Quattro lunghi
mesi è durata l’avventura kafkiana di Ramin
Jahanbegloo.
Il mite pensatore liberale iraniano, membro del comitato
scientifico dell’associazione Reset Dialogues
on Civilizations, è stato arrestato senza motivo
il 27 aprile 2006 dalla polizia della Repubblica Islamica
dell’Iran, ed è stato rinchiuso senza alcuna
spiegazione a Evin, carcere cui sono destinati i nemici
dello Stato e che da tempo è segnalato da Amnesty
International per le sue ordinarie torture (nel 2003
vi morì la fotogiornalista Zahra Kazemi, iraniana
con passaporto canadese proprio come Ramin). Jahanbegloo
è stato liberato su cauzione il 30 agosto. In
quattro mesi ha potuto vedere solo raramente la moglie
Azin, e non gli è stato neanche concesso un avvocato.
In favore del giovane filosofo, docente di studi contemporanei
presso il Cultural Research Bureau dell’Università
di Teheran e autore del libro “Conversazione con
Isaiah Berlin”, si sono mobilitati associazioni,
istituzioni e individui di tutto il mondo. Tra gli appelli
per la liberazione vanno ricordati quelli dell’Ue,
della rivista italiana Reset, del magazine francese
Esprit, di un gruppo di intellettuali arabi e di 132
riformisti iraniani. Hanno firmato gli appelli intellettuali
di fama mondiale, da Michael Walzer a Umberto Eco, da
Noam Chomsky a Giuliano Amato.
Jahanbegloo è stato rilasciato dopo aver ammesso
di aver minato la sicurezza nazionale aiutando involontariamente
servizi segreti stranieri. Per il ministro dell’intelligence
Mohseni Ejehi, fomentava una “rivoluzione di velluto”
agli ordini degli americani. Accusa che è chiaramente
infondata, mentre la confessione è chiaramente
estorta. Ex professore all’Università di
Toronto e a Harvard, un dottorato alla Sorbona di Parigi,
Jahanbegloo vanta più di venti pubblicazioni
in inglese, francese e farsi. Intellettuale illuminato
moderato e liberale, 46 anni, una moglie e una figlia
di dieci mesi, è noto in Europa, in America e
in India. Esplicito sostenitore della non violenza gandhiana,
in occasione della conferenza organizzata al Cairo da
Reset Dialogues on Civilizations a inizio marzo aveva
discusso una relazione intitolata Oltre
lo scontro tra intolleranze. Nell’ultimo anno
si è esposto coraggiosamente, organizzando seminari
su autori ebrei come Hannah Arendt, scrivendo dell’espansione
della democrazia in Iran, e criticando l’antisemitismo
del presidente Mahmoud Ahmadinejad sul quotidiano spagnolo
El Paìs.
Appena rilasciato, Jahanbegloo è stato condotto
davanti all’agenzia di stampa studentesca Isna,
per un’intervista in cui è difficile riconoscere
il pensiero del filosofo iraniano. Ramin vi racconta
di esser stato strumentalizzato dalle associazioni e
dalle riviste straniere con cui ha avuto contatti in
questi anni e a capo delle quali ha ora scoperto esservi
agenti dei servizi segreti stranieri. L’occasione
dell’arresto era stata fornita da un testo che
Ramin aveva presentato al German Marshall Fund, in cui
la situazione iraniana viene paragonata a quella dei
regimi dell’Est Europa prima dell’89, una
situazione in cui cioè la società civile
è pronta ad abbattere la tirannia. Nell’intervista
alla Isna Jahanbegloo spiega di esser stato ingannato:
credeva di aver fornito un semplice contributo intellettuale,
mentre quel testo venne usato per fini politici. Poi
critica la democrazia di tipo americano, e racconta
che il trattamento che ha ricevuto a Evin è stato
buono, sicuramente migliore di quello che gli americani
hanno riservato ai prigionieri di Abu Ghraib o di Guantanamo.
L’intervista, a quanto si apprende, era solo
metà del prezzo da pagare per ottenere la libertà
e il passaporto (con il quale Ramin pare voglia tornare
a studiare e insegnare in India, dove ha vissuto nei
sei mesi prima dell’arresto). L’altra metà
è rappresentata dall’ipoteca su due case,
la sua e quella della madre, che rappresentano appunto
la somma della cauzione. Così l’Iran manda
un messaggio ai suoi dissidenti, ai quali negli ultimi
mesi ha già ordinato di non partecipare a convegni
all’estero e di non rilasciare interviste a giornali
stranieri. Così l’Iran manda un messaggio
di chiusura al mondo, umilia e zittisce uno dei suoi
figli migliori, invece di sostenerlo e farlo conoscere
al mondo.
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