Da un
dossier pubblicato su Reset
numero 95, maggio giugno 2006, pubblichiamo questo articolo.
Allora la discussione prendeva spunto dal caso delle
vignette danesi e da una provocazione lanciata dall’intellettuale
egiziano Sayed
Yassin sul reato di negazionismo punito
con il carcere in alcuni paesi europei.
La questione posta da Sayed Yassin a proposito della
Shoah e della comparazione con la questione delle vignette
da molti può essere considerata inaccettabile.
Non sono di questo avviso. Io ritengo che la domanda
che pone Yassin sia saliente e che richieda una risposta
non condiscendente, ma esigente. Nella fattispecie riguarda
una questione di metodo, prima ancora che di contenuto.
Risponderò a Yassin che esiste un tratto di sacralizzazione
della Shoah, ma anche che esiste una discussione pubblica
sulla sua storicità, sulle dinamiche che la connotano
e sulla comparabilità. Questa discussione non
ha un carattere identitario. Ha un carattere storico
e riguarda la costruzione di una coscienza pubblica
avvertita e critica.
Quando si discute di Shoah, è di questo che
si discute, sulla base di tre principi. Ovvero:
la Shoah è un evento comprensibile e comparabile
nella storia;
quell’evento contiene elementi fondamentali che
costituiscono un archetipo dello sterminio contemporaneo
rispetto ai comportamenti dei carnefici, degli spettatori
e delle vittime. Ma anche in relazione alle tecniche
dello sterminio, alla radicalità del suo progetto,
all’apparato ideologico dispiegato, alla mobilitazione
sociale, all’uso del corpo dei perseguitati;
la questione della Shoah non riguarda esclusivamente
gli ebrei. In altre parole non è una questione
privata o esclusiva tra gli ebrei e il mondo. Con Primo
Levi dirò che riguarda ciò che “il
mondo, ovvero gli uomini, sono capaci di fare”.
Dei tre punti che ho premesso e che costituiscono il
fondamento della mia risposta a Yassin il più
problematico è sicuramente il secondo. È
quello su cui si è costruita nel tempo un’immagine,
una retorica e una coscienza pubblica della Shoah e
su cui, infine, si è prodotta anche una visione
sacralizzante della Shoah. Considerare la Shoah un archetipo
implica riconoscere che costituisce un distillato di
molti aspetti, ma che tutto questo non impedisce di
procedere per comparazione. Allo stesso tempo individuarla
come archetipo del meccanismo della modernità
(sulla scorta della lettura proposta da Zygmunt Bauman
nel suo Olocausto e modernità), implica
leggere quell’evento al di là e oltre lo
spazio geografico in cui si è collocato.
Dire che la Shoah anticipa e permette la modernità
compiuta, il rapporto tra potere e individuo nella società
attuale, implica riconoscere la operatività dei
suoi meccanismi a prescindere dalle ideologie che l’hanno
realizzata, e dal contesto geografico all’interno
del quale si è prodotta. C’è un
rapporto tra corpi e potere, tra potere e dominio e
governo del corpo degli altri che si inaugura ad Auschwitz,
ma che poi non si ferma a quei cancelli e invade la
nostra quotidianità di modernità compiuta.
Quotidianità che indifferentemente coinvolge
Tokyo, le baraccopoli brasiliane, Teheran.
Laddove il governo del corpo degli altri si esprime
attraverso l’espropriazione della possibilità
individuale e autonoma di decidere per sé, lì
è in atto una procedura il cui esito finale si
è dato nell’archetipo della Shoah. Può
piacere o no, ma nel momento in cui il presidente Ahmadinejad
dice ciò che dice sulla inesistenza della Shoah,
la conseguenza è una sola: gli altri, quelli
diversi o opposti al suo scenario sociale e culturale
non hanno diritto di esistenza. A essi è applicabile
la stessa morale pubblica in atto nei regimi totalitari
dell’Europa di metà del Novecento: l’approntamento
di treni da riempire di individui indesiderati –
comunque ingombri in quanto “si trovano dove non
dovrebbero trovarsi” – per inviarli verso
il nulla. Quando si indica in una realtà complessa
la fonte del “male” e nella eventualità
di eliminarla la possibile “salvezza” vuol
dire che nella testa di chi sta parlando, quei treni
hanno ripreso la loro funzione e la loro folle corsa
verso la morte e che quell’archetipo è
di nuovo all’opera.
Yassin propone una sovrapposizione e la propone a mio
avviso con un doppio proposito:
dire indirettamente che la questione della Shoah resta
un fatto occidentale mentre le conseguenze pratiche
di quell’evento (ovvero la nascita dello Stato
di Israele e il sostegno alla sua esistenza come prezzo
da pagare per quel precedente) ricadono in gran parte
sui paesi arabi (una realtà culturale e geografica
che, a giudizio di Yassin, con quell’evento non
ha nessun rapporto e men che meno responsabilità);
sostenere che la questione della non criticabilità
della Shoah se stabilisce un interdetto, egualmente
dovrebbe valere per la questione delle vignette su Maometto.
