovare dei processi per negare la legittimità
della la civiltà d’Israele. Diverso sarebbe
se loro invocassero come ragione di delegittimazione
l’eredità del mondo coloniale.
Reset: Infatti Yassin dice: “Noi
arabi non abbiamo alcun dubbio che sia avvenuto”.
È quel forsennato di Ahmadinejad che con quel
“se” attribuisce credito all’ipotesi
negazionista.
De Luna: Da quel punto di vista, sulle
cose che dice Colombo, terrei conto che le posizioni
iraniane riguardano uno Stato, che in qualche modo ha
bisogno di inventarsi una tradizione, ha bisogno di
avvicinarsi alla storia, come una sorta di supermarket
a cui attingere le risorse da spendere nella politica
immediata. Quindi da questo punto da vista siamo nel
pieno dell’uso pubblico della storia rispetto
alle posizioni iraniane. E con quella contraddizione
che dicevo: negare l’Olocausto vuol dire in qualche
modo riabilitare quella società occidentale che
in altre circostanze viene descritta come il regno di
Satana. Tornando al negazionismo, invece, che è
la questione che mi interessa di più, vorrei
che anche su questo fosse chiaro che l’arresto
di Irving non avviene sulla base delle sue posizioni
storiografiche. Irving ha messo a punto dei passaggi
che l’hanno fatto traslocare progressivamente
dall’ambito della ricerca storica a una posizione
individuale, personale fino a una posizione pubblica
e squisitamente politica. È un passaggio che
non si può ricostruire molto nitidamente rispetto,
per esempio, alle fonti che ha utilizzato. Egli deve
gran parte del credito di cui gode nella comunità
degli storici al fatto di aver potuto accedere a fonti
documentarie e testimoniali che appartenevano alla cerchia
dei più stretti collaboratori di Hitler. Eredi
di gerarchi nazisti gli hanno fatto vedere documenti
che altri non avevano mai visto. Oltre ad una forza
di fiuto per il documento che lo ha portato sulle tracce
di una documentazione sui bombardamenti di Dresda, che
gli ha fatto produrre documenti storiografici dignitosi.
Reset: Fu l’unico a capire che
il falsi diari di Hitler erano, appunto, falsi mentre
altri storici erano caduti nell’errore.
De Luna: Certo. Ma il passaggio successivo
è stato proprio quello: nel rapporto con le sue
fonti (gli eredi dei gerarchi nazisti, etc.) Irving
è andato al di là dell’empatia che
il suo ritorno di storico stabilisce come relazione
conoscitiva con le sue fonti. E ne ha fatto una sorta
di titolo inedito, si è vantato pubblicamente
di essere diventato il custode della memoria degli eredi
dei gerarchi.
Reset: Ma una cosa è fare lo
storico un’altra è fare politica.
De Luna: È bene puntualizzare
come è avvenuto il suo arresto in Austria: è
andato in Austria sapendo che c’era su di lui
un mandato di arresto, spiccato sulla base della legge
che noi conosciamo bene. Quando gli è stato detto:
“Ma se vai, ti arrestano”, ha risposto:
“Ma figurarsi, questi governi sono imbelli, non
ne sono capaci”. È andato lui stesso a
cercare una prova di forza. E gli austriaci lo hanno
arrestato applicando la legge. A questo punto l’altro
interrogativo da porsi è: queste leggi hanno
una loro ragione d’essere? È possibile
negare per legge la possibilità di una percorso
di mistificazione storica? Questo è un punto
che, vista la mia professione, mi riguarda molto da
vicino. Sono molto diffidente rispetto all’intrusione
dell’istituzione, soprattutto sul piano legislativo
nei confronti della ricerca storica. Anche perché
si aprono contraddizioni spaventose. Pensiamo al dibattito
sulla legge che rivalutava il colonialismo francese:
è un esempio dei grovigli interpretativi, storiografici,
politici e morali nei quali, quando si legifera in materia
storica, si può rimanere impigliati. Nel caso
del negazionismo, il problema è che queste leggi
– la legge austriaca è del ’46 –
le abbiamo nella nostra Costituzione, precisamente nella
disposizione che vieta la ricostituzione del partito
fascista.
Reset: E infatti in un articolo di
Marcello Flores pubblicato su questo stesso dossier,
Marcello Flores fa un’analogia tra la legislazione
austriaca e francese e le norme transitorie della Costituzione
italiana.
De Luna: Ma da dove nascono queste
norme? Guarda caso, sia l’Italia che l’Austria
avevano la perfetta consapevolezza che in quegli anni,
’45 e ’46, avessero partorito i “mostri”.
Consapevolezza di aver avuto in casa i germi che hanno
provocato l’infezione; di aver avuto in casa i
meccanismi che hanno prodotto la nascita del fascismo,
l’adesione alla Germania hitleriana e così
via. Durante un dibattito televisivo, un esponente di
Alleanza Nazionale ha detto a questo proposito: “È
come chiudere le stalle dopo che sono scappati i buoi”.
Non è così. Quei paesi, nel ’45/’46,
erano animati da un profondo spirito all’insegna
del “mai più quest’esperienza”,
con la consapevolezza che quest’esperienza non
era stata una parentesi che si potesse chiudere per
ricominciare tutto come prima. Quindi purtroppo ci voleva
un antidoto: la democrazia non poteva essere una democrazia
normale, ma doveva essere una democrazia rafforzata,
tutelata con delle norme giuridiche che individuassero
quel rischio e lo rendessero palese. Quelle norme perciò
nascono lì, da quella congiuntura storica. Non
sfidano le
leggi del garantismo e via dicendo. Con le norme contro
il negazionismo si va a toccare le ragioni ultime della
nostra società. La consapevolezza che ciò
che è successo, è successo qui, nel cuore
del nostro continente ed anche la spiegazione del groviglio
che tra memoria, storia e ricerca si è stabilito.
Reset: Una consapevolezza che rischia
di scomparire?
De Luna: Credo che oggi si stia delineando
un conflitto tra memorie. E la memoria di per sé
si nutre di identità, di appartenenza, di territorialità
anche virtuale. Gronda di passioni, di rancori, di conti
da regolare. Quello che è assente, quello di
cui si continua a sentire il bisogno è la storia.
Ci vorrebbe meno memoria e più storia. La storia,
nelle difficoltà che implica la ricerca, nel
confronto con le interpretazioni, nel confronto coi
documenti, nell’obbligo di dare le prove delle
argomentazioni che si sostengono, di confrontare con
gli archivi e con le testimonianze le proprie posizioni,
è di per sé una scuola di educazione alla
tolleranza ed alla cittadinanza. È una risorsa
di cui non si può fare a meno. Credo che, finché
questo dibattito così intricato ed infuocato
viene affidato semplicemente alla memoria, tutti corrano
dei rischi.
Reset: Molto chiaro. Torniamo al fatto
che su questi argomenti possiamo produrre idee, materiali,
iniziative capaci di ridurre la distanza e migliorare
la comprensione tra persone, visto che non c’è
un conflitto in corso tra mondo arabo, mondo egiziano
e cultura europea in questo momento, anche se le tensioni
che riguardano Israele attraversano tutta la riflessione
mondiale sulle relazioni internazionali. Non ci sono
conflitti in corso, eppure questi sono discorsi estremamente
difficili perché circondati da tabù da
entrambi le parti. Guardando alla prospettiva di un
miglioramento della comprensione possibile, riportando
questi argomenti al mondo arabo, a quelli come Yassin
e avendo le loro reazioni, ascoltando qualche voce americana,
possiamo forse fare qualche passo in avanti. Marcello
Flores, forse la sua posizione, espressa nell’articolo
che ha pubblicato in queste stesse pagine, è
più vicina a quella di De Luna che a quella di
Colombo. Vuole intervenire?
Flores: Credo sia incongruo mettere
sullo stesso piano la questione delle vignette e quella
del negazionismo. Tuttavia questo mi sembra sia un modo
di prende re poco sul serio la richiesta fatta dall’intellettuale
egiziano: quella di confrontarsi con una questione che
a noi appare non incongrua e non contraddittoria. Ma
appare tale agli altri. Allora, visto che viviamo in
un’epoca di globalizzazione in cui il conflitto
delle memorie e delle identità è così
rilevante nell’impedire una situazione di tolleranza
e di dialogo necessaria, si tratta di vedere come gli
altri si pongono rispetto a questioni che a noi sembrano
ovvie, solo perché storicamente radicate, laddove
non sono ovvie per gli altri. E questo lo dico soprattutto
perché stiamo parlando di cose estreme. Colombo
parla di una posizione estrema del giornale danese che
ha pubblicato le vignette. Certamente essa è
tale. Ma è anche vero che sulla base di quell’estremismo,
è poi possibile – facciamo l’esempio
dell’Italia – a persone che non sono estremiste
come Calderoli, ma che tendono a esserlo sempre più
– penso a Pera e alla Fondazione Magna Carta –
di utilizzare quel conflitto per riproporre il bisogno
di radici cristiane come unica identità occidentale.
Allo stesso modo il problema riguarda solo il negazionismo
dell’Olocausto, in cui le cose che hanno detto
entrambi mi trovano perfettamente d’accordo. Hanno
fatto una disamina molto approfondita. Però quel
tipo di posizioni estremamente minoritarie vanno messe
all’interno di una situazione che vede da diversi
anni, per esempio, e Colombo lo sa meglio di me, in
Germania, negli Stati Uniti e anche da noi, un discorso
in cui si dice che c’è un’eccessiva
strumentalizzazione dell’Olocausto. Lo vedo anche
come insegnante: i giovani che nascono in un mondo del
tutto “post” tutte queste cose, si domandano
quando parliamo di genocidi: “Ma perché
insistere soprattutto sull’Olocausto?”.