Non credo che l’ironia sia di per sé uno
strumento intellettuale distruttivo. Talora insieme
al sarcasmo, l’ironia è anche uno strumento
di conoscenza e non solo di giudizio. Non nego che assumere
entrambi come un giudizio contenga anche la convinzione
che l’oggetto sottoposto a ironia e sarcasmo rappresenti
un disvalore. Nelle vignette su Maometto c’era
anche un giudizio di questo tipo. In merito a questo
è d’obbligo esprimere un giudizio negativo.
Ma non c’era solo questo. C’era anche la
proposta che criticare i simboli e le credenze religiose
è possibile e non costituisce un interdetto.
In ogni caso la scena successiva alla pubblicazione
delle vignette in Occidente non è stata né
l’assalto a una moschea né la caccia al
musulmano o un pogrom anti-islamico nelle strade. Si
può protestare in molti modi. Bruciare in effigie
qualcuno comunque non è una scena accettabile.
Questo è un terreno a cui Yassin non può
sottrarsi, altrimenti questo è solo un dialogo
tra sordi – o peggio – un dialogo finto.
Il problema tuttavia è il seguente: in quelle
vignette c’era un giudizio complessivo sull’islam
e sul profeta? C’era un giudizio che riguarda
la struttura della credenza religiosa, una dissacrazione
della teologia? In quanto tale il discorso religioso
si sottrae all’analisi critica e alla decostruzione?
Non sono favorevole al fatto che vigano delle leggi
che limitano la libertà di pensiero e di espressione,
ma esse hanno una storia e con quella occorre confrontarsi.
Un sistema politico vara una legge che concerne la libertà
di espressione rispetto a ideologie o pratiche che hanno
avuto effetti distruttivi sulla vita degli individui
per due motivi: per fare i conti con una storia e dunque
prendere atto che si è dato un precedente e che
le risorse culturali e sociali per farvi di nuovo fronte
non garantiscono che non si ripeta. Oppure per esorcizzare
un problema. La differenza tra questi due atteggiamenti
riguarda non gli effetti di una legge o di un sistema
punitivo, ma le iniziative culturali che l’accompagnano
e dunque la discussione pubblica che si sviluppa e che
si intende sollecitare.
In ogni caso il varo di una legge implica un duplice
sguardo pessimista: da una parte sulla possibilità
che il passato della storia serva da memoria per il
futuro; dall’altra sulla eventualità che
ci sia una presenza intellettuale e culturale collettiva
in grado di mettere a tema l’attenzione sulle
forme di intolleranza e di insofferenza che hanno prodotto
fenomeni persecutori e stermini.
Nel caso specifico dello storico David Irving si può
dire che a) David Irving era consapevole che in Austria
vige una legge che avrebbe sancito l’atto che
stava compiendo; b) che si può discutere dell’opportunità
di arrestarlo, ma in ogni caso una legge o la si applica
o la si rimuove; c) che il varo di quella legge nel
caso specifico dell’Austria implica non voler
fare i conti con l’ambiguità di fondo che
ha connotato l’Austria negli anni dell’Anschluss
(1938-1945). In quel frangente infatti l’accoglienza
che fu riservata al Führer fu a dir poco entusiastica
e la memoria, dopo il 1945, di un paese che
si presentava come la prima vittima del nazismo era
quantomeno forzata.
Il punto, tuttavia, è che una legge o un interdetto
non nascono per evitare che una cosa accada, ma spesso
sono la risposta che una società politica sceglie
per prevenire il ripetersi di una cosa che ha già
sperimentato e che ha significato un limite alla libertà,
e talora alla vita, di individui. Ciò detto intendo
proporre a Yassin un ragionamento a proposito della
Shoah con il dichiarato proposito di invitarlo a riflettere
con identica modalità sull’islam e su Maometto.
Nella tesi di Yassin vedo due questioni: una di merito
e una di metodo.
Prima questione. La Shoah è un fatto storico.
Si può parlare di Maometto o il Corano come fatti
e prodotti storici, distinti rispetto all’ambito
del linguaggio teologico? Se la risposta è affermativa
allora la comparazione su come si discute di Shoah e
su come si discute di Maometto può proseguire,
altrimenti la proposta di Yassin rischia di essere una
provocazione intelligente, ma non pertinente. In altre
parole un escamotage per evitare di discutere un problema,
anzi per invitare ad erigere una nuova barriera alla
libera discussione.
Seconda questione. Per parlare di fatti storici occorre
una metodologia. Non credo di forzare se propongo che
la questione di Maometto e delle vignette concerne la
scienza della religione. Se è così lo
strumento per affrontarla non è la teologia,
bensì la storia della religione come fatto storico.
Vi rientrano molti aspetti: per esempio la storia della
pietà; quella della fede popolare; quella del
sentimento del sacro; quella della costruzione del testo
sacro di riferimento; quella dei commenti e delle interpretazioni.
E da ultimo la costruzione della identità religiosa
come costrutto storico. Rimango alla questione della
Shoah e delle procedure di analisi che quella questione
richiama.