C’è un sentimento diffuso, in cui ci si
interroga, per carenza di informazioni, sul perché
dobbiamo guardare a quel momento particolare della storia
occidentale che è stato la Shoah. Tale interrogativo
oltre a necessitare di una risposta più ampia
e articolata sul piano didattico, divulgativo, mediatico,
della ricerca, etc., rischia di saldarsi con quelle
posizioni più estreme: allora è questo
quadro che dobbiamo avere di fronte per rispondere,
non con un moto di chiusura alle posizioni estreme con
cui ovviamente non c’è dialogo, ma per
cercare di andare oltre e di capire che cosa può
significare la creazione di un sentimento diffuso e
di una coscienza diffusa che può poi appoggiare
o favorire questo conflitto di memorie. Il fatto, per
esempio, che la gran parte delle università ha
una posizione tendenzialmente più palestinese,
questo ha una ricaduta di lettura anche della storia,
che quando non è fatta con tutti i crismi, tutte
le complessità, rischia poi di facilitare l’inserimento
di Israele fin dal nascita nel blocco Occidente voluto
dagli interessi di quest’ultimo, quasi una sorta
di prolungamento del colonialismo: ma le cose sono nel
complesso a volta addirittura opposte. Occorre un atteggiamento
di attenzione ai nuovi pregiudizi che nascono, e che
i vecchi pregiudizi e addirittura le vecchie posizioni
negazioniste possono rischiare di favorire se non li
affrontiamo apertamente. Sono molto d’accordo
a pensare a cosa fare per rispondere in positivo a questa
provocazione dell’amico egiziano.
Reset: Quali sono i passi che possiamo
fare, non solo per contrastare il negazionismo o l’estremismo
di uno Stato di un presidente come quello iraniano ma
per concedere a chi come Yassin dice: “Va bene,
voi occidentali avete un nervo scoperto su questo fatto
storico su cui le persone serie non hanno alcun dubbio,
ma esso influenza e condiziona una vostra parzialità,
un vostro partito preso nel conflitto mediorientale”.
Che cosa possiamo fare per diminuire il sospetto di
una posizione pregiudizialmente anti-araba nel mondo
europeo?
Colombo: Io credo che i due punti
fondamentali che dovremmo assumere nei confronti della
cultura araba sono: uno, il delitto è nostro;
due, l’assetto del Medio Oriente è vostro.
In altre parole: non c’è dubbio che il
delitto della Shoah non è loro. È nostro.
Ed è questa la ragione per cui si può
rispondere alla domanda “Perché insistere
tanto su quel momento?”. Questo vale per la Germania,
ma anche per la Francia di Vichy e l’Italia, senza
cui la Shoah non sarebbe avvenuta. Nel momento in cui
l’Occidente riconosce il proprio delitto e se
lo assume e lo fa diventare propria memoria, ma anche
propria pedagogia, riconosce anche il fatto che possa
accadere di nuovo e riconosce che accade attraverso
la viltà ed il conformismo. Si garantiscono così
dei processi pedagogici che hanno un’importanza
immensa per ogni altro arrivo di fascismo sulla faccia
della terra e si mette nelle condizioni di dialogare
alla pari con coloro che ci dicono “Avete creato
un delitto e poi ce lo esportate”.
E lì c’è il secondo aspetto: se
noi abbiamo il dovere di assumerci il delitto, la memoria
del delitto e la pedagogia del delitto, loro hanno il
dovere di assumersi l’assetto del Medio Oriente.
Mi riferisco a quello che è avvenuto negli ultimi
decenni, che è tutto artificiale. Lo Stato egiziano
di tipo nassiriano o post-nassiriano, dal quale ci sta
parlando Yassin, è nato dopo lo Stato d’Israele.
Prima era un protettorato inglese. Degli stessi inglesi
che rigettavano in mare gli ebrei profughi scampati
che riuscivano ad arrivare in vista delle coste palestinesi.
Più in generale, l’assetto del Medio Oriente
così come lo conosciamo (la Siria, la Giordania,
l’Iraq, l’Egitto, il Libano) con la complicità
e la partecipazione del Vaticano come potenza mondiale,
è tutto un prodotto artificiale e coloniale.