Di che discutiamo, quando discutiamo della Shoah? Di
due cose essenzialmente: 1) discutiamo di noi, dopo
di allora e più direttamente di noi, di tutti
noi, oggi. Ovvero di noi qui e ora e del nesso che stabiliamo
con un passato che ci riguarda; 2) discutiamo non solo
di un oggetto e di un evento, ma anche del suo montaggio.
La questione della memoria della Shoah è sicuramente
un problema. Scrivo la memoria della Shoah e non la
Shoah perché la Shoah è un fatto avvenuto
nella storia e la sua memoria, ovvero la conservazione,
la ricostruzione e il confronto con quell’evento
costituisce per molti aspetti una fonte di inquietudine.
Con il trinomio conservazione, ricostruzione e confronto
intendo in quale luogo della nostra scala di valori
e in quale luogo della nostra riflessione pubblica noi
collochiamo quell’evento e il confronto con quel
fatto. Tutti questi passaggi, tuttavia non riguardano
fatti, concernono atti, ovvero chiamano in causa modi
di pensare, scale di valori e forme dell’agire,
individuali, collettivi, pubblici. In una parola: procedure
di costruzione per una politica della coscienza pubblica.
La narrazione della storia spesso viene fatta coincidere
con l’esposizione dei fatti. Ma i fatti sono degli
elementi attraverso i quali si esprime il rapporto con
la storia da parte di coloro che vogliono discuterne.
Quel rapporto non è definito dai fatti, ma da
pratiche. In quelle pratiche rientrano mentalità,
convinzioni, procedure di indagine, informazioni, letture,
esperienze, memoria pubblica e individuale.
In breve quelle pratiche non sono i fatti e agiscono
accanto a noi, a ciascuno di noi, mentre discutiamo
e “ricostruiamo” scenari di fatti. Diversamente,
se noi sovrapponiamo fatti e pratiche e tutto diventa
“fatto” allora discutiamo di uso politico
della storia. Ma allora bisogna dichiarare qual è
il fine della propria riflessione, e il montaggio della
propria esposizione.
La riflessione pubblica sulla storia non è un
giallo in cui la scoperta dell’assassino si trova
all’ultima pagina. Giocare al gioco delle tre
carte quando si discute di storia e di passato, soprattutto
se quel passato mobilita emozioni, sentimenti e risentimenti,
non è accettabile. In ogni caso non ne vale la
pena. Provo allora a riepilogare. Nella storia della
Shoah e nel valore che ha la memoria della Shoah, la
sfida consiste nel sottrarsi all’eventuale attrazione
verso l’ineffabile o il “terrifico”
e dunque scavare fino a far emergere tutti gli “aspetti
di razionalità” che in essa si sono espressi.
Trovare gli “aspetti di razionalità”
implica comprendere. E comprendere implica rinunciare
o opporsi alla sacralizzazione, per scegliere la compararazione.
La Shoah non è un fatto misterico e per comprendere
quel fatto storico occorre scavare per ritrovare uomini
e donne che hanno agito, scelto, pensato dentro al dispiegarsi
di quell’evento. Ovvero occorre accanto alla “storia-battaglia”
degli eventi, scavare sulle mentalità e occuparsi
della storia culturale che agisce in quegli eventi,
che si costruisce nel corso di quegli eventi
e di quella che rimane dopo quegli eventi. Tutto ciò
senza trascurare, peraltro quel kit di risorse culturali,
di significati, di luoghi comuni, in breve quell’archivio
di elementi culturali che preesistono a quegli
eventi. E allo stesso tempo occorre occuparsi anche
di coloro che hanno subito quell’evento e che
hanno reagito ad esso riscrivendo una parte della loro
identità collettiva e individuale attraverso
procedure di sacralizzazione o di assolutizzazione,
di nuovo proponendo comparazione, distinzione.
La storiografia ha posto continue sfide alla sacralizzazione
della Shoah: ha posto il problema della “zona
grigia”, della collaborazione, della definizione
delle procedure di sterminio. E allo stesso tempo la
ricerca storica ha posto non solo il problema della
comparazione, ma anche quello della memoria come non
sacralizzazione. In breve, della dimensione umana –
ovvero fatta da uomini – della vicenda della Shoah.
Un’operazione che ha sottratto la Shoah al fascino
dell’idea di destino e della spiegazione di tipo
fatalistico. E che ha consentito la comparazione.
Questo non ha impedito che ci sia sacralizzazione;
che si producesse un’idea diffusa della Shoah
come fatto assoluto nella storia. Ma la riflessione
pubblica ha fatto sì che nel tempo si predisponessero
procedure culturali, strumenti, sensibilità in
grado di opporvisi. Credo che sia possibile affrontare
e discutere la questione di Maometto, del Corano e dell’identità
islamica oggi secondo le stesse procedure. O, almeno,
questa ritengo sarebbe una sfida all’altezza dei
nostri tempi. La parola, se vuole, è a Yassin.
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