Di conseguenza Yassin deve accettare che noi siamo gli
autori della Shoah, ma loro devono riconoscere di essere
tutti il prodotto di un mondo coloniale deciso dagli
occupanti inglesi e francesi. Tutti, frutto di nazionalismi
fierissimi che si sono inventati nel momento in cui
francesi ed inglesi li hanno lasciati relativamente
liberi. A questo punto l’idea che Israele sia
stato creato dal mondo occidentale è sballata
perché è nato dalle Nazioni Unite, con
il voto dell’Unione Sovietica contro il Vaticano
e a pochi mesi di distanza da quando gli inglesi hanno
smesso di rigettare in mare gli ebrei scampati dall’Olocausto
in cerca di un rifugio. A questo punto chiedo a Yassin
di ricordare che l’intero assetto è artificiale,
che il mondo ha cercato, mentre i colonialisti si ritiravano,
di dare un certo ordine che ha un solo punto di equilibrio
dato dal tentativo delle Nazioni Unite di dare vita
allo Stato ebraico e a quello palestinese che purtroppo
non è nato. Quindi abbiamo un compito pedagogico
importantissimo: sì, è vero, la Shoah
è delitto europeo immenso, ed in particolare
tedesco, italiano e francese con Vichy. Però
dall’altra parte riconoscano di non essere i titolari
violati dal potere bianco, di antiche disponibilità
di territori arabi. Quei territori appartenevano all’impero
ottomano, caduti pezzo per pezzo per mano dei colonialisti
e poi ridistribuiti artificiosamente e perfino capricciosamente
dal colonialismo. Se ci fossero queste due posizioni,
allora potrebbe cominciare un dialogo.
De Luna: Il conflitto delle memorie
è completamente insanabile. Tale conflitto però
si avvale e trova le sue risorse in un meccanismo che
conosciamo bene: quello dell’invenzione della
tradizione. A cui siamo ricorsi anche noi. Ma che oggi
è molto dilagante: queste tradizioni inventate
non rimangono semplicemente così, ma diventano
scelte politiche, opzioni ideologiche e materia di conflitto.
L’idea di costruire un percorso di confronto tra
queste diverse vulgate, far capire ad israeliani e palestinesi
che le loro ferite sono condivise da tutto il mondo
postnovecentesco, che le contraddizioni che li lacerano
sono come quelle della ex Jugoslavia, per esempio, o
come quella dell’Urss dopo la caduta di Stalin.
L’idea di farli sentire parte di una congiuntura
culturale comune, sradicarli dalla materialità
del territorio che gronda identità ed appartenenza.
Far loro capire che sono inseriti in un circuito più
grande e far sentire loro che i loro problemi sono anche
i nostri problemi. È impossibile retrodatare
un’identità palestinese a prima del Novecento.
L’identità palestinese è frutto
di Israele, si definisce come identità antitetica
al nemico in casa. Ritornare alla storia, mettere a
confronti i percorsi della ricerca con quelli dell’invenzione
della tradizione, con quello del conflitto di memorie,
come dicevo prima, è una sorta di bonifica intellettuale
e per il mio mestiere è l’unica cosa che
posso consigliare. Trovare uno spazio comune in cui
il confronto tra le memorie venga ancorato ai percorsi
delle ricerca storica potrebbe essere un’iniziativa,
dal punto di vista didattico e pedagogico, che mi sentirei
di sottoscrivere.
Flores: Sono pienamente d’accordo
con quello che si diceva. Credo che su entrambi i punti,
quello delle colpe nostre e sulla Shoah e il modo di
rapportarci a questo e sull’aiutarli perché
facciano loro in modo migliore la sistemazione nuova
del Medio Oriente, dobbiamo in entrambi i casi allargare
il terreno dell’universalizzazione di questi problemi.
La Shoah è un problema nostro, ma è anche
diventato, per fortuna, un problema universale, tanto
è vero che la convenzione sul genocidio nasce
nel ‘48, e quindi occorre estendere questa reale
nuova cultura globalizzata, questa dimensione universale
che è la grande svolta di questo secolo; così
come dall’altra parte dialogare e aiutare le tantissime
organizzazioni non solo di tipo umanitario, ma anche
culturale miste israeliano-palestinese. Ecco dovremmo
dare un aiuto, farle conoscere perché sono la
dimostrazione che c’è la possibilità
di fare qualcosa mantenendo anche memorie diverse o
addirittura contrapposte. Penso al caso del libro “La
storia dell’altro”, tradotto anche in italiano,
in cui non arrivando alla possibilità di definire
una storia in comune dal ’48 in poi della Palestina,
ci sono due racconti differenti con in mezzo uno spazio
bianco per i commenti. Ma si dà la possibilità
di leggere anche la storia dell’altro, non rifiutandola
aprioristicamente e restando legati alla propria memoria.
Allora ricerca, divulgazione, contatti, confronto di
memoria, libri scolastici. Sarebbe anche interessante
poter fare documentari, lavori più impegnativi
e di impatto con l’opinione pubblica, grazie ai
quali si potrebbero avere risultati non indifferenti.
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